Avere vent’anni: novembre 2003

WATAIN – Casus Luciferi

Griffar: È opinione abbastanza diffusa all’interno della redazione che i Watain siano una pantera nera appesa ai maroni. Di Casus Luciferi nessuno voleva scrivere nulla, dunque me ne occupo io con un breve commento. In realtà Casus Luciferi non ha nulla che non vada. Non è un disco che si possa definire mediocre o peggio: è un discreto black metal fatto da gente che ad un certo punto si è svegliata ed ha ragionato in questo modo: “I Dissection non esistono più. Se riempissimo noi il vuoto incattivendone un po’ il suono? Che ne dite, secondo voi facciamo il botto? Suonare sappiamo farlo anche bene, scrivere pezzi piacioni pure, perché non tentiamo?”. Evidentemente sì, lo hanno fatto, visti i dati di vendita e la quantità di blackster che considerano imprescindibili i ragazzi svedesi e la loro musica. Che è fortemente legata al loro look estremamente satanico, cosa che impressiona poco chi ha una lunga militanza nell’ascolto di metal estremo ma che evidentemente funziona per i neofiti o i blackster ancora in tempesta testosteronica forza 1000. Se vi può interessare un disco black formalmente senza difetti, ma che a mio parere solo in rari momenti risulta riuscito e coinvolgente, ascoltatevi pure Casus Luciferi, male non fa e comunque meglio questo che le celebrazioni che Elodie fa delle sue scopate. Chi vuole ascoltare quello che per me è l’unico buon disco dei Watain recuperi Rabid Death’s Curse, avrà più soddisfazione. Piccola curiosità: il vinile di quest’ultimo viaggia su Discogs ad oltre 600 euro di valutazione. Io la mia copia sto cercando di venderla da anni a 400 ma non si è mai fatto avanti nessuno. Casomai v’interessasse contattatemi su Telegram, ma temo finirò per tenermelo.

FALCONER – The Sceptre of Deception

Barg: È quindi giunto il momento di trattare The Sceptre of Deception, pietra dello scandalo dei Falconer e argomento che all’epoca fu capace di scatenare discussioni lunghissime e infuocate tra gli appassionati. Il motivo è molto semplice: questo fu il primo disco dei Falconer senza Mathias Blad, il cantante originale, qui rimpiazzato da tale Kristoffer Göbel, che nessuno aveva mai sentito prima. Gli argomenti dei detrattori del disco furono convincenti, immagino, perché Göbel durò solo due dischi prima del ritorno acclamatissimo di Blad. Sembra un normale avvicendamento tra cantanti come ce ne sono sempre stati, con tutte le solite polemiche di contorno, ma qui c’è qualcosa di diverso. Sì, perché da un lato Blad era un cantante incredibile, uno dei più originali e riconoscibili mai sentiti in un disco power metal, mentre Göbel era meno che mediocre. Qualcuno ai tempi diceva che lo stile di The Sceptre of Deception, più complesso e leggermente più cupo del solito, era più adatto allo stile del nuovo cantante, ma è una cazzata. Anzi, sembra proprio che abbiano preso il primo che passava di lì e non si siano manco sforzati nella ricerca. Qui, a dire la verità, il vecchio Mathias è presente come ospite in qualche pezzo, ma la scena se la prende tutta l’altro, e non è un bel sentire. Detto questo, The Sceptre of Deception è un buon disco, che devia leggermente dal percorso tracciato dai primi due album e prova a osare qualcosa di diverso. Necessita di qualche ascolto in più rispetto al solito, però, una volta passato lo scoglio della nuova voce, non mancherà di dare le sue soddisfazioni. Del resto sono sempre i Falconer.

