Avere vent’anni: novembre 2004

OPERA IX – Anphisbena

Luca Venturini: Ho un certo timore reverenziale a scrivere degli Opera IX, band italiana di culto (termine usato con cognizione di causa) che nel 2004 aveva già una storia alle spalle imponente. Imponente perché attivi dal 1988 (io avevo tre anni, fate voi) e perché fino ad allora avevano sfornato quattro dischi, cinque con Anphisbena, e io non me li ero ancora mai cagati. Poi ho letto la recensione di questo disco e ho scoperto che mi piacevano un casino. Mi piace addirittura l’intro, cosa per me incredibile visto che fino ad allora l’unica che mi fosse mai piaciuta era quella di Anthems to the Welkin at Dusk. Tutto è stupendo su questo disco: la produzione, le melodie, gli arrangiamenti. Ora, una volta passati i 25 anni di età ho smesso di ascoltare black melodico, tolto qualche caso eccezionale. Il genere aveva avuto il suo picco e uscite interessanti si faceva fatica a trovarne. Mi accontentavo perciò dei dischi che avevo accumulato precedentemente. Il passare del tempo però agisce come un filtro e, dopo qualche anno di astinenza da un genere che avevo amato alla follia, a mente lucida iniziai a scartare la fuffa, piaciuta subito per la sensazione di novità e per la bolla nella quale eravamo dentro tutti quelli della nostra compagnia, tenendo allo stesso tempo ciò che è veramente importante. Anphisbena rientra in questa seconda categoria ed è uno dei migliori dischi dell’epoca che possa riascoltare.

LUNAR AURORA – Zyklus

Griffar: Terminate le peripezie con le etichette discografiche che ne hanno in parte ostacolato la carriera, grazie alla saggia idea di autoprodursi i dischi e farli uscire per la Cold Dimensions di loro proprietà (già ne avevo accennato per il ventennale di Elixir of Sorrow), i Lunar Aurora tornano più motivati che mai e pubblicano il loro disco più pretenzioso di sempre, un concept che usa come metafora le varie sezioni del giorno – i pezzi si chiamano nell’ordine (in tedesco) mattina, giorno, sera e notte – e ti fa rimpiangere di non conoscere meglio quella lingua per comprendere meglio ciò che vogliono significare. Che non dev’essere nulla di solare o allegro, viste le atmosfere freddissime, oscure, infelici e pessimiste che di tutta l’opera sono la principale caratteristica. Pur essendo quest’ultima in teoria suddivisa in quattro movimenti, con gli stacchi tra i quattro brani dovuti a brevi parentesi di effetti, l’intento è quello di proporre Zyklus come un’unica composizione di 46 minuti e mezzo; qualcosa di unico, di teatrale… musicare le angosce e le sofferenze della vita umana senza trascurare nulla e senza lasciare pause particolari. Per fare questo il songwriting si è fatto più intricato, le partiture più spezzate ed elaborate e la loro mirabile abilità agli strumenti risalta ancor più che in passato. Senza esagerare in riccardonate fuori contesto, basta ascoltarsi Zyklus un paio di volte per comprendere che gli anni di sosta obbligata non sono trascorsi invano, e che il disco è stato difficilissimo da scrivere ed è difficilissimo da suonare, specialmente se lo si fa seguendo la loro classica impostazione nervosa, frenetica e poco incline alla morbidezza nei suoni, tipico Lunar Aurora-sound. Un disco fantastico… ma quale dei loro capolavori non lo è?

