Avere vent’anni: TANKARD – B-Day

B-Day è con tutta probabilità il mio album preferito dei Tankard. Non me ne vogliano i classici, sono bellissimi. Lo è il primo con l’eccellente classico Empty Tankard, che a suo tempo coverizzai pure, e lo è Chemical Invasion (il mio preferito fra gli storici) al pari con The Morning After. Ho una particolare predilezione persino per Two Faced e The Tankard, l’accoppiata partorita a ridosso della parentesi Tankwart. Ma se c’è un album dei Tankard che periodicamente riascolto con piacere, e senza scartar niente, è questo qua.
All’uscita ne pubblicai un’entusiastica recensione su una webzine oggi scomparsa, e dopo vent’anni la mia opinione è pressoché immutata. Direi che a risaltare in esso sono le proporzioni: M-16 è un bellissimo disco, ma non è Agent Orange; e paragonare il pur buono Violent Revolution ai classici dei Kreator comporta l’aver pronunciato una blasfemia immonda. Vale lo stesso per i redivivi Destruction di The Antichrist: avevano fatto il massimo per gli anni che correvano.
I Tankard fecero il loro capolavoro, un disco ispiratissimo in cui finalmente il nuovo chitarrista Andreas Gutjahr, sostituto di Bulgaropulos, cominciò a fare la differenza. Il che significò meno punk e più thrash metal coi riffoni quadrati, il solito concetto per cui se una band thrash tedesca suona bene si finirà per invocare l’appellativo “riff americani” anche se le cose non stanno affatto così. B-Day era tedeschissimo, come al solito. Soltanto non lo era quanto una vomitata addosso da uno sconosciuto.
L’atmosfera richiamava vagamente The Tankard del 1995 in salsa più cazzona, con titoli geniali come New Liver Please! (un nuovo fegato, grazie) ed estratti dal passato come la favolosa Rundown Quarter, riedita direttamente da Heavy Metal Vanguard del 1984, la loro primissima incisione.
L’inizio è una fiammata inarrestabile. Notorious Scum, Rectifier, Need Money for Beer, Ugly, Fat and Still Alive. Arrivi ad Underground, mid-tempo di roccia, e quasi ringrazi per aver avuto una tregua. Poi l’incalzante Voodoo Box e Sunscars con quella strofa, a proposito di americani, un po’ alla Metallica. Americanità tolta di mezzo all’istante dalla festaiola Zero Dude, episodio direi nella norma, mentre l’altra meraviglia sta in fondo e corrisponde al nome di Alcoholic Nightmares. Un viaggio quasi senza soste.
Per chi scrive, i Tankard, seconda linea del thrash metal tedesco, scrissero il loro miglior lavoro agli albori del nuovo millennio. C’è chi pensa lo stesso dei Testament, non il sottoscritto, ma fu difficile trovare altre icone degli Ottanta in una forma così smagliante in un periodo in cui il thrash metal ancora doveva capire dove andare a parare, o di cosa morire un’altra volta. E invece rinacque, forse proprio a cavallo fra il 2001 della triade tedesca e l’annata seguente. E un po’ di merito lo dobbiamo pure al pancione di Gerre e alla sua alcolizzatissima cricca.
Nota a margine: questi qua ci concessero un’intervista al Siddharta di Prato in un rovente pomeriggio a ridosso del concerto. Ci accolsero nella saletta che nel post-concerto era trasformata in DJ Set e sala da scapoccio, e stabilirono che l’unica condizione per poterli intervistare era bere con loro. Avevano un bidone pieno di ghiaccio e lattine di birra, e io uscii di lì completamente storto. (Marco Belardi)
Ultimo capoverso, poesia.
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