EINHERJER – Blot

Michele Romani: Blot degli Einherjer conferma la nuova direzione sonora presa dalla band norvegese, che con questo disco segna il definitivo allontanamento dalle tipiche sonorità viking metal degli esordi, già comunque cominciato col pessimo Norwegian Native Art. Rispetto al precedente c’è da segnalare innanzitutto l’abbandono del cantante Ragnar Vikse e di conseguenza della voce pulita, protagonista assoluta di quell’Odin Owns Ye All del 1998 che a distanza di anni continuo a reputare il miglior disco della band di Haugesund. Per il resto ci troviamo di fronte ad un disco di heavy-pagan metal granitico e massiccio in pieno stile Einherjer, che rispetto a Norwegian Native Art mette da parte le malriuscite sperimentazioni e aumenta la quantità di tastiere nel tentativo di creare una maggiore atmosfera. Il problema degli Einherjer fondamentalmente resta sempre il solito, cioè il loro suono talmente compatto e monolitico da diventare presto noioso e ripetitivo, visto che a volte si arriva a provare la sensazione di ascoltare sempre lo stesso brano, compresa la tanto strombazzata Ironbound (di cui fu anche girato un video) che ti lascia veramente poco o nulla. Un disco sostanzialmente evitabile, così come il resto della discografia della band.

KATHARSIS – Kruzifixxion

Griffar: Chi ha sempre goduto di un’incomprensibile aura di adorazione sono i tedeschi Katharsis, onestissimo gruppo di palese derivazione DarkThrone fin dagli albori, più o meno il 1995. Dopo quattro demo e due split, la Sombre records (etichetta allora elitaria come poche) nel 2000 ne pubblicò il debutto, 666, in sole cento copie, cosa che ne fece un oggetto ricercatissimo dai collezionisti di tutto il mondo (oggi ha prezzi idioti, è stato venduto sovente a più di 1000 euro). Io invece scambiai la mia copia con qualcosa di per me più significativo, perché continuo a pensare che sia un decente black metal darkthroniano e nulla più. Per la cronaca è anche uno dei dischi più bootlegati della storia. Questo secondo album uscì per la Norma Evangelium Diaboli: i pezzi si sono allungati, il tremolo picking e i blast beat continui, appena inframmezzati da soluzioni un po’ meno violente. In tutti i riff continua ad aleggiare lo spirito dei DarkThrone, ma in un’ottica religious black. La tensione è molto alta, la sensazione di disgusto e disprezzo per la religione cattolica imponente, il cantante sembra un indemoniato mentre vomita versi di adorazione a Satana mutilandosi le corde vocali. Sono sei pezzi effettivi per una quarantina di minuti di musica. A me Kruzifixxion piace, è violentissimo e ha alcuni riff non banali e assai interessanti, ma a mio parere non giustifica la venerazione che i blackster hanno tuttora per il gruppo, nonostante quest’ultimo non esista più da oltre dieci anni. Una buona band che ha scritto buona musica, non certo dei fenomeni.

SUN KIL MOON – Ghosts of the Great Highway

Barg: Una ventina d’anni fa un tizio su un forum scrisse che Medicine Bottle dei Red House Painters era “il tipo di musica che avrebbe scritto Leopardi”. Incuriosito, andai a sentirmi il pezzo in questione. Non c’entrava ovviamente nulla con Leopardi da qualunque parte lo si considerasse, ma del resto il tizio era un perfetto imbecille e quindi non è che mi aspettassi chissà che. Però scoprii qualcosa di bello, ovvero i Red House Painters, una specie di cantautorato sommesso dalle atmosfere cupe e i ritmi molto ma molto lenti. E scoprii anche l’esistenza di Mark Kozelek, cantante/leader della band, curioso personaggio che in qualche modo associo a Billy Corgan, essendo entrambi due dispotici capetti dal carattere iracondo, capriccioso e potenzialmente violento, con tendenze misantropiche e passivo-aggressive. Ghosts of the Great Highway è il debutto del secondo gruppo di Kozelek, nato dalle ceneri dei Red House Painters: è sinceramente bellissimo, difficile da sentire in un colpo solo in quanto lungo, prolisso e depressivo, ma comunque bellissimo. Sa di Midwest americano, di torta di mele e di malinconia per i vecchi amori finiti male. Carry me Ohio è una delle mie canzoni della vita.