EXCELSIS – The Legacy of Sempach

Barg: In un mondo che tende all’uniformità e che penalizza ciò che non riesce a definire perfettamente, era prevedibile che un gruppo come gli Excelsis non trovasse lo spazio che meritava. Autori di un secondo disco ai limiti del capolavoro (Kurt of Koppigen, già ampiamente trattato su queste pagine), la band di Münggu Beyeler ha sempre seguito strade non battute, perfezionando uno stile incredibilmente personale e, appunto, molto difficile da definire. Storicamente sono sempre stati etichettati come power folk, ma nei loro album c’è pochissimo sia dell’uno che dell’altro: il loro è un metal notturno, dai ritmi non sostenuti, a tratti epicheggiante, in cui la provenienza svizzera è celebrata sia nei testi che nelle sfumature folkeggianti, che risultano però autentiche e profondamente sentite, distantissime dal canonismo stucchevole dei loro compatrioti Eluveitie o delle altre migliaia di bande che si definiscono folk-qualcosa. The Legacy of Sempach è il loro quarto disco (del terzo Tales of Tell, concept sull’eroe nazionale Guglielmo Tell, abbiamo dimenticato di scrivere), è un altro concept sulla storia svizzera ed è pregevolissimo pur non essendo ai livelli di Kurt of Koppigen. I picchi sono I Lost my Soul e We are Kings, ma gli Excelsis sono belli da ascoltare proprio per la loro assoluta unicità. Su Spotify risultano avere meno di 500 ascoltatori mensili, e davvero non se lo meritano.

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – Samurai

Luca Venturini: I Die Apokalyptischen Reiter nel 2003 avevano piazzato quel capolavoro, e secondo me miglior lavoro della loro discografia, che è Have a Nice Trip, nel quale, per semplificare, il death metal melodico si ibrida con l’heavy e il folk. Ho detto “per semplificare” perché certo, stiamo pur sempre parlando di un disco dei Die Apokalyptischen Reiter, per cui non è che i confini siano così netti. La band è sempre stata in grado di stupire, ibridare, essere aggressiva e perfino far ballare. Io non mi stupirei se degli universitari tedeschi si mettessero a farlo su un loro disco dopo aver bevuto un paio di boccali di birra a bassa fermentazione. Insomma, tutto questo per dire che a un anno di distanza dal succitato predecessore la band è stata capace non solo di evolversi ma anche di buttar fuori un altro lavoro incredibile: vario, melodico, ricco di verve e prodotto in maniera impeccabile, con melodie stupende e arrangiamenti strabilianti. Impossibile tirar fuori un singolo migliore di un altro da Samurai . Sono tutti dei pezzoni devastanti. In seguito avrebbero iniziato un po’ a stufare, ma qui erano al loro picco compositivo.

BLOODAXE – Raping the Ancient

Griffar: L’ennesimo gruppo che avrebbe meritato di meglio ma che non s’è filato nessuno manco de pezza. Eppure i presupposti c’erano, perché a quanto ne so io nessuno, a parte loro, è stato mai descritto come raw viking black metal, anche considerando che il viking e il raw sono entità assai distanti. Ci volevano i Bloodaxe a miscelarle, che per di più sono canadesi e nemmeno c’entrano con la storia scandinava, fatto salvo il moniker: Bloodaxe era il soprannome di uno dei figli di re Harald I Bellachioma di Norvegia (850 ca. – 932), e se lo chiamavano ascia insanguinata doveva avere un bel caratterino di merda. Fu re egli stesso dei possedimenti vichinghi nell’Inghilterra del Nord regnando anche su York e morì nel 954. La sua storia deve aver intrigato mr. Nordavinden Lien, che ne ha fatto il suo vessillo dopo aver messo in piedi svariati progetti agli inizi degli anni ’90 prima di utilizzare questa denominazione intorno al 2000. Il primo Bloodthrone uscì nel 2001, accolto benissimo dalla critica e colpevolmente ignorato dal pubblico, poi nel 2004 arrivò il seguito, di fatto la copia conforme del debutto. Il che va più che bene, perché c’è da divertirsi ad ascoltare questo macello sonoro che più volte ricorda la rozzezza dei primi due dei Bathory. Scordatevi l’epic viking a-la Falkenbach: tutto l’album è un assalto frontale che raramente mitiga la sua veemenza. Con il viking propriamente detto ha in comune solo le liriche, perché se immaginate che Raping the Ancients abbia minimamente punti di contatto con Ensiferum o similari state sbagliando di grosso. Qui troverete solo freddo, violenza selvaggia e futile crudeltà. Che è l’immagine sputata della reputazione che i guerrieri vichinghi hanno lasciato di loro, si fatica a credere che, se avessero potuto, avrebbero ascoltato musichette dolci, flauti e violini. Quelli volevano un’autentica apoteosi di mazzate. Questo troverete negli 11 brani per neanche 33 minuti di Raping the Ancients. Signori, vi presento i Bloodaxe.

