Scontri generazionali: HATRIOT vs LOST SOCIETY

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Se già eravamo in pochi ad attendere con una minimo di curiosità l’esordio degli Hatriot, quelli che vi riponevano speranze si potevano contare sulle dita di una mano di un operaio dell’Ilva. E sinceramente non ero tra loro. Cantante degli Exodus ai bei tempi di Fabulous Disaster, tornato nei ranghi in occasione di Tempo Of The Damned, l’ottimo album della reunion del 2004, e buttato fuori subito dopo per lo scarso impegno dimostrato in tour (o almeno tale era la motivazione ufficiale; due anni dopo il bassista Jack Gibson mi parlò di una band avvicinatasi all’implosione per mere storiacce di droga), Steve ‘Zetro’ Souza aveva tutta l’aria dell’has been senza chance di riscatto. Quando seppi che aveva messo su un progetto tutto suo, con una sezione ritmica composta dai suoi figli e due emeriti sconosciuti alle chitarre, l’aria di sfiga era tale che ignorai del tutto le demo che avevano iniziato a girare già un annetto fa. Sbagliandomi. E non perché Heroes Of Origin sia ‘sta grande prova (non lo è) ma perché, date le premesse poco incoraggianti, a cominciare dalla copertina poveristica, sarebbe stato impossibile aspettarsi di meglio.

Di cose che non funzionano ce ne sono. Per prima cosa, mancano le canzoni. Non c’è un coro che si stampi davvero in testa, peccato mortale per un gruppo thrash metal. E i furtarelli ai danni della band madre sono fin troppo scoperti (l’attacco di The Mechanics of Annihilation è identico a quello di War Is My Sheperd). Gli Hatriot suonano esattamente come gli Exodus di Tempo Of The Damned. Del lato B però, quello con i pezzi meno belli. E allora com’è che me li sto sparando tre o quattro volte al giorno? Perché Heroes Of Origin è un godibile, onestissimo disco di thrash Bay Area, come davvero non ne fanno più. Come non ne fanno più manco i Testament (Dark Roots Of Earth è eccellente ma è prodotto col preservativo) o gli stessi Exodus (posto che a me Exhibit B, con i suoi brani strutturatissimi di otto minuti e passa, continua a piacere parecchio). Ha i suoni giusti. Quei suoni. Che solo un veterano che respira, mangia e caca thrash metal da trent’anni è in grado di riprodurre con naturalezza. L’inconfondibile, arcigno strepitare del vecchio Zetro, con l’avanzare dell’età sempre più simile a un Brian Johnson maligno, ritmi quadrati e inesorabili, riff come rasoi. Mancheranno le canzoni, ma che botta, signori.

15x20Poi ascolto un album come Fast Loud Death dei Lost Society, scatta il confronto e capisco ancor meglio perché stia ascoltando Suicide Run a ripetizione da giorni. Siamo dalle parti dei Municipal Waste e del loro revivalismo programmatico. Sono un po’ come Tarantino, i Municipal Waste. Fanno un giochino citazionista vuoto e insulso, ma lo fanno bene ed è difficile non divertirsi. Gli epigoni di Tarantino, gli imitatori dell’imitatore, non interessano però quasi a nessuno. Lanciarsi in un processo alle intenzioni nei confronti di quattro ventenni finlandesi al debutto sarebbe un po’ deficiente. Sono sicuro che i Lost Society siano dei ragazzi a posto che suonano quello che va a loro spassandosela un mondo. Tuttavia Fast Loud Death non può non suonare costruito al tavolino all’orecchio di un babbione nostalgico come il sottoscritto. Al netto della consueta produzione di plastica offertaci dalla Nuclear Blast, è tutta una strizzata d’occhio, dalla copertina fumettosa del redivivo Ed Repka allo stacco di Metal Militia riproposto pari pari in non mi ricordo quale pezzo, più o meno come il braccio mozzato con geyser di sangue annesso di Sofie Fatale in Kill Bill riprende l’analoga scena di Tenebre con protagonista Veronica Lario. Solo che Tenebre, per quanto abbia personaggi ancora più monodimensionali, è malato, ansiogeno, genuinamente crudele. Kill Bill è un giocattolone. Per questo, al di là delle ovvie questioni di gusti, i Lost Society mi stuccano dopo dieci minuti. Il thrash non era (solo) bermuda, bandane e sbronze in allegria. Il thrash era il fenomeno che aveva trasportato nell’heavy metal la virulenza del punk alzando all’improvviso l’asticella della violenza sonora e concettuale, l’urlo di rabbia dei giovani proletari statunitensi schiacciati dalle Reaganomics. L’approccio scanzonato del retro-thrash odierno (non mi riferisco a roba tipo i Toxik Holocaust, troppo estremi per rientrare nel discorso) può rimandare giusto ad Anthrax e D.R.I., che, in un certo senso, erano variazioni sul tema. Gli altri erano cattivi e incazzati. I Nuclear Assault volevano impiccare il papa,  gli Exodus stuprare e uccidere vostra moglie, Megadeth e Testament flirtavano col pié caprino, gli Slayer, poi, erano il Male Assoluto. E questa cattiveria negli Hatriot, pur con tutti i loro limiti, l’ho ritrovata intatta. I Lost Society sono una girandola di mazzate innocue e fini a loro stesse, come quelle del wrestling. Steve Souza è lo Sly di Rocky Balboa. Vecchio, stanco, imbolsito, quel che vi pare. Ma se vi prende a cazzotti qualche dente ce lo lasciate.

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