Il confessionale: ACCEPT – Eat the Heat

Sinora ne Il confessionale ho parlato dei Celtic Frost del periodo cotonato e dei Kreator di Renewal. Oggi rimango in Germania e confesso il mio debole per l’album degli Accept col cantante americano, quel David Reece che si permise di sostituire, seppur per un tempo assai limitato, Udo Dirkschneider.
David Reece è un cantante di stampo classico, una voce che sulle prime non avrei mai accostato agli Accept. Nutre una profonda passione per i Queen ed è particolarmente affezionato al loro futuro frontman Paul Rodgers. All’epoca in cui ricevette la telefonata era però il signor nessuno dei Sacred Child. Per la sua potenza e pulizia esecutiva gli sono stati accostati nel tempo numerosi nomi, fra cui quello di David Coverdale; a somme tratte Reece era perfetto per un heavy metal ammiccante all’AOR. Avrebbe comunque dovuto cimentarsi con ogni classico del passato e spiegare ai fan che adesso c’era lui. Il vecchio frontman intanto aveva avviato una carriera solista di tutto rispetto già da due anni, con Animal House, e gli aveva dato un dignitosissimo seguito.
Non fu amore a prima vista fra Reece e i fan: aveva talento ma la mossa comportava alti rischi. Gli Accept con Metal Heart e Russian Roulette avevano riscosso un successo enorme, e cominciato a virare verso un approccio più commerciale. Piccoli dettagli, per il momento, ma con la prossima uscita non sarebbero rimasti tali. L’impostazione di Eat the Heat fu tutta in direzione di un profondo cambiamento, a partire dalla produzione di Dieter Dierks, già coi Dokken, gli Scorpions e gli stessi Accept del più morbido Metal Heart. David Reece era, nello scacchiere degli Accept, la mossa per irrompere presso un pubblico differente e il più ampio possibile, grazie all’inserimento di un cantante elegante e anglofono. Troncare con l’aggressivo e rozzo timbro di Udo, per quanto iconico fosse, per svoltare definitivamente. In un certo senso lo stesso concetto di Ozzy Osbourne al tempo di The Ultimate Sin, con tre anni di ritardo e in contemporanea all’implosione di una significativa, se non monumentale, formazione americana class metal: i Dokken. Il problema è che Wolf Hoffmann non avrebbe mai potuto essere raffinato come George Lynch e, per quanto spingesse al cento per cento sulla creatività e sul senso d’adattamento, dovette rinunciare a qualcosa. Come scopriremo fra poco, e non per caso, furono i brani più orientati al suono classico della band i più congeniali all’economia del disco.
Tennero David Reece sotto costanti provini per settimane, e, registrate svariate demo, non gli comunicarono il verdetto se non poco prima di gettarlo in pasto al pubblico. Subito dopo Eat the Heat scomparve agli occhi dei più nonostante le copiose collaborazioni e incisioni nel corso dei decenni, dai recenti trascorsi nei Bonfire (due dischi con loro per poi mollarli sul palco) agli storici Bangalore Choir (un video passava pure su MTV, Loaded Gun, poi furono archiviati in fretta e furia) e Sircle of Silence. Sì, Sircle con la lettera S. Oggi David Reece pubblica album da solista, ultimo dei quali Blacklist Utopia del 2021, ed è negli Iron Allies al fianco di un altro ex Accept, Herman Frank, presente su Balls to the Wall, poi uscito e rientrato nel 2010.
Tornando al passato, non furono i veterani di Solingen a silurarlo. Non fu nemmeno colpa di un disco insufficiente, ma di uno schiaffo e una infinita serie di concause.
Innanzitutto il poderoso heavy metal classico della band tedesca aveva già raggiunto l’apice, con quelle 400.000 copie vendute di Russian Roulette. Tentare di raggiungere un ulteriore picco avrebbe significato ignorare le proprie potenzialità e quelle del proprio mercato. Emulare altri per conquistare il loro pubblico? Un fallimento annunciato. Così fecero e venne fuori un bizzarro connubio di ottimi brani, da X-T-C in apertura all’ottima e ruffiana Chain Reaction, passando per la velocità di D-Train e per il clamoroso e poderoso anthem Hellhammer, ed altri del tutto trascurabili. Un album anche piuttosto lungo, con una durata prossima all’ora di scorrimento spalmata su dieci pezzi totali. Dei quali alcuni fecero letteralmente scandalo per quanto sconfinassero, alle orecchie degli habituè del suono poderoso di Restless & Wild, nell’hard rock melodico. La svolta sonora era stata inoltre attuata in netto ritardo rispetto ai trend commerciali emersi più o meno intorno al 1986, paradossalmente in contemporanea all’esplosione del thrash metal.