MINOTAURUS – Myth or Reality

Barg: Il discorso fatto più sopra per gli Excelsis vale anche per i Minotaurus, seppur in misura minore. Anche loro vengono etichettati come power folk, pur avendo poco di power e poco di folk (ma comunque di più rispetto agli Excelsis: del resto sono tedeschi, quindi più tendenti a seguire le regole piuttosto che a reinterpretarle); anche loro perseguono uno stile molto personale che non li fa assomigliare a nessuno; anche loro hanno un cantante dalla voce molto particolare che difficilmente qualcuno avrebbe potuto accostare a un gruppo simile ma che, nonostante tutto, funziona; e anche loro hanno raccolto pochissimo in rapporto ai loro meriti (il numero di ascoltatori mensili su Spotify è più o meno quello). Myth or Reality è il loro secondo album e, a prescindere dai comunque pregevoli singoli pezzi, si fa ascoltare con piacere dall’inizio alla fine sia per l’atmosfera silvana che riesce ad evocare sia per il loro stile unico e personale. Da menzionare il video di Warriorhearts, che dura quasi dieci minuti e alterna riprese di rievocatori medievali con la faccia pittata a inquadrature della band che suona tra le frasche e nella cantina di una qualche taverna tetesca. Provate ad ascoltarli, potreste avere una bella sorpresa.

DARKWELL – Metatron

Michele Romani: L’ultimo ricordo che ho dei Darkwell è la loro calata romana nel 2004 di supporto ad Atrocity, Leaves’ Eyes (quando Alex Krull si bombava ancora Liv Kristine) e Battlelore, concerto organizzato dall’allora caporedattore di Metal Shock secondo il quale “i biglietti sarebbero andati esauriti in pochi giorni perché è un concerto pieno di fregna e ai metallari piace la fregna”, mi ricordo ancora le testuali parole. Il risultato fu un prevedibilissimo buco nell’acqua e l’unico concerto a cui abbia mai assistito con degli spazi vuoti tra le transenne, in cui l’arduo compito di aprire le danze fu dato proprio ai poveri Darkwell da Innsbruck, che suonarono davanti a una ventina di anime. Questa non vuole essere una giustificazione per gli austriaci, i quali, diciamoci la verità, sono sempre stati un gruppo mediocre che già mi aveva rotto le palle ai tempi del loro esordio Suspiria del 2000, col loro goth metal scialbo con una voce femminile fastidiosissima, ma che rimane comunque superiore a ‘sta schifezza dal titolo di Metatron. La Napalm (ai tempi già in piena caduta libera) in relazione a sto disco li spacciava come symphonic gothic nu metal, una roba che solo la descrizione ti fa venire l’orticaria. Non a caso l’album in questione è di una bruttezza rara e c’è veramente poco da salvare.