EXPLOSIONS IN THE SKY – The Earth is not a Cold Dead Place

L’Azzeccagarbugli: A volte, anche di fronte ad album straordinari, non servono tante parole. I texani Explosions in the Sky, che fanno parte dell’ultima infornata di band del “secondo” post-rock, rientrano tra coloro i quali hanno contribuito a plasmarne il suono e sono senz’altro tra i più alti esponenti del genere. Forse i più struggenti, quelli più sentimentali e con una proposta meno incentrata sui contrasti; e con The Earth is Not a Cold Dead Place raggiungono il loro apice incontrastato. Cinque brani, cinque movimenti di un’unica sinfonia che, senza l’uso delle parole, è la migliore possibile colonna sonora per i momenti di “crisi” che tutti attraversiamo, tanto che l’album è stato inserito tra i dischi più rappresentativi del post 9/11, pur avendo i nostri sempre confermato di non essere stati influenzati, almeno consciamente, da quella tragedia. Ciò che resta sono brani che ti dilaniano l’anima fin dal primo ascolto, e ogni volta che parte First Breath After Coma è difficile non emozionarsi, oggi come ieri.

EWIGES REICH – Thron aus Eis

Griffar: Thron aus Eis è il terzo album dei tedeschi Ewiges Reich, gruppo che non è mai riuscito ad emergere più di tanto, specialmente oltreconfine. In Germania qualunque scalmanato si chiuda in cantina con qualche strumento musicale e se ne esca con una cassettina autoprodotta da schifo diventa comunque la next big thing con legioni di adepti adoranti, ma questo giochino non funziona in tutto il mondo. Di base hanno sempre suonato fast black metal, ispirato principalmente ai Marduk periodo NightwingPanzer Division (il cantante ha cercato di imitare Legion per tutto il corso dell’esistenza della band, sciolta nel 2016 dopo altri tre full, gli ultimi due dei quali ignorati dai più), ma prendendo come punto di riferimento anche i loro conterranei Endstille. Troviamo allora riff in tremolo picking lanciati a tutta velocità e accompagnati da una batteria in continuo blast beat, sebbene tenuta stranamente in sordina nel mix. Erano tuttavia capaci di divagare, tipo la sorprendentemente lenta e piuttosto lunga Im Verborgenen… (oltre sette minuti) o la prima parte della title track, thrash veloce che poi evolve nella consueta carneficina. Nessuno dei dischi degli Ewiges Reich è brutto o scadente, perché ci si diverte sempre e loro s’impegnano a sangue a mettere stacchi di qualsivoglia tipo – dall’arpeggio al cambio di tempo, dal rallentamento doomy all’arrangiamento di tastiera in sottofondo – per rendere i pezzi più accattivanti e interessanti, ma alla fine quello a risaltare maggiormente sono le parti più veloci coi riff zanzarosi, in cui si trovano più a proprio agio. Questo non li affranca dalla nomea di band di seconda fascia, alquanto derivativa: non è che se uno non si ascolta almeno un disco degli Ewiges Reich non sa cosa si è perso nella vita. Non è neanche tempo sprecato… ma i loro album oramai risiedono in un limbo polveroso.

CRYSTAL BALL – Hellvetia

Barg: Vivo a Milano e qui gli svizzeri non sono visti benissimo. Mi capita poi ogni tanto di andare in Svizzera e lì gli italiani non sono visti benissimo. Questi svizzeri che chiamano l’album Hellvetia mettendoci in copertina un franco svizzero e facendolo cominciare con uno yodel rappresentano plasticamente lo stereotipo: chiome vaporose da pubblicità dello sciampo e aria trasognata da bambacioni di chi vive in un posto in cui puoi girare alle tre di notte agitando per aria una mazzetta di banconote e stare tranquillo. La loro musica si incastra benissimo nel contesto: un hard rock ritornelloso da stadio in cui tutto è al proprio posto e tutto è assolutamente innocuo. Il disco è prodotto da Stefan Kaufmann, una delle figure chiave del metallo tetesco, avendo legato il proprio nome a doppio filo con quello di Udo Dirkschneider (prima con gli Accept come batterista, poi con i vari gruppi solisti di Udo come chitarrista, oltre ad averne prodotto la maggior parte degli album), ma non c’è nulla dell’aggressività del vecchio leone ossigenato nel suono di Hellvetia. Alcune melodie sono anche carucce, tipo My Life o Forever and Eternally che ricordavo dall’epoca (li vidi ad un Agglutination di tanti tanti anni fa), ma è tutto davvero troppo all’acqua di rose. E complimenti per il nome, mannaggia.

