Recuperone di fine anno per i funerali che verranno

È giusto che una recensione di un gruppo funeral doom arrivi in ritardo? Direi di sì. Anche senza fare facili ironie e senza cercare stupide giustificazioni, si parla tendenzialmente di gruppi che ci mettono più tempo a pubblicare un album, che ci si mette più tempo ad ascoltare e che è difficile che si abbia voglia di ascoltare più volte per poi farci una recensione – sono passati i tempi in cui riuscivo ad ascoltare gli Ahab a ripetizione per tutta la giornata. A questo aggiungeteci il fatto che per alcuni gruppi è lunga anche l’attesa tra gli album effettivamente degni di attenzione.
I MOURNFUL GUST rientrano esattamente in questa categoria, anche se non rientrano propriamente in quella del funeral doom. Ma alla fine, soprattutto con le commistioni tra generi tipiche degli ultimi due decenni di musica estrema, quale gruppo funeral non ha messo qualche accelerazione di tanto in tanto? Se si escludono forse i Thergothon, primi Funeral e primi Skepticism, l’hanno fatto praticamente tutti – e anche loro avevano comunque una varietà di soluzioni che non ci si aspetterebbe in un genere noto per la sua lentezza. Gli ucraini in questione mi avevano colpito più di una decina di anni fa con degli album che per estetica e stile assomigliavano molto alla sacra triade di gruppi death doom inglesi, con l’aggiunta della fantastica voce pulita di Vlad Shahin, capace di regolare momenti di struggente epicità (The Cold Solitude da The Frankness Eve del 2008 non mi è mai uscita dalla testa nonostante i grossolani errori in inglese nel testo). Ad un certo punto un’uscita della loro discografia (For All the Sins del 2013) l’hanno anche azzeccata molto bene, sebbene fosse alquanto derivativa. L’ultimo Fly Sorrow Fly, invece, sposta semplicemente l’asticella da My Dying Bride e Anathema ai Paradise Lost (ascoltare …And Bless me if I Die per credere). La scrittura è abbastanza pigra e cavalca molto banalmente gli stilemi tipici del genere, mentre il growl è molto più presente, con risultati abbastanza scadenti. Il tutto viene ripetuto ovviamente per la durata di circa un’ora (e ci è già andata di lusso). Speravo che dopo otto anni di silenzio (se si esclude una raccolta) sarebbero quantomeno riusciti a ripetersi sui buoni livelli del penultimo album, ma così non è stato.
In ordine crescente di originalità e di funereità ci sono i CLOUDS. Non sono mai riuscito a comprendere veramente le ragioni del seguito tutto sommato sorprendente che ha ottenuto in pochi anni questo gruppo internazionale – anche se ormai, con l’uscita di scena di Kostas Panagiotou, quasi tutti i membri sono romeni. Ad ogni modo mi ponevo lo stesso quesito in occasione del loro live di spalla agli In Mourning, ai quali rubarono la scena, e tuttora non trovo una soluzione. Despărțire non si discosta molto dalle loro precedenti pubblicazioni: lento e pesante, ma anche ripetitivo e ai limiti del noioso. Per quanto mi riguarda c’è anche l’aggravante che la voce di Daniel Neagoe non mi piace né pulita né sporca. E infatti l’album viene salvato da qualche ospitata illustre, come quella di Aaron Stainthorpe su In Both Our Worlds the Pain is Real – uno ci prova anche a non chiamare in causa i My Dying Bride ogni mezza volta che sente un violino in un album doom metal, ma voi vi ci mettete proprio di impegno a rendergli la vita complicata. Tuttavia, ciò che rende davvero palese cosa sarebbe potuto essere quest’album con una voce dotata di maggiore personalità è la presenza carismatica di Mick Moss degli Antimatter su This Heart, a Coffin. La presenza del flauto qua e là è una piacevole aggiunta, ma per me questo gruppo rimane la manifestazione di quanto sia semplice non essere all’altezza delle proprie potenzialità.
