Avere vent’anni: MAYHEM – Chimera

Sono estremamente legato a Chimera, per svariate ragioni. In primis di carattere personale, perché lo lego ad un momento entusiasmante della mia vita in cui riuscivo a fare centomila cose nell’arco di una giornata, dormendo quattro ore a notte, svegliandomi fresco come una rosa. Un periodo in cui a Roma si tenevano decine di concerti a settimana e in cui riuscii a vedere dal vivo anche i Mayhem in un Alpheus stipatissimo, occasione in cui conobbi per la prima volta il noto filosofo di redazione, Giorgio Heidegger, e anche dopo vent’anni ricordo l’espressione sgomenta di alcune signore di mezz’età che ci sentivano disquisire sulla”interprestazione” della copertina del disco e se effettivamente ritraesse “una suora sgozzata da un diavolo”. E quindi, alla faccia di qualche commentatore sconvolto, forse per me il black metal significa anche amicizia.

A parte queste circostanze, che di certo incidono sul mio sentimento verso l’album, per me Chimera resta l’ultimo grande album dei Mayhem. Un’affermazione forte, mi rendo conto, perché, se ci muoviamo tra i parametri dell’oggettività, un album come Ordo ad Chao è oggi maggiormente considerato ed elogiato, ma per quanto mi riguarda rappresenta, in realtà, la fine di una sperimentazione che i norvegesi hanno portato avuto avanti sin dagli esordi. Un’evoluzione che – seppur in modo completamente diverso rispetto alla loro epoca storica, che rappresenta tutt’ora uno dei punti più alti della musica tutta – era estremamente presente anche nella formazione basata sul “duo” Maniac/Blasphemer, che, per quanto mi riguarda, ci ha regalato uno straordinario EP (Wolf’s Lair Abyss), un album tanto sottovalutato quanto straordinario e irripetibile (Grand Declaration of War) e un grandissimo disco come Chimera, solo apparentemente più classico rispetto al suo predecessore. E infatti, pur essendo assenti alcune sperimentazioni più evidenti dell’album precedente, l’ossatura di Chimera resta la stessa, basata su riff circolari, freddissimi e ripetuti incessantemente che si fondono nelle ritmiche marziali e “disumane” tracciate da un Hellhammer, che non si potrebbe mai elogiare abbastanza.

Ma ciò che rende davvero unica questa pozione è l’apporto di Maniac, sia a livello di interpretazione che di testi, che pur discostandosi ampiamente da alcuni cliché del genere sono la quintessenza del nichilismo e… della malvagità. Non riesco a trovare un termine migliore, infatti, per descrivere quella sensazione di totale caos e cattiveria che è l’iniziale attacco all’arma bianca di Whore (Intermented in my inhumanity, interdicted from the human face) o il puro e incontaminato odio che traspira da una Rape Humanity With Pride. Anche quando il tempo è più marziale e meno concitato, come in My Death, i risultati non cambiano, e seppure i due pezzi centrali non siano tra i più memorabili, la coda dell’album è a dir poco clamorosa, con la nervosa Impious Devious Leper Lord e la conclusiva Chimera, tra i brani migliori del disco, con un testo molto vicino a quelli del suo predecessore (“It does indeed exist in parts of your neural commitments to the mind body, or does evil exist?”).

In conclusione, un lavoro unico e irripetibile – tanto che è rimasto tale – e che ha portato i Mayhem ad un nuovo corso che, seppur con risultati interessanti, non mi ha mai più emozionato come in passato. (L’Azzeccagarbugli)

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