NARGAROTH – Geliebte des Regens

Michele Romani: Sono uno di quelli che non ha mai compreso fino in fondo come abbia fatto Nargaroth a diventare una figura quasi di culto all’interno della scena black metal. La sua discografia si districa da sempre tra dischi mediocri e appena sufficienti, categoria quest’ultima in cui possiamo inserire questo Geliebte des Regens. Il full in questione segue di due anni il clamoroso successo (per me incomprensibile) di Black Metal ist Krieg ed è un disco profondamente diverso. Non più un Kanwulf avvelenato contro i traditori della sacra nera fiamma che hanno contribuito a far diventare il black uno sporco business, ma un Kanwulf malinconico e riflessivo, che esprime in questo disco il suo incondizionato amore per la natura e la volontà di lasciarsi tutto e tutti alla spalle. Musicalmente siamo in piena fase depressive black metal, e si sente anche un’influenza pazzesca del Conte periodo Filosofem, nelle atmosfere ma soprattutto nella ripetitività dei riff portata qui a livelli estremi. Personalmente non ho nessun problema con i dischi che fanno del minimalismo sonoro il proprio cardine, ma qui siamo oltre ogni limite, come ad esempio nell’iniziale Manchmal wenn sie schläft, pezzo di 22 minuti che contiene tre-quattro accordi che si ripetono allo sfinimento per tutto l’arco del brano, ed è un peccato perché rimane l’unico veramente bello. La successiva non è niente di che, poi ce n’è una che dura 14 minuti e per i primi 9 c’è un solo riff, dopo ancora c’è la versione demo della prima traccia (ci voleva proprio). Infine c’è l’outro. Disco terminato, un’ora e tredici minuti.

CONSTRUCDEAD – Violadead

Barg: Nel 2003 eravamo intasati da miliardi di gruppi death/thrash in stile At the Gates, gruppi che o erano scandinavi o fingevano di esserlo. I Construcdead venivano da Stoccolma, quindi quantomeno erano scandinavi originali. Ed è l’unica cosa per cui possono essere definiti originali, perché per il resto Violadead suonava esattamente come la massa di dischi che invadeva il mercato in quel periodo. Che poi qualche anno prima, quando c’era l’invasione del power metal, è vero che uscivano un sacco di cose per cui non avresti speso soldi manco se da ciò fosse dipesa la tua vita, ma erano usciti pure alcuni tra i maggiori capolavori del genere. Col death/thrash di quegli anni no: il disco di riferimento era grossomodo soltanto quello lì, quindi il genere, asfittico in partenza, non aveva granché da proporre. Poi sì, ne prendi uno a caso, ne ascolti qualche pezzo e può darsi che ti prenda bene; ma provate a sentire un disco intero, o addirittura più di uno, e poi ditemi se vi sentite ancora i malleoli intatti. Nello specifico Violadead prova a variare un po’ sul canovaccio inserendo ritornelli in voce pulita con melodie americaneggianti; alla lunga il giochino è stucchevole, anche perché di solito queste operazioni finiscono col puntare tutto o quasi sul ritornello e trascurare il resto. In ogni caso qui qualche pezzo carino o quantomeno ascoltabile c’è, soprattutto Hate e Wounded; ma starsi a sentire tre quarti d’ora di ‘sta roba nel 2003 sarebbe chiedere davvero troppo.

REGNUM/SVARTHAL – split (Im Grabesdunkel/Northern Winds)