HELLVETO – In Arms of Kurpian Phantom

Griffar: Qualche tempo fa, nel festeggiare il ventennale del loro primo full Autumnal Night, scrissi che per approcciarsi agli Hellveto, gruppo di indiscutibile talento e punta di diamante della scena epic/symphonic/pagan black polacca, il disco più appropriato è In Arms of Kurpian Phantom, loro quarto episodio discografico. Forse un po’ più chitarrocentrico del solito, il disco palesa qualche influenza Summoning (dei primordi) in più, perché comunque le atmosfere coinvolgenti affidate quasi totalmente alle tastiere predominano sulle trame di chitarra, ma va precisato che se queste ultime fossero state tenute più in secondo piano l’impatto fortemente black metal di ogni pezzo sarebbe stato meno fragoroso ed efficace. In questo modo anche le orchestrazioni prendono valore e si stagliano nel panorama di questo sottogenere come a pochi altri è riuscito: possiamo azzardare parallelismi con i migliori Graveland, i primi Juvenes, i Woodtemple più ispirati, il tutto rivisitato in modo maestoso e coinvolgente come (per l’appunto) scuola Summoning insegna. Il disco si articola su 7 pezzi e dura una cinquantina di minuti, che non sono pochi ma si presentano leggeri, piacevolmente portatori di melodie trascinanti e memorizzabili. La loro discografia è imponente, ma ribadisco il suggerimento di iniziare da questo disco se si vuole iniziare una riscoperta, tra l’altro meritatissima perché hanno scritto autentiche gemme.

TO SEPARATE THE FLESH FROM THE BONES – Utopia Sadistica

Luca Venturini: Band nata e morta nel giro di due anni, questo trio finlandese ha inciso un Ep e questo full del 2004Formata da ex membri degli Amorphis e, rullo di tamburi, HIM (sì, proprio quelli), la loro è stata una breve apparizione nel mondo grind death. Sul disco sono pure ospiti Jeff Walker e Lee Dorrian, quasi come a voler ribadire l’intenzione di suonare in maniera filologica un genere nato molti anni prima del 2004. Di per sé Utopia Sadistica non sposta di una virgola quanto già fatto da gruppi storici come Carcass e Napalm Death, ma non credo che ai Nostri fregasse poi molto farlo. Quindi prendete il disco per quello che è: mezz’ora scarsa di onesto e divertente grind death, appunto. Il disco è quasi introvabile e nemmeno su YouTube si riesce ad ascoltare integralmente, ma ce n’è qualche copia su Discogs e non costa poi molto. Per appassionati.

OMNIUM GATHERUM – Years in Waste

Barg: Come già detto, gli Omnium Gatherum ci hanno messo un po’ a trovare la quadra. Lo stesso si può dire per il modo abbastanza repentino in cui l’hanno persa poco dopo averla trovata, ma comunque ora ci basti ribadire che, dopo inizi incerti e in cui non si capiva bene dove volessero andare a parare, con il presente secondo full Years in Waste tutto inizia a essere più a fuoco. Certo il disco è ancora piuttosto acerbo, ci sono svarioni pseudo-prog che potevano tranquillamente risparmiarsi e soprattutto il cantante dell’epoca era terribile, ma qui e lì comincia ad affiorare quello stile cosmico che poi farà la grandezza di The Redshift, ovvero il disco con cui i finlandesi riusciranno finalmente a trovare il proprio equilibrio. In tutto questo l’anno scorso era uscito un Ep che avrebbe dovuto anticipare un nuovo album, però poi non si è saputo più nulla. Aspettiamo.

NATRON – Livid Corruption

Gabriele Traversa: Pugliesi, brutal death, tecnici e a cazzo drittissimo. Hanno avuto anche l’approvazione di Piero Tola, una persona il cui orologio interiore è fermo all’uscita di Seven Churches dei Possessed, quindi non potranno che far felici, oltre ai normali amanti del genere, pure i vecchi babbioni che, se non sentono la puzza di cadavere in decomposizione nel sepolcro registrata sul mangianastri dove mia nonna si ascoltava le cassette che uscivano con Gente, si cominciano a innervosire. Poi il ruggito del cantante Mike Tarantino a metà della traccia d’apertura (House of Festering) è una delle cose più liberatorie al mondo. Come una scorreggia trattenuta in ascensore per 45 piani. Talmente iconica che finì anche nella clip sui metallari di Urban Jungle. Consigliato a tutti gli amanti del brutal death metal col petto villoso e al sapore di orecchiette con le cime di rapa.

