Avere vent’anni: giugno 2004

ELECTRIC WIZARD – We Live 

Stefano Greco: We Live è il disco che apre la fase due della carriera degli Electric Wizard, quello da cui in avanti  è il matrimonio artistico e di vita con Liz Buckingham e la sua chitarra a divenire il perno del gruppo (con bassisti e batteristi cambiati alla bisogna). Ricordo anche che (quantomeno all’epoca) venne considerato come il punto più basso della loro discografia. Ma io in realtà non sono nemmeno sicuro di averlo mai ascoltato davvero, un fattore che non ha però impedito che mi venisse comunque affidato d’ufficio in quanto presunto esperto del settore. Passano venti minuti (più o meno i primi due pezzi) e il dubbio mi rimane. Nonostante non mi sembri di ricordare nulla in particolare la formula è talmente familiare che in ogni caso l’album risuona come qualcosa di noto. Traboccante di quel tipico senso di confusione malsana che lo pone in perfetta continuità con il resto della produzione; un mutamento di stile (lieve, sia chiaro) ci sarà semmai realmente a partire dal successivo Witchcult Today (e quello sì me lo ricordo bene). Ad ogni modo fatico a capire come una cosa del genere possa finire nei ranking bassi di qualsiasi persona dotata di buon gusto. Passa un’oretta e alla fine non riesco a risolvere il mistero sul fatto che lo conoscessi o meno, quello che so di sicuro è che mi accompagnerà ancora per un bel po’ in questa lunga estate calda.

MALEVOLENT CREATION – Warkult

Griffar: Tolta la breve circa-thrasheggiante Dead March che apre il disco e in parte funge da intro, appena parte Preemptive Strike si viene scaraventati in una sanguinosa battaglia all’arma bianca. Roba da decine di migliaia di morti, uomo contro uomo e vince l’ultimo che resta in piedi, sebbene gravemente mutilato. Questo è Warkult, nono album dei leggendari deathster americani Malevolent Creation, oramai un’istituzione che oggi può vivere sulle glorie passate ma che all’epoca lavorava sodo proprio per poter arrivare ad essere giustamente celebrata in tempi odierni al pari degli altri mostri sacri. Qualche sconfinamento nel brutal death, la prova maiuscola di Dave Culross alla batteria oltre a quella dei due chitarristi storici Phil Fasciana e Rob Barrett, con Gordon Simms al basso a delineare con precisione il tutto. Discreto anche Kyle Simons (Hate Plow) alla voce, grintoso e incazzato anche se, a mio parere, se ci fosse stato Hoffmann i pezzi avrebbero avuto quel quid in più. Quisquilie, il disco non ha sbavature o cedimenti né cali di tensione o brani da scartare, e vi scartavetrerà i timpani per tutta la sua durata. L’album si conclude con la cover di Jack the Ripper, opera degli australiani deathrasher di culto Hobbs’ Angel of Death, qui rivista in versione velocizzata e più violenta dell’originale, e ci sta a pennello pure questa. Uno dei lavori migliori di Fasciana e compagnia, non serve aggiungere altro.

THERION – Lemuria / Sirius B

Barg: Negli anni Novanta, dopo la svolta di Theli, c’era questo sentimento abbastanza generalizzato che i Therion facessero musica complessa, ermetica, di difficile assimilazione, rivolta a un pubblico più raffinato e colto rispetto a noi poveri stupidi metallari. Ovviamente non era vero niente, ma abbiamo dovuto aspettare fino a questa doppia uscita perché l’equivoco cadesse definitivamente. Lemuria e Sirius B sono usciti lo stesso giorno, sono figli delle stesse sessioni compositive e si sente. All’epoca Johnsson disse che nel primo aveva inserito il materiale più allegro, diciamo così, mentre le cose più oscure erano finite nel secondo. C’è un fondo di verità, ma alla fine le coordinate stilistiche sono più o meno le stesse. E i due album fanno cadere il suddetto equivoco perché sono composti di canzoni molto lineari, dirette, spesso da cantare sotto al palco con la birra in mano, goticheggianti nel senso più facilone del termine, che ti fanno ondeggiare la testa e ti si stampano nella memoria. Tutto è in pienissimo stile Therion: c’è la consueta alternanza di cantanti e stili vocali (dal growl al coro operistico) e la consueta eterogeneità di immaginari (in ogni direzione possibile: dalla terra cava alla mitologia greca a Lovecraft, giusto per dirne tre completamente a caso). La cosa incredibile è che in totale fanno quasi un’ora e tre quarti di musica e non ti viene mai voglia di mandare avanti. Qui Johnsson era in chiaro stato di grazia, e con ogni probabilità questo è il picco più alto dei Therion dopo Vovin.

