Sweet Home Tilburg: le pagelle del Roadburn 2016

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CULT OF LUNA – voto 9. Il mio primo impatto con lo 013 e con l’universo Roadburn assomiglia a un esordio in prima squadra durante la finale di Champions League condito da un gol in rovesciata all’ultimo minuto: semplicemente perfetto. Gli svedesi festeggiano il decennale di Somewhere Along The Highway suonandolo per intero con una maestosità e una grazia tali che durante Dim per poco non scoppio a piangere. Poi mi ricordo che sono pur sempre a un festival di musica pesante nel Nord dell’Europa e provo a fare l’uomo vero. UMEÅ STATE OF MIND

THE SKULL – voto 6,5. Per l’occasione propongono due set: uno di roba recente, molto partecipato e un po’ monocorde, e uno di classiconi dei Trouble, meno partecipato del primo ma assolutamente esaltante. Eric Wagner deve aver testato i prodotti dell’agricoltura locale, dato che tra una canzone e l’altra parla al pubblico dimenticandosi di usare il microfono. Ovviamente nessuno capisce una mazza, ma a lui non sembra fregare granché e sorride beato. GREENPEACE

ORANSSI PAZUZU – voto 7. Le austere vetrate del Patronaat ammantano lo show dei finlandesi di una patina di sacralità oscura e funzionale ad allontanare nel giro di qualche minuto due napoletani dalla logorrea particolarmente fastidiosa, piazzatisi dietro di noi con delle improbabili magliettine fucsia attillate ed evidentemente capitati lì per caso. VI DOVETE SPAVENTARE

IMG_4614CONVERGE – voto 9. Sono l’unico della Metal Skunk Crew ad averli già visti, quindi la ferocia belluina con cui eseguono per la prima volta in carriera tutto Jane Doe mi stupisce fino a un certo punto. La vera sorpresa è il secondo set, ermeticamente intitolato Blood Moon, durante il quale suonano i brani più lenti del loro repertorio (e una sublime versione di Disintegration dei The Cure) con il supporto di Ben Chisholm, Stephen Brodsky, Steve Von Till e Chelsea Wolfe. Alla fine ho i brividi, e non a causa del freddo pungente di Tilburg. MESSA IN PIEGA

PARADISE LOST – voto 7,5. Onorano il venticinquesimo anniversario di Gothic proponendolo dal vivo nella sua interezza, coadiuvati delle splendide visuals appositamente create da Costin Chioreanu. Nick Holmes non ha più la barbona doomy che sfoggiava negli ultimi tempi, ma appare comunque abbastanza in forma. Nei bis tirano fuori qualche pezzo acchiappone dalla produzione più recente e la resa generale ne guadagna. MARPIONI

BLACK MOUNTAIN – voto 8. Sforano abbondantemente rispetto all’orario stabilito ma potrebbero andare avanti per giorni interi senza che nessuno degli astanti se ne lamenti. Secondo Charles, la buzzicona alla voce canta talmente bene che in questo contesto sembra quasi una bella figa. Io vorrei dissentire con dovizia di argomentazioni, ma sono così preso bene dal vortice psichedelico che finisco per annuire e rituffarmi nell’iperuranio. OGNI BUCO È TRINCEA

LEE DORRIAN – voto 7,5. Si aggira per i meandri dello 013 con il suo tipico sorrisetto malefico, supervisionando il regolare svolgimento del Rituals For The Blind Dead, la sezione del Roadburn a lui affidata e da lui curata. La rassegna si rivela leggermente al di sotto delle mie (altissime) aspettative, nonostante una serie di chicche davvero pregevoli (cfr. G.I.S.M.). Con i With The Dead demolisce il Main Stage, ma la Cassazione sentenzia non a torto che “è troppo facile essere fichi quando suoni a un volume del genere”. Attendiamo speranzosi un reality show sulla sua vita. BOSS DELLE CERIMONIE

DIAMANDA GALÁS – s.v. L’hype scatenatosi nei giorni precedenti intorno alla sua esibizione stuzzica la curiosità di molti, me compreso, nonostante il genere non sia certo – come diciamo da queste parti – la mia cup of tea. Arriviamo al Main Stage e troviamo le porte sbarrate. Si entra e si esce a piccoli gruppi e solo al termine dei brani, per non disturbare l’artista all’opera. Charles vuole andarsene, ma i volti straniti di quelli che escono dalla sala lo convincono ad aspettare il nostro turno ed entrare. Scelta non troppo oculata: la gattara sotto casa mia sbraita in modo ben più convincente e, a differenza della signora Galás, si lascia pure fotografare. Vorremmo scappare, ma si innesca l’arcinoto meccanismo per cui è impossibile distogliere lo sguardo dall’animale spappolato al centro della strada. È MEJO ER VINO DE LI CASTELLI

G.I.S.M. – voto 7,5. Quello al Roadburn è il loro primo concerto dopo 14 anni (nonché il primo in assoluto fuori dalla madrepatria) e incontro gente venuta a Tilburg unicamente per vedere all’opera Sakevi Yokoyama e soci. Lo show è corrosivo, violentissimo, disturbante come un’abbuffata di sushi mal cucinato. DAL GIAPPONE CON FURORE

Le stringenti direttive dello 013

Le stringenti direttive dello 013

PENTAGRAM – voto 8. Suonano tutti i pezzi che voglio sentire nel modo in cui li voglio sentire suonati. Bobby Liebing dimostra cinquant’anni in più di quelli che realmente ha, ma pare posseduto da qualche antico demone mesopotamico. Concludono il set spaccando gli strumenti e io sono così tramortito che non mi accorgo che la bacchetta lanciata dal batterista si dirige spedita verso la mia tempia destra. Quando me ne rendo conto è naturalmente troppo tardi. PIOVONO BACCHETTE