ENTHRONED – Xes Haereticum

Griffar: Dopo il massacro totale di Carnage in Worlds Beyond del 2002, gli Enthroned tornarono a reclamare il loro dovuto posto nella storia del black metal con un altro massacro che nulla invidia al predecessore, rappresentandone piuttosto l’ideale prosecuzione sulla falsariga di quanto sanno fare meglio: macinare riff in monocorda stroncando le reni all’ascoltatore senza perdersi in inutili bizantinismi che ritardino il collasso totale degli organi interni. Tutto ciò mediante brani brevi o di media lunghezza, concedendosi comunque due episodi nei quali la furia devastatrice viene parzialmente mitigata, giacché sia Vortex of Confusion sia Seven Plagues, Seven Wraths sono, almeno in parte, più lunghe e più ragionate, e contribuiscono a rendere meno statico un album che, sebbene non abbia difetti particolari, se suonasse tutto nello stesso modo per 45 minuti alla lunga stancherebbe. Non è così, non stanca per nulla e annovera anche chicche imperdibili come Blacker than Black o l’apertura Crimson Legions, ma la vera bomba arriva in chiusura: Hellgium Messiah è diventato uno dei loro cavalli di battaglia dal vivo ed è un brano da pogo-più-violento-che–si-può. È la loro Angel of Death, il brano che smuove le masse; su disco termina con l’inno nazionale del Belgio, dal vivo l’ho vista due volte: una ad inizio concerto, con l’inno usato come intro, mentre la seconda volta a chiusura del concerto – e per il gruppo headliner c’è stata poca considerazione, gli Enthroned avevano distrutto tutto. Alle pelli c’è Alsvid, devo aggiungere altro? Sì, i soliti complimenti a Sabathan, un black screamer come ne sono esistiti pochi, grandissima prova la sua nel mitragliare liriche trasudanti – come le composizioni – puro odio ed anticristianesimo.

GOD DETHRONED – The Lair of the White Worm

Luca Venturini: Vabbè dai, di cosa vogliamo star qui a discutere quando parliamo dei dischi dei God Dethroned? La recensione di ciascuno dei loro dischi potrebbe concludersi con quella domanda, perché sono tutti dei lavori grandiosi o quasi, e The Lair of the White Worm non fa eccezione. Su quest’album Henri Sattler ha saputo far fronte all’uscita di due membri, rimpiazzarli, e nonostante ciò uscirsene con un lavoro incredibile. Praticamente la storia della sua vita in riassunto. Il cantante/chitarrista olandese anche qui fa ciò che gli riesce meglio: fare evolvere un sound personalissimo, mettendoci quintali di cattiveria, potenza e melodia. Thrash, death, black, quello che volete; i God Dethroned sono i God Dethroned, uno dei gruppi migliori del mondo, dei quali bisognerebbe conoscere tutta la discografia. La traccia omonima di questo disco è, secondo me, uno dei loro pezzi migliori di sempre.

SIX FEET UNDER – Graveyard Classics 2

Barg: Questo è uno dei dischi più assurdi che io abbia mai sentito. I Six Feet Under che risuonano tutto Back in Black, il disco, dall’inizio alla fine, uguale identico all’originale in qualsiasi dettaglio tranne che per la distorsione delle chitarre (comunque molto più morbida rispetto ai loro dischi) e soprattutto il growl da autospurgo otturato di Chris Barnes. È proprio un’idea talmente del cazzo che ad ascoltarla rimani ogni volta a pensare ma come cazzo gli è venuto in mente? Questi hanno provato per chissà quanto tempo a suonare insieme tutto Back in Black, poi l’hanno registrato, prodotto, la Metal Blade gliel’ha fatto uscire, c’è stato uno studio dell’artwork, la copertina, eccetera. Ma chi cazzo se lo compra un disco in cui i Six Feet Under risuonano tutto Back in Black uguale identico ma con lo sturalavandini di Chris Barnes a cantare? Qua c’è stata gente che ha avuto questa idea e più di una persona con ruoli dirigenziali che ha pensato fosse una buonissima idea, un’idea su cui spendere soldi. Io ogni tanto mi riascolto un pezzo e mi piego puntualmente dalle risate. La mia preferita è Giving the Dog a Bone, sembra una di quelle cose che facevamo ai tempi dell’università quando eravamo sfasciati e cantavamo in growl cose a caso, solo che qui la formazione è Chris Barnes – Terry Butler – Greg Gall – Steve Swanson. Ha comunque la sua utilità per rimetterti di buon umore ogni tanto.