ANCIENT – Night Visit

Michele Romani: La cosa che mi piace di questa rubrica è quella di poter ripescare dischi di cui non ricordavo neanche l’esistenza e magari, perché no, dargli una seconda possibilità. È il caso di questo Night Visit, penultimo lavoro degli Ancient che tra l’altro avevo già avuto modo di recensire per Metal Shock ai tempi della sua uscita. Non so se mi sia rincoglionito col passare degli anni o se all’epoca avessi dei preconcetti, ma il lavoro in questione è meno peggio di quanto mi ricordassi: ovviamente non siamo al livello dell’immenso mini e dei primi due full, ma anche per fortuna lontano dalla mediocrità di roba come il clownesco Mad Grandiose Bloodfiends o il noiosissimo The Halls of Eternity. Se non altro in questo Night Visit i pezzi ci sono eccome, a cominciare dalla doppietta iniziale Envision the Beast – Rape the Children of Abel, la seconda con alla voce il redivivo Lord Kaiaphas in veste di ospite speciale. D’altronde, chi poteva cantare un brano intitolato Rape the Children of Abel se non proprio Lord Kaiaphas, colui che interpretò il maledetto fratello Caino nel leggendario video di Lilith’s Embrace? Alla fine il mondo è meno complicato di quanto possa sembrare. Ci sono anche altri momenti degni di nota, come la title track (di cui esiste anche un video, ovviamente ridicolo) ma anche una seconda parte non sui livelli della prima, comprese le due strumentali finali piuttosto inutili. Parliamo comunque sempre degli Ancient post-2000, praticamente un progetto solista di Aphazel ben lontano dai mitici lavori degli anni ’90, ma di cui consiglio di rispolverare tra i tanti proprio questo Night Visit: potreste in parte ricredervi, proprio come ho fatto io.

GARWALL – Black Beast

Griffar: Autori di un black metal ferocissimo nelle loro precedenti uscite discografiche (la demo Inhumana Crudelitas, la partecipazione al 4-way split 7’ EP Awaiting the Glorious Damnation of Mankind e l’EP Abyssus Abyssum Invocat), i francesi Garwall, in occasione del loro full di debutto (rimasto episodio unico, grazie a dio), perdono la tramontana e si mettono a suonare melodic death metal di vaga ispirazione svedese, Dissection in primis. Incredibile. Ovviamente il risultato è un vero schifo: noioso, poco ispirato, magari gradevole all’ascolto per chiunque non fosse familiare con la loro produzione precedente ma assolutamente indigesto per tutti gli altri; mai capito il perché di un cambio così radicale e repentino… almeno fossero stati buoni i pezzi. Manco quello, il disco fu la mia ciofeca dell’anno e non posso che ribadirne l’assoluta mancanza di elementi che possano convincermi a cambiare idea. Statene alla larga.

STORMWARRIOR – Northern Rage

Barg: Come già detto, i primi Stormwarrior erano un gruppo della madonna che aveva tutte le carte in regola per raggiungere una discreta fama tra gli ascoltatori del metal classico continentale, e questo Northern Rage non fa che confermare appieno sia la succitata affermazione sia le promesse del debutto. Rispetto a questo è forse anche superiore, ma parliamo di sfumature e alla fine grossomodo siamo sempre lì. Il punto focale di tutto è sempre la celebrazione dei primissimi Helloween, quelli dell’Ep omonimo e al limite di Walls of Jericho, a parte per i testi incentrati su vichinghi, guerrieri sassoni eccetera. Anche qui troviamo Kai Hansen a occuparsi di produzione, registrazione, missaggio e mastering, oltre che in un paio di ospitate sia come chitarrista che come cantante. E pure il disegnatore delle copertine è lo stesso dei vecchi Helloween. Insomma, power-speed metal tedesco anni Ottanta: doppio pedale a manovella, velocità medioalte, voce acida, cori semplici e melodici in cui tendenzialmente si ripete il titolo del pezzo, eccetera. Chi li conosce già sa, gli altri dovrebbero.

