Doppia recensione: ACCEPT – Too Mean to Die

Cesare Carrozzi: Voialtri sveglioni conoscete il motivo per il quale le case discografiche impongono a certi gruppi un album in studio ogni due/tre anni circa? Direte voi, beh ma evidentemente hanno bisogno di vendere i dischi, il che sarebbe stato vero e giustissimo trent’anni fa, in un’altra era geologica in cui i dischi si vendevano per davvero; adesso però di cd non se ne vendono più o quasi, giusto vinili per appassionati, la musica si ascolta per lo più in abbonamento da servizi in streaming, che notoriamente pagano poco o pochissimo gli artisti e poco (ma poco) meglio le stesse case discografiche, quindi no, amici, non è questione di vendere dischi. Già vi vedo prontissimi a ribattere allora hanno bisogno di andare in tour e gli serve del materiale fresco, il che sarebbe anche giusto, almeno in parte: è verissimo che gruppi ed artisti vari oggi come oggi hanno bisogno di girare molto più di prima, visto che non è più solo questione di promozione o di incrementare gli introiti ma di sopravvivenza pura e semplice. Però materiale nuovo serve? Dipende. Cioè, se sei il gruppetto X nato un paio di anni fa magari sì, più roba hai da proporre meglio è, però, cazzo, gli Accept? Gli Accept potrebbero tranquillamente girare il mondo in lungo e in largo solo con Balls to the Wall, Metal Heart e Restless and Wild per quanto mi riguarda. Oppure prendete i vostri preferiti, il discorso è lo stesso. È, in misura minore, come per MaidenMetallica, che vanno in tour ogni anno o quasi anche se non pubblicano un disco da più di un lustro (e meno male, almeno per i Maiden). Ma è prassi anche per formazioni pure note ma meno importanti, tipo gli Arch Enemy (brr) o altri, gente che in un anno si spara una trentina di date più festival e quant’altro e tra cachet, magliette e sailcazzo tira a campare.

Oh, chiaramente sono discorsi che prescindono da questo ultimo anno di Covid, anche perché tutto ‘sto circo prima o poi passerà e ritorneremo al punto di prima, e prima era esattamente così. Quindi perché gli Accept ad inizio 2021 pubblicano il successore del discreto The Rise of Chaos del 2017? Perché avevano dell’ottimo materiale? Manco per il cazzo. Perché devono vendere i dischi? Manco per il cazzo. Perché devono andare in tour? Manco per il cazzo. Perché sono crucchi? BINGO. Sono crucchi come i Primal Fear o come altri millemila gruppi tedeschi che fanno così perché è così che si fa, ogni due o tre anni pubblicano un album perché c’è scritto sul libretto d’uso e manutenzione che è parte integrante e sostanziale del contratto con la Nuclear Blast (tedesca pure lei, non a caso). E non importa se i pezzi sono un po’ così, se non puoi manco andarci in tournée visto che è tutto fermo, tu pubblichi perché noi dobbiamo stampare un tuo disco ogni due o al massimo tre anni altrimenti sale l’inflazione e un litro di latte costa duemilionendieuro, ja? Bene. E quindi com’è il disco che ci salverà dall’inflazione? Fa cacare, per buona parte. Cioè non è inascoltabile, che diavolo Wolf Hoffmann è sempre Wolf Hoffmann, però un ascolto basta, due sono troppi, tre ti fanno venire voglia di dare fuoco a tutte le Volkswagen che vedi in giro. Quindi mi sono fermato al primo, ecco. Nel caso, fatelo anche voi.

Ciccio Russo: Egregio Carrozza, suvvia, cosa vogliamo aspettarci da Wolf Hoffmann a sessantun anni suonati? A quell’età il tedesco medio passa le giornate in garage a ravanare col motore della sua auto d’epoca o, al massimo, in qualche parcheggio frequentato da scambisti per trovare qualcuno che gli ravani la moglie. Wolf Hoffmann invece, da quando ha rimesso in piedi la band con Mark Tornillo alla voce, ha tirato fuori cinque album tutti oscillanti tra l’ottimo e il buonino, senza menzionare quanto continui a spaccare dal vivo, dove sfodera l’energia di un ragazzetto. Tanta prolificità potrà pure non essere necessaria ma va pure detto che non mi viene in mente un’altra band dalla carriera così lunga in grado di pubblicare una quantità tale di materiale inedito senza scivoloni. Prendete, che so, i Judas Priest. Firepower è un capolavoro, concordo, ma ci sono voluti tre lustri segnati da diversi dischi mediocri per arrivarci. Un nuovo Lp degli Accept, invece, vale sempre l’ascolto, resiste a lungo nello stereo (o nel player di Spotify o dovunque diamine ascoltiate musica oggidì) e non scende mai al di sotto dello standard di qualità minimo che Germania comanda.

Too Mean to Die non è ai livelli dei primi tre album della reunion, si sente la mancanza dei mid-tempo marziali che avevano caratterizzato Blood of the Nations e Stalingrad e non ci sono singoloni all’altezza di quelli che avevano reso indimenticabile Blind Rage. Nondimeno, si tratta di un passo avanti rispetto a The Rise of Chaos, dove il nuovo arrivato Uwe Lulis non sembrava ancora integrato a dovere e traspariva la volontà di intraprendere una direzione diversa che però non si sapeva bene quale fosse. Con una formazione ancora rimaneggiata (il bassista Peter Baltes, che era l’unico membro fondatore rimasto insieme a Hoffmann e ha scelto il pensionamento, è stato sostituito da Martin Motnik, mentre si è aggiunto un terzo chitarrista nella persona di Philip Shouse, già session per le avventure soliste di Ace Frehley e Gene Simmons), il sedicesimo full dei tedeschi va sull’usato sicuro: pezzi secchi e diretti con riffoni quadrati, ottimi come sottofondo in palestra, con gli inevitabili riempitivi compensati da guizzi come la trascinante No Ones Master e la graffiante apertura affidata a Zombie Apocalypse. Resiste una vena hard rock un po’ piaciona, coerente con l’invecchiamento anagrafico (The Best is yet to Come), e si fanno amare anche le botte di cattivo gusto crucco che fanno il giro completo e diventano gustose, come il singolo The Undertaker. Un lavoro un po’ sotto tono ma gradevole: per herr Hoffmann il momento di dedicarsi ad auto d’epoca e parcheggi per scambisti sembra ancora piuttosto lontano.

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