DARK FURY – Vae Victis!

Griffar: E sono passati già vent’anni dall’esordio dei cattivissimi polacchi Dark Fury, razzisti, guerrafondai, antisemiti e ovviamente NSBM; anzi, forse tra i primi a proporre in quelle zone tematiche così antisociali e sgradite alla maggioranza della popolazione mondiale. Pur essendo attivi già da sette anni, a loro nome esistevano solo due demo e uno split con i Thor’s Hammer (anche loro non propriamente raccomandabili se si vuole discutere pacatamente di politica); è solo dal 2004 quindi che i Dark Fury iniziano a pubblicare dischi con costanza, raggiungendo al giorno d’oggi la consistente quota di 10 full, almeno altrettanti split, un live album e svariate compilation che racchiudono comunque materiale già edito. Il tutto si dipana su 9 brani di roccioso black metal di stampo retrò e con qualche vaga influenza pagan-folk slava… ma vaga, eh! Non eccessivamente veloce, e a tratti più vicino a un thrash americano di seconda fascia, il disco scorre via piuttosto liscio anche per via di un minutaggio entro la media (35 minuti) e la conseguente durata non eccessiva di ogni singolo brano. Li preferisco quando accelerano (Revenge, ad esempio, oppure l’omonima), anche se questo capita abbastanza di rado, e nel complesso il disco è abbastanza statico anche per via della padronanza non certo funambolica degli strumenti. Sostanzialmente il grosso dei loro fan i Dark Fury lo hanno conquistato per via dell’estremismo delle liriche, la musica a tratti è solo un mero accompagnamento per garantirsi l’occasione di esprimere le loro idee. Per quanto mi riguarda è anche questa una valida espressione artistica, se poi si vuole ascoltare black metal originale, trascinante o fumantino meglio rivolgersi altrove.

BRODEQUIN – Methods of Execution

Luca Venturini: A onor di cronaca, una volta segnalai i Brodequin a un mio collega già avvezzo al death metal, anche se rimaneva sul classico più classico, sapete, DeicideMorbid Angel, Death e via dicendo. Mi sono preso a cuore la sua educazione deathmetallica e ho deciso di iniziare questo nuovo percorso di studi proprio con il trio di Knoxville. I suoi primi commenti sono stati e cito: “Ma è disumano. Sembra il rumore di qualcosa di otturato”. Al di là delle battute legittime sul modo inconfondibile di cantare di Jamie Bailey, il gruppo gli era ovviamente piaciuto. Methods of Execution è stato l’ultimo lavoro prima dello scioglimento avvenuto nel 2008; sarebbero poi tornati a riformarsi nel 2015 e solo quest’anno sono usciti con un nuovo full. Ed è stato un bene, perché se ne sentiva proprio la mancanza. Methods of Execution ci aveva lasciato una band in stato di grazia, ispiratissima e matura. Riff devastanti, batteria costantemente (lo voglio dire, dai, lo voglio dire, ok lo dico) al FULMICOTONE e produzione sporchissima assolutamente coerente con la proposta musicale rendono questo terzo disco della band americana un lavoro immenso.