MOTORHEAD – Inferno

Marco Belardi: Con Hammered e Inferno i Motorhead si ritrovarono in una condizione di libero sfogo. Il videoclip di God Save the Queen e la celeberrima We are Motorhead dall’omonimo album del 2000 li avevano riportati parecchio in auge, oltre che in heavy rotation sulle televisioni musicali (R.I.P.). Non che i Motorhead ne avessero bisogno, potremmo dire a posteriori. Inferno fece parlare di sé non soltanto per una serie di ghiotti regalini ai fan, fra cui la comparsata di Steve Vai alla sezione solista in un paio di tracce; lo fece, tuttalpiù, perché era un album pesante e privo di particolari fronzoli. Quello che il fan dei Motorhead, generalmente, si attendeva. Sarò sincero: se devo scegliere un album minore del colosso inglese finisce sempre che nomino qualcosa come Overnight Sensation, autentica gemma nascosta in una sconfinata e pregevole discografia come la loro. Inferno, liscio come l’olio, perfetto così com’è, è certamente superiore a We Are Motorhead – pur senza il summenzionato classicone – e pure ad Hammered, ma per qualche sconosciuto motivo non lo riascolto mai, non ne sento la necessità. Smiling Like a Killer e Life’s a Bitch le mie preferite.

XASTHUR – Telepathic with the Deceased

Griffar: A parere di chi scrive questo è l’apice della proposta musicale di Malefic e dei suoi Xasthur. Per mero gusto personale gli preferisco Nocturnal Poisoning, ma è impossibile non considerare lo strabiliante miglioramento che il musicista americano è stato in grado di acquisire e dimostrare nei suoi lavori in un lasso di tempo sostanzialmente ristretto. Nelle sue composizioni, che di base rimangono inquadrabili nel raw black metal, vengono inserite le influenze più disparate, dalla dark ambient/dark wave al drone, al rock acustico, al funeral doom metal puro e semplice, il tutto amalgamato ed equilibrato con perizia sensazionale e proponendo melodie quasi acchiappascolti, neanche fossero brani rivolti ad un pubblico appassionato di musica leggera. Qui di leggero non c’è assolutamente nulla, la musica di Malefic è quanto di più vicino alla colonna sonora di una vita sbagliata, distrutta dalla delusione, dai rimpianti, dall’isolamento, dalla disperazione senza limiti che si conclude ineluttabilmente con il suicidio. Telepathic with the Deceased è un dannato (in tutti i sensi, figurati e non) capolavoro. Poco meno di 60 minuti di pura agonia suddivisi in dieci brani – tre dei quali strumentali posti in apertura, chiusura ed intermezzo – che non hanno risentito del passare del tempo, né mai ne risentiranno. A Malefic bisogna solo dire grazie.

RHAPSODY – The Dark Secret

Barg: Fino al 2004 i Rhapsody non avevano mai sbagliato nulla ed erano uno dei gruppi power più importanti e influenti del mondo. Poi nel 2004 arrivò questo EP sconclusionato e spezzò un pochino la magia. Ho sempre pensato che Turilli e Staropoli fossero talmente fomentati per la collaborazione con Christopher Lee da aver accelerato oltremodo le cose, preparando in fretta e furia cinque pezzi per il solo gusto di schiaffare il faccione di Lee in copertina. È un singolone di mezz’ora, con tre estratti dal disco che sarebbe uscito di lì a poco (ovvero Symphony of Enchanted Lands II: la vendetta), di cui uno cantato in inglese anziché in italiano, poi due inediti tra cui la cover di Nonhosonno dei Goblin, tema dell’omonimo film di Dario Argento. Poco da aggiungere se non che già all’epoca sembrò un’uscita del tutto superflua che, per la prima volta, sporcò il nome dei Rhapsody, che come detto fino a quel momento non avevano mai fatto uscire nulla di superfluo. Si rifaranno fortunatamente col suddetto SOEL II, che rimetterà le cose sui giusti binari.

DARK FORTRESS – Stab Wounds

Michele Romani: Gli oramai disciolti Dark Fortress sono sempre stati un gruppo piuttosto particolare: autori di un esordio clamoroso come Tales from Eternal Dusk, che pescava a piene mani dai Dissection dei tempi d’oro con all’interno 4-5 pezzi davvero clamorosi, purtroppo non replicato dal successivo e deludentissimo Profane Genocide Creations. Da quel momento in poi i Dark Fortress cominciarono a modificare il loro sound, non so se stufi per i continui paragoni che si facevano all’epoca con la band di Nödtveidt o per semplice voglia di evolversi: l’inizio di questo cambiamento parte proprio da Stab Wounds, per quanto mi riguarda l’ultimo disco decente della band bavarese, che da lì in poi prenderà la strada di un modern black metal infarcito da partiture progressive di una rottura di palle colossale. Qui invece ci sono ancora echi dei vecchi Dark Fortress, anche se è innegabile come le influenze melodiche dei primi due siano nettamente messe da parte in favore di un suono più aggressivo ma allo stesso tempo ragionato. Ci sono alcuni pezzi degni di nota (Self Mutilation, la meravigliosa title track e A Midnight Poem) ma anche molti momenti di stanca, nei quali la band sembra volere fare il classico passo più lungo della gamba, cosa che purtroppo prenderà il sopravvento nella produzione successiva.