Ci fu inoltre la sostituzione enigmatica di Udo Dirkschneider, un po’ come togliere dai Grave Digger Chris Boltendahl e metterci un altro che comunque non ci avrebbe restituito un album degno di tenere quel logo in copertina. Udo era la firma degli Accept ancor più del loro chitarrista e comandante. È lecito sostituire un’icona, altrimenti, come discusso con Roberto al telefono alcuni giorni fa, non avrebbero avuto alcun senso i Black Sabbath del dopo-Ozzy. Ma i Black Sabbath lo fecero al tempo giusto, e l’avvento di Ronnie James Dio, un autentico fuoriclasse, coincise con l’inizio effettivo dell’era dell’heavy metal classico. Tony Iommi non poteva che esplorare nuovi orizzonti, ideali per le prestazioni di buona parte dei nuovi interpreti che si sarebbero avvicendati. E la cosa avrebbe avuto un senso logico almeno fino a Dehumanizer. Come detto sopra, gli Accept fecero tutto questo sulla base di valutazioni prettamente economiche, e in ritardo.
Ma poi David Reece tirò quel maledetto ceffone a Peter Baltes, bassista della band e membro attivo dai suoi esordi sino a The Rise of Chaos di qualche anno fa. È mia convinzione che si trattò a tutti gli effetti di una trappola ben congegnata, e indovinate: aveva a che fare con la passera.
David Reece aveva la fidanzata e pure l’amante. I membri degli Accept erano a conoscenza di questa cosa, e, essendo in rotta con David nonché prossimi a maturare l’idea di richiamare Udo, dovevano pur fare qualcosa. Non è tavolata finché qualcuno non si prende la briga d’ammazzare il maiale, e in mancanza di un volontario è chiaro che si obbliga il bassista. Quello che su disco generalmente neanche lo senti.
Peter Baltes andò dalla fidanzata di Reece e gli disse tutto. Reece si presentò da Baltes per chiedere spiegazioni, incazzato nero, e, alla sua conferma, lo colpì. E fu cacciato. In una normale situazione fra uomini si sarebbe tutto aggiustato a insulti o con le scuse di Baltes. Era chiaramente una trappola e l’ex ugola dei Sacred Child non lo sapeva, ma si apprestava a riprendere una lenta discesa verso gli abissi dell’anonimato discografico.
Sua la colpa di aver cantato su Love Sensation e sulla martellante, insopportabile eppur iconica Generation Clash. Tanto, amante o non amante, l’avrebbero cacciato lo stesso.
In futuro, mentre Reece avrebbe registrato con gli Stream di Dave Spitz, ex bassista di Impellitteri e Black Sabbath su Seventh Star, e con innumerevoli formazioni finite presto nel dimenticatoio, la macchina Accept sarebbe ripartita. Apparentemente a pieno regime con il giocare sul sicuro di Objection Overruled e con Udo nuovamente a cavallo fra il suo stile stridulo e sguaiato e quei toni medio-bassi in cui l’ha sempre fatta da assoluto padrone, e sui quali David Reece, al netto di una tecnica esecutiva superiore, non avrebbe mai potuto rivaleggiare. Anch’essi un trademark irrinunciabile della band, vallo a spiegare a chi li adorava dai tempi di Breaker, un classico più volte definito dallo stesso Udo il suo preferito della discografia degli Accept. Uscì Objection Overruled ed era il 1992, l’ultimo anno di senso compiuto per l’epopea dell’heavy metal classico, eccezione fatta per qualche raro titolone successivo come The Reaper e per il generalizzato ritorno in pompa magna sul finire del decennio, grazie soprattutto all’iniezione d’energia offerta dal power metal europeo. E nel 1992 confermarono d’essere una capace e longeva formazione heavy metal, capace di accelerare come un tempo sulla title-track e di entusiasmare sul ritornello corale di All or Nothing. Capace anche di provocare, stando al testo di I Don’t Wanna be Like You.
Nonostante questo e nonostante gli ultimi due album con Udo, che generalmente trascuro nonostante Death Row fosse anch’esso accettabile, il 1989 segnò la conclusione del periodo magico degli Accept. Che in anni recenti hanno pur confezionato un trittico di ottimi dischi prima di riassestarsi sui binari della meritata e mestierata sufficienza, con un Tornillo che mai considererò il loro cantante. Perché, se mai gli Accept hanno avuto un’alternativa a Udo Dirkschneider, quell’alternativa è stata l’uomo di cui vi ho raccontato oggi. (Marco Belardi)
Prossimo capitolo, per stare in tema (nuovo membro che ne sostituisce uno storico il cui apporto aveva costituito un segno distintivo del gruppo + storie di corna), “Native Tongue” dei Poison.
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Non sono per nulla d’accordo, Tornillo tutta la vita.
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Hai perfettamente ragione, Tornillo forever
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