ORDO TEMPLI AETERNAE LUCIS / DESOLATION TRIUMPHALIS – Split 

Griffar: Non sarei me stesso se non vi parlassi di qualcosa di veramente sconosciuto, meglio ancora se appartenente ad un passato oramai lontano. Questo è uno split 7” uscito in 300 copie per la francese Niessedrion, etichetta minuscola durata assai poco ma capace di mettere in roster Blackdeath e Woods of Infinity, oltre allo split 7’ Satanic Warmaster/Gestapo 666. Erano anni nei quali, se si aveva passione e intraprendenza, si riuscivano a pubblicare opere che poi sarebbero diventate chicche da collezione: difatti per procurarsi una copia in buone condizioni del vinile del quale si sta parlando ci vogliono cifre considerevoli, vista anche la durata di appena 8 minuti. Le due band sono state attive per un limitato periodo di tempo e sono state alfieri del più marcio underground francese. I Desolation Triumphalis in tre anni di vita hanno pubblicato tre split (questo, uno con i Bekhira e uno con gli Horna) e un full in puro stile black legions. Marcissimi, assai poco melodici, non innovatori eppure ottimi riciclatori, comunque più che apprezzabili, per cui se siete dei nostalgici di quel filone sono un gruppo che fa per voi. Gli Ordo Templi Aeternae Lucis a un full vero e proprio non sono mai arrivati – di loro si ricordano, oltre a questo, la split demo con gli Hayras (pezzo rarissimo) e due split CD coi Gorgon e i Blessed in Sin – ma sono ancora più cult band dei loro colleghi. Liriche tendenti all’occultismo ispirate (anche) da Baudelaire, un suono più personale che li ha portati a scrivere pure un tributo a Diamanda Galas (in Les Litanies de Satan, pezzo che risale addirittura al 1993), più veloci e simili agli Hirilorn quando tirano decisi, propongono anche arrangiamenti di archi, passaggi acustici di forte impatto emotivo con voci femminili arcane e stregonesche, strane voci distorte, convinto satanismo; le loro uscite sono tutte esempi stupendi di quanto può essere malato e malvagio il black metal. Se gradite l’underground più totale cercate i dischi di queste due gemme perdute nel tempo, valgono ogni sforzo.

TSJUDER – Desert Northern Hell

Michele Romani: Desert Northern Hell rimane ancora oggi il miglior disco degli Tsjuder, combo in realtà mai particolarmente amato tra i blacksters di questo pregiato blog ma che nel corso degli anni ha saputo ritagliarsi un suo spazio all’interno della variegata scena black norvegese. Lo stile di Dag e compagni non è molto cambiato nel tempo, trattasi sempre di un ferocissimo black metal nordico che guarda molto alla vecchia scuola, soprattutto per quel che concerne i primi due lavori agli albori del nuovo millennio. Non che Desert Northern Hell sia particolarmente diverso, per carità, ma si cominciano a notare rispetto al passato una maggior cura degli arrangiamenti e certe sfumature thrash e black’n’roll (rappresentato alla perfezione da Mouth of Madness che è anche il pezzo migliore del disco) che erano appena udibili nei primi due. Certo, se vi aspettate la melodia siete fuori strada, perché il suono degli Tsjuder è un continuo assalto all’arma bianca senza soluzione di pausa, cosa che li caratterizza da sempre ma che paradossalmente è sempre stato anche un po’ il loro limite, lo stesso che forse gli ha impedito di affermarsi su grande scala.

ANAAL NATHRAKH – Domine non es Dignus

Luca Venturini: Mi spiace che gli Anaal Nathrakh siano capitati a me che non li apprezzo più di tanto: riconosco che la loro violentissima proposta musicale sia decisamente valida, ma ad un certo punto mi fan due palle così. E non parlo del loro immobilismo artistico, perché qui trattiamo appena il loro secondo disco. Parlo proprio della musica. Trovo interessante qua e là qualche canzone, ma poi arriva la voce di Dave Hunt e dopo il quinto urlo mi stufa. Domine Non Es Dignus, è un buon lavoro, confezionato bene, non si può dire il contrario, ma ripeto, faccio fatica ad arrivare in fondo a questo come a qualsiasi altro loro disco. C’è stato un breve periodo nel quale mi eran piaciuti, e corrisponde all’uscita del precedente The Codex Necro. Poi però, nonostante abbiano tutte le carte in regola per piacermi, non mi vien mai voglia di ascoltarli (questa è una frase di Gabriele Traversa ed è perfetta in casi come questo). Eppure Do Not Speak è un bel pezzo, l’album è pieno di bei riff ed è veramente estremo. Li ho riascoltati per scrivere questo ventennale ma niente è cambiato in vent’anni. So che il disco dura 40 minuti e son già stufo.