IN AETERNUM – No Salvation

Griffar: Vale la pena celebrare il ventennale dell’EP degli svedesi In Aeternum perché è in effetti l’ultimo loro titolo che vale decisamente la pena avere. A dimostrazione che spesso è più benefico pubblicare un lavoro breve ma intenso, piuttosto che un full con magari tre o quattro pezzi buoni e il resto che fa da riempitivo. Accadde agli stessi In Aeternum con il loro Dawn of a New Aeon dell’anno seguente, il loro quarto e per ora ultimo album, per qualità assai lontano dai loro episodi migliori. No Salvation invece è un assalto frontale di 17 minuti di puro swedish fast black metal generazione Abyss Studios, a parte la cover di Blood Runs from the Altar dei Grotesque, sebbene anche questa rivisitata in ottica black metal. I tre brani originali sono tutti ferocissimi, e pazienza se non inventano nulla di diverso da quanto ci si può aspettare da band come la loro, così ben inquadrata in uno stile preciso. 17 minuti alla grande sono meglio di 35 così così, sia dunque lodato il formato EP. Semmai è strano che al gruppo non venga riconosciuto il ruolo di capostipite del genere, vista la loro nascita nel 1994, e siano sempre stati visti come band di seconda fascia. Non è così, rivalutateli. Senza contare che dal vivo erano impressionanti, al pari di Dark Funeral e Marduk.

IRON SAVIOR – Battering Ram

Barg: Piet Sielck è quello che Cesare Carrozzi sarebbe potuto o dovuto essere se fosse nato anche lui ad Amburgo invece che tra le greggi all’ombra del Gran Sasso: un chitarrista/polistrumentista pelato fissato col power metal e la fantascienza, con la voce alla cartavetrata e uno studio di registrazione in casa. Detto questo, e immaginando che non ci sia bisogno di descrivere più di tanto lo stile degli Iron Savior nell’anno 2024, l’unica informazione che mi preme di trasmettere è che questo è il loro disco a cui sono più legato per motivi strettamente affettivi e soggettivi. Quella del 2004 fu a suo modo una bella estate, Battering Ram lo ascoltavo a manetta e tutto culminò proprio con l’Agglutination di quell’anno, che vide gli Iron Savior headliner (e, ehm, i Marduk di spalla). Tyranny of Steel e l’omonima sono due dei pezzi che più ho cantato sotto la doccia in vita mia, con annesso air guitar a livelli professionistici. Ma comunque, anche oggettivamente, non c’è niente che non va, a partire da un suono, sempre firmato dal solito Sielck, che riuscirebbe a spaccare una montagna. Il guaio è che ora non riesco più a toglierlo dallo stereo.

CARNAL FORGE – Aren’t you Dead Yet?

Gabriele Traversa: Una sottomarca dei primi Soilwork. Utili come l’involucro di una barretta Kinder dopo essersi appena sdiarreati addosso su un treno regionale col bagno guasto. Originali come l’applauso dei passeggeri italiani quando atterra l’aereo. Frizzanti come il commento del calciatore analfabeta X nelle interviste postpartita. Memorabili come un discorso tra due vecchie al supermercato su quale mozzarella sia la più buona. L’unica cosa per cui vale la pena ricordare Aren’t you Dead yet? è che i Children of Bodom, un anno più tardi, chiamarono un loro disco Are you Dead yet? Fortuita coincidenza? Boh, cazzo me frega.

BISHOP OF HEXEN – Unveil the Curtain of Sanity

Griffar: Nel 2004 uscì questo EP Unveil the Curtain of Sanity, collocato a metà tra lo stupefacente debutto Archives of and Enchanted Philosophy (1997) e il secondo The Nightmarish Compositions (2006), fungendo in pratica da promozionale per procacciarsi un nuovo contratto discografico. I quattro pezzi verranno riproposti in toto nel nuovo album in versione più rifinita: qui invece sono più ruvidi e grezzi, e forse proprio per questo li si preferisce. Certo, il black sinfonico e melodico degli israeliani all’epoca era ispiratissimo, ed è quasi incredibile che, già dopo il secondo disco, le loro uscite siano state meno che sporadiche. Strumentisti eccellenti capitanati da un cantante in grado di spaziare dal falsetto a-la King Diamond allo screaming estremo stile Dani Filth, compositori ed arrangiatori di livello molto superiore alla media, i Bishop of Hexen sono una delle tante gemme che in qualche momento nel tempo hanno popolato l’underground senza emergere mai più di tanto (gran parte della colpa va ascritta all’ottusità del metallaro medio, questo va ribadito con gran forza). Il CD fisico è un’autentica rarità, ne furono stampate pochissime copie e oggi viaggia su prezzi considerevoli. Se ce lo avete buon per voi, se lo cercherete buona fortuna!