Griffar: Questo è il primo dei due split che i tedeschi Regnum pubblicarono coi conterranei Svarthal, questi ultimi mai usciti dal circuito demo a parte, appunto, i due split appena citati. I Regnum hanno avuto una carriera più significativa, essendo stati considerati tra i migliori esponenti del depressive black tedesco. Titolo meritato: la loro musica è davvero opprimente e angosciante, come quella di molti loro connazionali; ai tedeschi il depressive è sempre riuscito piuttosto bene. Vengono accreditati di un solo full, ma la loro discografia è discretamente numerosa e comprende tra l’altro uno splendido split in vinile con Trist, Grimnir e Hypothermia, cioè alcuni dei gruppi di maggior blasone nel depressive black, oltre all’EP omonimo del 2005 che è un capolavoro. Questo split è uscito solo in cassetta nel 2003 in edizione limitata a 260 copie (ma si trova ancora a prezzi più che ragionevoli) e contiene sette brani (quattro dei Regnum e tre degli Svarthal) di black metal oscuro e primitivo come solo produzioni così underground sanno essere. La registrazione è più che discreta, i pezzi grezzi e minimali con una certa cura per melodie straziate e infelici. Nel corso della sua carriera, Nachzerher (unico cervello dietro al progetto Regnum) rallenterà sensibilmente la velocità delle sue partiture, che in questo caso contengono ancora sprazzi di tempi tumpa-tumpa a velocità più sostenute. Linee vocali inintelligibili in screaming estremo, batteria ridotta all’osso, un prodotto di estremo underground da considerare se siete appassionati di cose così di nicchia. Più canonico ma ugualmente godibile il lato degli Svarthal, black veloce e zanzaroso con vaghi inserti di tastiere atmosferiche collocati strategicamente per tenere desta l’attenzione. Queste cose continuano ad uscire ancora adesso (di raw black metal in cassette ultralimitate è pieno Bandcamp), solo che ora c’è più internet ed è più semplice metterci le mani. Vent’anni fa per riuscire a tirarne a casa una copia era uno sbattone mica da niente. Direi che va meglio oggi, da questo punto di vista.

MINOTAURUS – The Silent Cave

Barg: Dopo il debutto e l’EP Carnyx i Minotaurus decisero, per qualche imperscrutabile motivo, di uscirsene con un altro EP, questa volta completamente acustico e decisamente breve: tre canzoni per una dozzina di minuti. Un’operazione comune nei torbidi ambiti frequentati dal demone Griffar, ma assai strana per un gruppo che si muove in un contesto a metà tra il power e il folk metal. Alla fine non saprei come altro definire The Silent Cave se non come carino. Atmosfere delicate che cercano di essere il più possibile fiabesche e rarefatte, ma che si scontrano con la provenienza bavarese del gruppo, che tende sempre a riportare l’atmosfera alla taverna dei folletti con birroni gelati bevuti vicino al camino e a David Gnomo sbronzo che collassa per terra sbattendo la testa contro uno spigolo vivo e tutti ridono. Vale comunque la pena di ascoltarlo perché i Minotaurus meritano in generale, nonostante siano un gruppo conosciuto da pochissimi.

MOTÖRHEAD – Live at Brixton Academy

Stefano Mazza: Un live gigantesco che acquistai, dopo averlo ascoltato brevemente nel solito negozietto di fiducia all’uscita dal lavoro, molto a cuor leggero, perché era un live dei Motörhead e con i Motörhead non si sbaglia mai, men che meno in casi come questi, con ventitré classici suonati a perdifiato uno dietro l’altro, intervallati solo da qualche breve interazione con il pubblico, con una registrazione che massimizza l’effetto spontaneo e travolgente del concerto. Perfetto per ogni occasione. Era un’edizione di grandissimo calibro che immortalava il concerto di Lemmy e soci tenuto alla Brixton Academy di Londra nel 2000 per celebrare il venticinquennale, con vari ospiti sia dal passato del gruppo che dalla scena rock dell’epoca, perché i Motörhead sono talmente enormi che sono trasversali a tutto. Lo stesso concerto era uscito in DVD nel 2001 col titolo 25 & Alive Boneshaker, con l’aggiunta di qualche filmato storico, interviste e una sessione acustica. Nel 2000 erano venticinque anni di Motörhead, che a dirla oggi sembrano pochissimi, perché per quanto mi riguarda ci sono sempre stati e, in qualche modo, ci saranno sempre.