PETER PAN SPEEDROCK – voto 7. L’ultimo tour dei nostri Eindhoveniani preferiti fa tappa nella Green Room e un saluto è quantomeno dovuto. Tra schitarrate al fulmicotone e bolidi sfreccianti, il concerto è il solito carrozzone di adrenalina, sudore e divertimento. Ci mancheranno. GO MOTHERFUCKER GO

AL CISNEROS – voto 10. Se l’avessi incontrato a Termini, non l’avrei riconosciuto e gli avrei lasciato qualche spicciolo per una birra. Invece lo incrocio al Patronaat, dimagrito e con una barba da santone indiano, mentre cerca disperatamente di cambiare 50 euro a una macchinetta. Ogni volta che prova a inserire nell’apposita fessura la banconota, questa gli scivola dalle mani e cade a terra. La scena si ripete per cinque minuti buoni finché un’amabile signora, evidentemente messagli accanto a mo’ di badante da qualche saggio membro dell’organizzazione, provvede al posto suo. Lo saluto e lui mi abbraccia fortissimo, come fossimo migliori amici e ci conoscessimo da una vita. PRESIDENTE DELL’UNIVERSO

SKEPTICISM – voto 6,5. In qualunque altro contesto, un palco ricoperto di rose su cui dei goffi vichinghi in smoking si muovono a velocità elefantiaca avrebbe generato perculate a non finire. Invece l’aria del Roadburn rende credibile anche questo spettacolino funereo e il tutto risulta perfino affascinante. FATTELA ‘NA RISATA CHE MAGARI DOMANI TE SVEJI SOTTO AN CIPRESSO

BROTHERS OF THE SONIC CLOTH – voto 7.  A Tad Doyle bisogna voler bene a prescindere. Se poi durante il concerto sfodera una serie di esilaranti gorgheggi per intrattenere il pubblico e permettere ai tecnici di risolvere i problemi del suo amplificatore, allora bisogna volergli ancor più bene. Dopo lo show si piazza al banchetto del merchandising e chiacchiera amabilmente con tutti i fan che vanno in processione a omaggiarlo, compreso il sottoscritto. GENTLE GIANT

TAU CROSS – voto 5,5. L’unica vera delusione del Roadburn 2016, complici delle aspettative probabilmente esagerate. Cannano i primi due pezzi e faticano a ricostruire il pathos dell’esibizione, che esplode soltanto nel finale quando vengono sparate le cartucce migliori. Mezzo voto in meno perché solo dopo aver comprato il loro album mi accorgo che la versione in vinile è inspiegabilmente priva di due delle canzoni più belle del disco, Stonecracker e Hangmans Hyll, presenti invece nella versione in CD. BRACCINE CORTE

IMG_4500I RAGAZZI DELLO ZOO DI BERLINO – voto 8. Compaiono la mattina del primo giorno e si accampano davanti all’ingresso dello 013 con sacchi a pelo, birre e il cartello “Need a driver to Berlin”. Il giorno dopo li ritroviamo nella stessa posizione, ancor più sfatti, ma sul cartello la parola “driver” è stata arditamente sostituita da “car”. Domenica pomeriggio non ci sono più. Mi piace pensare che siano tornati a Berlino cavalcando un enorme drago viola. EROI

AMENRA – voto 8. I belgi giocano in casa e sono tra gli act più attesi, a giudicare dalla folla che assiste a entrambi i loro concerti. Il primo show, completamente acustico, fa calare un religioso silenzio sulla sala principale dello 013 ed è uno dei momenti più intensi e toccanti di tutto festival. Azzardano una cover di Parabol dei Tool e la sua perfetta esecuzione testimonia in modo inequivocabile la statura della band. Il secondo set è incentrato sugli ultimi Mass e fa la riga da una parte a molti. BULLDOZER

LA MUERTE – voto 7. Il gruppo preferito di Walter Hoeijmakers, deus ex machina del Roadburn, almeno a giudicare da come si dimena durante la loro esibizione sul palco della Green Room. A me sembrano un gustoso mix tra gli Stooges e i primi Kvelertak, e la cosa non mi dispiace per nulla. Il cantante si presenta in gilet di jeans, maglietta a righe e cappuccio da boia, e questa è un’altra cosa che non mi dispiace per nulla. ICONE DI STILE

NEUROSIS – voto 9. Festeggiano il trentennale con due show in cui ripercorrono tutta la loro carriera. Alzano il vento in sala, e non per modo di dire. Mai sentito nulla di così potente. Ho come la sensazione di trovarmi sotto un’enorme montagna che crolla. I due concerti grosso modo si equivalgono: la scaletta del secondo contiene un maggior numero di pezzi tratti dagli album usciti negli anni ’90 e ciò contribuisce a rendere lo spettacolo meno dispersivo, ma il primo set è emotivamente più lacerante e termina con Through Silver In Blood e Stones From The Sky, il pezzo dei Neurosis che amo di più in assoluto. Scott Kelly conclude questa sorta di rito di purificazione collettivo prendendo a testate il microfono e gnignando compiaciuto, mentre un rivolo di sangue gli scorre lungo il viso. Io vado a rintanarmi in un angolino a riflettere su ciò che ho appena visto. GRUPPO DELLA VITA

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IL FESTIVAL – voto 10. Il Roadburn è per noi quello che il Paese dei Balocchi è per Pinocchio. Lunedì mattina, appena sveglio, corro davanti allo specchio temendo che durante la notte mi siano spuntate le orecchie d’asino. Invece niente: non c’è trucco, non c’è inganno. JUST LIKE HEAVEN

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