FRANZ FERDINAND – st

L’Azzeccagarbugli: Mi sarei voluto “vendicare” maggiormente nei confronti di quest’album, ma per onestà intellettuale devo ammettere che riascoltarlo dopo vent’anni mi ha dato sensazioni contrastanti. Facciamo un salto indietro nel tempo: è il 2004, un certo indie/alternative sta acquisendo grande popolarità anche col grande pubblico (spoiler: sarebbe finita presto). Parliamo molto spesso di gruppi disdicevoli o innocui, che venivano comprensibilmente sbertucciati da un pubblico più scafato e dalla critica specializzata (vedi i Jet, per fare un esempio), ma c’era un’eccezione che metteva d’accordo tutti: il primo, omonimo, dei Franz Ferdinand, amati dalle masse, finiti in copertina di riviste specializzate, in top di fine anno ed elogiati da chiunque. Io ero giovanissimo, capivo il tiro di una Take Me Out, ma comprendevo anche che si trattava di una proposta sia derivativa (e fin qui) sia, soprattutto, estremamente monotona e ripetitiva. Perché, ok, i singoli c’erano, ma il disco era davvero una copia carbone di 40 minuti. E io, che non capivo certi superlativi, cominciai ad odiarli. Vent’anni dopo certi sentimenti sono sfumati: il disco resta innocuo e monotono, certo, ma nel complesso è gradevole e, oltre alla menzionata Take me Out e alla celebre Michael, anche la doppietta This Fire (la migliore del lotto) e Darts of Pleasure è davvero notevole. Il resto è passabile, con qualche guizzo qui e lì che però ancora oggi non lascia il segno. Quindi, anche se potrei dire che alla fine “avevo ragione io”, vista la loro parabola discendente anche in termini di consensi (e un avvocato quando ottiene la ragione è sempre soddisfatto), questa volta preferisco essere più aperto verso quest’album: carino, divertente. Nulla di più, ma di certo non detestabile.

EXCITER – New Testament

Marco Belardi: New Testament è la riprova che gli Exciter, in un momento storico in cui il thrash metal andava rinascendo, ci sentivano come delle bestie. Ci credevano e, soprattutto, John Ricci dimostrava di credere ciecamente nel nuovo cantante, Jacques Belanger. Perché, è risaputo, in Canada i cantanti di cognome fanno un po’ tutti Belanger; chiedere ai Voivod per la conferma. Questo Belanger era tecnicamente molto impostato, e naturalmente gli mancava quell’irruenza quasi punk che era tipica di molti cantanti che si cimentarono nell’heavy metal a inizio anni Ottanta. Dan Beehler, che era stato anche il batterista e il leader degli Exciter, non lasciò in eredità agli stessi quell’irruenza di cui ora vi scrivo. The Dark Command – soprattutto – e Blood of Tyrants furono incoraggianti al punto che John Ricci si mise a riregistrare il materiale storico con la momentanea formazione a tre, completata da Rik Charron dietro alle pelli. John Ricci si occupò anche del basso poiché l’altro Charron, Mark, era appena uscito dal gruppo. New Testament non era affatto uno schifo: ci misero sicuramente dentro troppa roba, incluso del materiale appartenente agli anni recenti. Sarebbe bastato prendere il meglio dai primi tre, e dunque chiudere con Long Live the Loud, e fare un mezzo figurone.