Forse quando poco sopra ho citato Kostas Panagiotou, vi sarete chiesti come mai io abbia dato per scontato che voi sapeste chi fosse. Presto detto: è il greco trapiantato ad Anversa, in Belgio, dove ha fondato i PANTHEIST prima di trasferirsi nel Regno Unito. Conoscendo queste linee generali della sua biografia non vi sorprenderà sapere che compone e pubblica album funeral doom, oltre che coi Pantheist, anche a nome suo – progetto col quale in realtà è anche più prolifico e con cui ha pubblicato uno split nientemeno che con i Pantheist stessi. Il suo gruppo mi aveva colpito ai tempi dell’album omonimo per come aveva saputo unire il funeral doom allo stile di certi Anathema e la sua voce, che cantava in un inglese con pesante accento straniero, era perfetta, per quanto fosse oggettivamente sgraziata. Il successivo Seeking Infinity non mi aveva colpito particolarmente, poiché mi sembrava mancasse di quello stesso trasporto emotivo. Questo Closer to God non aggiunge niente di particolare in termini stilistici, ma rimane comunque un ottimo disco funeral doom dalle atmosfere eteree, condito di organi e tastiere e flauti (suonati dallo stesso Andrei Oltean che compare sull’album dei Clouds). Ottima anche la produzione che riesce a mettere in risalto e a rendere giustizia a ogni momento delle quattro lunghe canzoni di cui è composto l’album, anche quelli più morriconiani (!) sul finire di Wilderness o l’assolo (!!) sulla conclusiva Of Stardust We Are Made (And to Dust We Shall Return).
Con gli SKEPTICISM arriviamo finalmente ai pesi massimi di questo recuperone. Per un attimo avevo sperato che il Companion del titolo fosse da intendere politicamente, ma poi mi sono reso conto che in quel caso sarebbe stato più corretto un comrade e che companion è più probabile si riferisca a qualche concetto triste come la morte e la solitudine – come lascerebbe intendere il testo di The Intertwined. In quanto (ex?) bassista ho sempre fatto fatica ad accettare il fatto che la formazione finlandese suoni senza basso e non gliene freghi nulla di integrarne uno. Tuttavia, gli va ovviamente riconosciuto molto; oltre, in generale, di aver partecipato alla nascita di questo genere da depressi cronici, anche di non avere mai sbagliato veramente un album. Qui i ritmi si fanno relativamente più sostenuti rispetto a quelli dell’ottimo Alloy, arrivando a lambire i confini con il death doom. Gli organi e la voce gorgogliante di Matti Tilaeus accompagnano tutta la lenta marcia da carro funebre di quest’opera, la quale si discosta dallo stile che i finlandesi hanno contribuito a fondare e che sembra reinventare il death doom – con trent’anni di ritardo, vero, ma partendo da una posizione totalmente indipendente da quanto hanno fatto nella loro carriera i tre gruppi inglesi che sempre si citano in quest’occasione e assomigliando in questo di più a proposte come quella degli Abysmal Grief.
Il cerchio non può non chiudersi se non con chi ha praticamente dato il nome al genere: i FUNERAL. Il loro ritorno dopo quasi dieci anni di silenzio è sostanzialmente in linea con l’ultima fase della loro carriera: ovvero ritmi più sostenuti e cadenzati – ricordatevi che tutto è relativo – e qualche orchestrazione a rendere più imperiose le atmosfere – queste in realtà erano presenti anche nella prima metà della loro carriera, sorpattutto in In Fields of Pestilent Grief. Questo Praesentialis in aeternum è totalmente cantato in norvegese, otlretutto. Appena sentite le prime linee vocali della traccia in apertura, Ånd, mi è subito sembrato di sentire gli In Vain e riconoscere la stessa voce dietro al microfono, ovvero quella di Sindre Nedland, fratello del ben più famoso Lazare di Solefald e Borknagar. Il mio orecchio non mi ha tradito dove invece la memoria è stata fallace, poiché il Nedland più giovane fa parte del gruppo sin dal precedente Oratorium. Fatto sta che non ascoltavo così “volentieri” un album dei Funeral sin da From These Wounds, che viene richiamato oltre che nello stile anche nelle melodie della traccia bonus Shades from These Wounds. E From These Wounds è uno di quegli album funeral doom che ascoltavo a ripetizione insieme ai primi due degli Ahab una decina di anni fa. Certamente, qui non sono presenti i riffoni che erano presenti sull’uscita del 2004, ma in più c’è la voce di Nedland, migliore di quella lamentosa di Frode Forsmo, che a lungo andare stancava. Ben tornati. (Edoardo Giardina)
Ma della copertina dei Pantheist vogliamo parlarne? Entra di diritto nel prossimo fartwork…
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Il disco precedente degli Skepticism è Ordeal non Alloy
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