FORTÍÐ – Völuspá Part I: Thor’s Anger

Griffar: Una (troppo) lunga intro di suoni di battaglia accompagnati in crescendo da tastiere orchestrali epiche e marziali e poi chitarre poderose ed aggressive che fanno montare la cazzimma. Sembra il preludio a un furente massacro viking/fast black metal, invece An Ode to the Raven smorza subito gli entusiasmi proponendo un pagan metal lento in stile Einherjer – Menhir fatto peggio, con tanto di voce pulita a-la Storm. Neanche quattro minuti, ma sembrano non finire mai. Migliorano le cose con la più dinamica Ymir’s Death, sorretta da un giro di tastiere e che relega le chitarre a mero accompagnamento, con le voci alternanti tra un classico screaming “normale” e il cantato epico, poi persino un accenno di blast beat. Dopodiché i rimanenti quattro pezzi dilatano il minutaggio e si stabilizzano tra i sette e i nove minuti scarsi che sono dannatamente troppi. Lo schema compositivo non cambia: tante tastiere, tempi non particolarmente veloci con qualche sfuriata più alacre e scattante, melodie d’ispirazione pagan/folk, alternanza di voci. Non capisco cosa ci abbia visto la No Colours, forse volevano cercare qualcuno che gli riempisse i vuoti lasciati da Falkenbach o qualcuno da affiancare agli Juvenes e ai Woodtemple per battere il ferro finché è caldo (si legge: vendere più dischi). Riff memorabili, trascinanti o particolarmente ispirati non ce ne sono; i pezzi non sono brutti ma nemmeno chissà che. Per appassionati completisti del sottogenere, io in collezione dei Fortíð ho solo questo Völuspá Part I: Thor’s Anger, gli altri li ho lasciati perdere. In giro c’è di meglio.

AIRBORN – D-Generation

Barg: Gli Airborn sono uno di quei gruppi che in un mondo perfetto sarebbero famosissimi e suonerebbero in palazzetti stipati di groupie che gli tirano i reggiseni sul palco. Invece purtroppo il mondo è tutt’altro che perfetto, quindi eccomi qua a minacciare fisicamente ogni appassionato di power metal affinché compri i loro dischi e li mandi a memoria. Del debutto Against the World avevamo già parlato, inquadrando il loro stile e spiegando perché spaccano così tanto. Le cose non cambiano più di tanto con questo D-Generation, il loro secondo lavoro, uno di quei dischi capaci di stamparti un sorriso scemo in faccia e svoltarti la giornata. Come sempre, l’apporto di Piet Sielck in fase di produzione riesce a valorizzare perfettamente le loro qualità, dando spinta e cazzimma alle loro melodie spensierate; così come la voce di Alessio Perardi, non una bella voce in senso assoluto ma adattissima al contesto. A me poi piacciono molto le linee di batteria degli Airborn, che saranno semplici, quasi elementari, ma fanno esattamente quello che devono fare per servire le canzoni. E che canzoni: Survivors, Cosmic Rebels, Extraterrestrial Life, Dominators eccetera eccetera. Non me le fate elencare tutte e ascoltatevi il disco da soli, per carità. Vorrei però solo citare la title track, una strumentale di neanche tre minuti che rappresenta benissimo lo spirito del gruppo torinese: semplicità, spensieratezza, ingenuità fanciullesca, batteria quadrata, riffone e tastiera cazzeggiona. Che spettacolo, amici. All’epoca c’erano gruppi power italiani scandalosi che riuscirono ad avere più successo degli Airborn, e questa cosa grida vendetta al cospetto di Dio. Io certe volte mi sveglio la notte pensandoci e invoco le potenze infernali affinché facciano precipitare questo mondo ingrato nel freddo pozzo del caos. Meritavano davvero molto di più, gli Airborn, e chissà che un giorno qualcuno se ne accorga.

2 commenti

  • L’unica cosa per cui penso possano servire i Waitan è avvicinare nuove leve al black metal. Se riescono in questo intento nulla da ridire. Per il resto è un gigantesco no.

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  • Gabriele Brawler

    Watain carucci (soprattutto Casus Luciferi), ma nulla più. Non sono comunque il peggio dei gruppi Black assurdamente famosi, quello è un titolo che spetta tutto ai 1349.

    Invece dei/di Fortið ricordo che mi piacque molto ai tempi il terzo Völuspá (Fall of the Ages), un discreto dischettino di Pagan/Black che scimmiottava un po’ gli Enslaved di Frost e compagnia cantante. Campano ancora nell’anonimato più totale, fra l’altro. Il tizio ha pure militato brevemente nei Den Saakaldte per il terzo disco

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