BLACK FLAME – Winds of Flagellation

Griffar: Considerato un EP, Winds of Flagellation dei blackster torinesi (in provincia, vabbè) Black Flame è in realtà una specie di compilation di circa mezz’ora, dove vengono proposti tre brani nuovi (due dei quali poi riproposti nel successivo full Torment and Glory), poi i due pezzi comparsi sul sette pollici, uscito per Sombre records in versione limitatissima, e infine altri due pezzi vecchi, risalenti alle demo, qui in versione rimasterizzata. Il loro black metal fortemente venato di sfumature occult e da più di un abboccamento al death metal più cupo e malato è sempre stato affascinante e ha raggiunto l’apice della qualità proprio negli anni tra il 2003 ed il 2006, nel periodo compreso tra il primo ed il terzo album, abbracciando anche questo EP che, in modo gradito, propone materiale più datato ma assai significativo alternato a musica più nuova. Ho sempre avuto gran stima di M:A Fog e del Cardinale, del loro lavoro, della loro genuina passione e dedizione al black metal. Mi dispiace esserci persi di vista, sono i soliti casini della vita. Massimo supporto comunque, nunc et semper.

LACRIMAS PROFUNDERE – Ave End

Michele Romani: Non mi dilungherò particolarmente su questo Ave End, sesta fatica dei bavaresi Lacrimas Profundere, della cui “evoluzione” sonora ho già parlato svariate volte: dal puro doom gotico vecchia scuola dei primi due grandiosi dischi che nel corso degli anni si è trasformato in un goth rock sempre più easy listening. Nello specifico rispetto al precedente Fall I Will Follow ci sono comunque delle differenze: le sperimentazioni e quella parvenza alternative un po’ forzata del suddetto disco in questo frangente vengono messe totalmente da parte, in favore di un suono che mostra le stigmate del mood tipico gotico pipparolo che sarà protagonista nella band da qui in avanti. Qualche brano caruccio qua e là comunque ci sta, e la voce di Cristopher Schmid è comunque cento volte meglio di quella dei due tizi che gli succederanno dopo, per il resto i dischi da avere dei Lacrimas Profundere sono decisamente altri.

WARCRY – Alea Jacta Est

Barg: Questi all’epoca li avevo ascoltati perché più di qualcuno ne parlava benissimo sui forum, e inoltre nella loro iberica patria erano tenuti in altissima considerazione, anche perché parte dei componenti veniva dagli Avalanch eccetera. Insomma, il riff della prima attacca come Bella Ciao e giuro che all’inizio ho avuto paura. Poi tutto si normalizza e viene fuori una specie di power metal leggerino alla maniera in cui gli spagnoli interpretano solitamente il concetto di power metal, qualcosina delle orchestrazioni che qua e là ricorda gli Angra, chitarrine ine ine cazzatine, un approccio più AOR o raffinato rispetto al solito, ingiustificabili impazzimenti malmsteeniani o addirittura prog durante gli assoli. All’inizio ti sembra solo superfluo ma dopo un po’ diventa fastidioso, onesto. Quei momenti in cui pensi alla caducità della vita e a te che stai perdendo tempo ad ascoltare sta stronzata. Quindi ora rimetto su Tyranny of Steel degli Iron Savior e tanti saluti.

SUN OF THE SLEEPLESS / NACHTMAHR – split CD 

Griffar: Per la serie suonarsela e cantarsela per i fatti propri, entrambi i gruppi presenti in questo split sono side-project di Ulf Theodor Schwadorf, a tutti voi più noto per la sua carriera negli Empyrium. Trattati come valvola di sfogo per la sua esuberante creatività, le pubblicazioni a nome dei due gruppi sono state sporadiche e coprono un periodo di tempo assai dilatato. I Sun of the Sleepless vedono la luce nel 1999 grazie a Poems to the Wretches Hearts, uno straordinario EP nel quale il nostro ribadiva la sua ammirazione per i DarkThrone grazie a tre brani immortali, prima tra tutte la meravigliosa O Thou Whose Face Hath Felt the Winter’s Wind, furioso brano di purissimo black metal scritto da un genio, quindi vi lascio immaginare il risultato; nel disco in esame essa viene riproposta in versione riarrangiata, semi-elettronica e semi-acustica, oltre a tre pezzi inediti di poderoso black metal non distante da quello dell’EP d’esordio, alla cover di Dunkelheit (Burzum) e a Tausend Kalte Winter che altro non è che la versione elettro/ambient/pop di En As I Dype Skogen dei maestri norvegesi, già apparsa in precedenza in un EP 7 pollici assai limitato. I Nachtmahr suonano un black metal più canonico che, tuttavia, cela un senso di meditazione e malinconia grazie a più di un passaggio acustico avvolgente. Sebbene il disco in sé non sia imperdibile, rimane un testimone dell’enorme talento compositivo dell’artista tedesco, un simbolo della sua ecletticità e la dimostrazione che, se si usa il cervello, qualcosa di innovativo in ambito metal è ancora possibile tentarlo. Questo split compie vent’anni, pensate quanto era avanti. Beastie-Boys-To-The-5-Boroughs-artwork