NOSTRADAMEUS – Hellbound

Barg: I Nostradameus appartengono a quella purtroppo non scarna percentuale di gruppi che, nei primi anni 2000, saltarono giù dal carro del power metal e cambiarono repentinamente modo di suonare. Il problema di questi gruppi era che si mettevano a fare tutti la stessa cosa, e cioè un powerthrash improbabile dai ritmi rallentati con un cantato più sporco. Nel caso dei Nostradameus questo però è stato un peccato, perché Hellbound non vale una lira mentre loro erano stati un buonissimo gruppo di un power metal spudoratissimo e che non aveva alcuna vergogna nel mostrarsi come tale. Che poi ci sono passaggi, o anche intere canzoni (come One Step Away o I am Free) in cui ritorna prepotente la loro capacità di scrivere pezzi da fomento con l’immortale accoppiata coro da osteria/riff da trattoria; però questo non fa che rendere ancora più amara l’intera esperienza. Anche perché, onestamente, a me questo stile né carne né pesce, che non vuole essere più qualcosa ma non riesce ancora a essere qualcos’altro, ha sempre reso abbastanza insofferente.

DEFEATED SANITY – Prelude to the Tragedy

Griffar: Circa dieci anni dopo la nascita del progetto, esce nel novembre 2004 il debutto dei tedeschi Defeated Sanity. Come cambiano i tempi, nevvero? Oggi ci sono band che a un anno di distanza dal primo vagito hanno già 3 o 4 full in curriculum. Va beh. Prelude to the Tragedy è un buon esordio di brutal death metal tecnico, simile a quanto per un certo periodo è andato di moda in quei tempi, proposto da gruppi in maggior parte americani od olandesi, scuole riconosciute nel tempo come indubbie protagoniste del campo di gioco. Non tutto il materiale è inedito, perché negli anni precedenti erano usciti comunque 5 demo e uno split, anche se qui tutto è rivisto e riarrangiato per uniformarlo all’innegabile progresso tecnico-compositivo dei ragazzi. I quali piazzano un buon disco d’esordio, conciso, diretto, naturalmente focalizzato sul musicare ogni turpitudine dell’animo umano nel modo più esplicito e violento possibile. All’epoca erano ancora molto influenzati da Cannibal Corpse e Suffocation, ma suonavano già come funamboli del calibro di Pyaemia e Disawoved, cioè in modo da far sembrare gente come Atheist e Sadus pischelli alle prime armi. Il disco vola via in un amen e diverte perché snello, macinaossa, gustosamente brutale – senza deragliare nel grottesco – e distinto da tecnicismi di ogni sorta: nel riffing, negli assoli vagamente reminiscenti l’accoppiata Hannemann/King e nella riuscita proposizione di cupe e astratte melodie che donano al disco un che di senso compiuto, di maturità acquisita nel tempo. L’unico difetto palese è il growling parecchio monotono di Marcus Keller, ma per soli 32 minuti scarsi è quasi irrilevante. Un disco che potrebbe piacere anche a chi apprezza il death metal tecnico moderno; e sappiate che in seguito sono pure migliorati.

Un commento

  • Avatar di Cattivone

    Avevo sentito parlare dei Graveyard Classics fino al volume 3. Incuriosito ho controllato, pare ne sia uscito un quarto oltre ad un cofanetto che li raccoglie tutti.
    Su Encyclopedia Metallum Graveyard Classics 2 ha 10 recensioni con una media voto dell’8%, mentre il 4 ne ha 6 con un voto medio del 7%, chiaro indice del fatto che col tempo la qualità dell’offerta è calata. Comunque se presi a piccolissime dosi fanno ancora ridere.

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