BEASTIE BOYS – To The 5 Boroughs

Stefano Greco: To The 5 Boroughs è figlio della ferita ancora fresca dell’undici settembre, lo è a partire dalla copertina di Matteo Pericoli (quello delle copertine del New Yorker) raffigurante uno skyline arcinoto ma oramai inesistente. Dal punto di vista sonoro il concetto è per molti versi lo stesso, una riflessione sul passato che si traduce in una riproposizione di un suono antico e ruvido anch’esso in piena dissoluzione in quegli anni. È infatti dai tempi di  Paul’s Boutique (1989) che il trio non produceva un album di puro e semplice rap vecchia scuola senza le usuali sortite nei territori punk hardcore o lounge strumentali oramai parte integrante del lessico della band da oltre un decennio. A causa di questo suo essere non-esplorativo è considerato tra le cose meno interessanti del gruppo, ma tra un disco interessante e uno che spacca io personalmente scelgo il secondo. Pezzoni asciutti come Rhyme The Rhyme Well (con un Mike D imperiale) ed un folto numero di singoli tra cui la nota An Open Letter to NYC (con il sample di Sonic Reducer dei Dead Boys) rendono una celebrazione gloriosa quello che poteva essere un semplice ritorno a casa.

FOREFATHER – Ours is the Kingdom

Barg: I Forefather sono un gruppo molto particolare. Sono una specie di versione anglosassone (non inglese: anglosassone) del viking metal, che sarebbe scorretto nominare con questa definizione perché, nel loro immaginario, giustamente i vichinghi erano i nemici. Sono quindi una specie di Falkenbach più rozzi e meno onirici, ma egualmente evocativi, anche se a loro modo. I loro dischi, o quantomeno quelli che ho ascoltato, hanno sempre qualche picco clamoroso, di solito nei ritornelli, con il resto nella media del genere. La loro impalcatura lirica, completamente incentrata sull’epopea britannica pre-vichinga e pre-normanna, li rende comunque estremamente affascinanti, perché esaltano un periodo storico che solitamente i gruppi inglesi non considerano e che noi, dai Bathory in poi, siamo abituati a vedere dalla parte opposta. Ours is the Kingdom non è il miglior disco del duo inglese, ed è decisamente inferiore al successivo Steadfast, ma merita quantomeno un ascolto.

EMETH – Insidious

Griffar: Insidious è il debutto sulla lunga distanza dei belgi Emeth ed è a tutt’oggi uno dei dischi più violenti che io abbia ascoltato in vita mia. Non scherzo. Inquadrabili di base in un brutal death furibondo che lascia esausti sul pavimento in cerca di aria, i ragazzi erano in grado di spiazzarti, spezzarti e sfiancarti con rallentamenti che non avrebbero sfigurato in un disco dei Mortician. O con schegge impazzite di assoli di chitarra, o con un riff strano, persino vagamente melodico. Eccellenti strumentisti e con la dote non comune di rifiutare il frastuono fine a sé stesso, gli Emeth pongono in questo album le basi verso un’evoluzione che li ha portati ad abbracciare il math-core nei dischi successivi. La sola Impermanence of Being vale il disco, ma gli altri pezzi ne eguagliano il livello, consegnando a Insidious il diploma di chicca imperdibile. Quasi incredibile che sia un essere umano a suonare la batteria (si tratta di Tim Ales, un mostro) e le voci gutturali sono agli apici dell’intero brutal death. Mamma mia che mazzata! E che produzione, nitida e bilanciata, sicché ogni strumento sia perfettamente integrato con gli altri. Una vera gemma da non perdere, occhio all’acufene.

ESOTERIC – Subconscious Dissolution into the Continuum

Bartolo da Sassoferrato: Questo è il quarto disco degli Esoteric e, a mio modo di vedere, il meno convincente: se gli altri dischi della compagine di Birmingham di attestano, in una scala da uno a dieci, dall’otto in su, SDitC potrebbe prendere un sette, se non altro perché le canzoni mi sembrano avere una struttura meno organica. Lo stile si mantiene qui sostanzialmente in linea con le uscite precedenti. Funeral doom e death metal si fondono sino a configurare un complesso affresco musicale, che mira a evoca le profondità emozionali dell’ascoltatore avvolgendolo in tumultuose sonorità distorte. È come trovarsi all’interno di una psiche frammentata, dove ogni nota rappresenta una manifestazione di conflitti interni e processi dissociativi. Gli accordi di chitarra distorta emergono come allucinazioni uditive, portando l’ascoltatore in un vortice di percezioni alterate e perturbanti, come quando nel dormiveglia gli spettri della perdita del sé ci assalgono senza possibilità di resistervi. Le voci, distorte e cavernose, riecheggiano come le manifestazioni vocali dell’angoscia esistenziale, penetrando fin nel nucleo dell’identità dell’ascoltatore, come un incessante ruminare che scandisce il passaggio del tempo in una psiche tormentata. Va da sé che non è un prodotto di facile digestione. Non tutti sono disposti a lanciarsi in un viaggio attraverso gli stati mentali alterati di un individuo che passa vari stadi di una crisi di coscienza. Ogni traccia del disco rappresenta un episodio di derealizzazione e depersonalizzazione, che minaccia di sommergere l’ascoltatore in un abisso di emozioni disgreganti. Come nei casi clinici di intensa dissociazione, dove l’individuo è confrontato con la frammentazione dell’io, così questo disco ci pone dinanzi alla potenza della musica, capace di evocare stati mentali di estrema disintegrazione e condurci in luoghi psichici di profonda inquietudine.

LEVIATHAN – Tentacles of Whorror

Griffar: Tentacles of Whorror è il secondo full del progetto solista americano Leviathan, facente capo al solo polistrumentista Wrest, il quale – va detto a suo merito – prediligeva un suono di basso corposo e massiccio. All’altezza del 2004 la sua discografia era già sterminata, tutti demo cd-r o cassette limitatissimi e di fatto introvabili al di fuori degli Stati Uniti, oppure compilation degli stessi tipo il doppio album Verräter, monumentale assemblaggio di vari brani per lo più inediti da circa due ore e mezzo di durata, buffamente non considerato come full ufficiale. La proposta di Wrest, soprattutto agli esordi, è sempre stata in spiccata evoluzione, anche se il suo intento (riuscito a meraviglia) di fondere black metal e dark ambient ne costituì immediatamente un marchio di fabbrica che prima di allora non si era mai sentito, o comunque non a questi livelli. Quello che possiamo trovare in ogni album dei Leviathan sono proprio i pezzi, cupi, malati, distorti, strani; spesso assai lunghi, ma non lunghissimi (il massimo sono i 9 minuti dell’omonima), dimodoché l’ascolto di tutta l’opera risulti immediato e coinvolgente sebbene in totale duri ben oltre l’ora. Tutti i dodici brani sono delle gemme di oscurità raggelante, sono disturbanti come black metal insegna, specialmente quello raw all’americana che in un certo senso ha fatto scuola rinvigorendo e rinfrescando l’intero genere a livello mondiale. Nel caso di Leviathan gran peso viene dato all’atmosfera ed alla musicalità dei pezzi, oltre all’interpretazione vocale che conferisce loro credibilità e passione. Cupi e angoscianti per impostazione, vari nelle partiture e nelle soluzioni compositive ed interpretato alla perfezione: non si può chiedere di meglio. Una pietra miliare.

DOOMSHINE – Thy Kingdoom Come

Barg: FERMI TUTTI! CAPOLAVORO! E devo dire la verità: non lo conoscevo. È successo tutto perché, nello scorrere la lista dei dischi che questo mese compiono vent’anni, mi è capitato questo Thy Kingdoom Come, dal titolo ho pensato che potesse essere qualcosa di buffo e poi, andando a controllare meglio, ho visto che hanno pure chiamato un altro disco The Piper at the Gates of Doom. Mi sono incuriosito e quindi l’ho ascoltato, così di sfuggita, senza sperarci troppo, dapprima in sottofondo, come mi capita spesso altre volte in queste occasioni. Ed è un capolavoro. Migliore scoperta tra tutti i dischi ascoltati per la prima volta grazie alla lista dei ventennali. Non mi ricordo cosa esattamente è uscito nel 2004, ma di sicuro niente Manowar né Summoning, quindi di sicuro questa meraviglia assoluta è il disco dell’anno 2004. Proclamazione che arriva in imperdonabile ritardo, ma meglio tardi che mai. Probabilmente è uno dei miei dischi preferiti in assoluto tra quelli usciti dopo il 2000. Loro sono tedeschi, completamente fuori dal giro visto che non hanno suonato praticamente in alcun altro gruppo, e col nome glorioso di DOOMSHINE hanno registrato tre dischi, questo è il primo e il terzo nel 2015, risultano ancora attivi ma io giuro che non li avevo mai sentiti nominare. Ma soprattutto, a parte i giochi di parole nei titoli, sono serissimi. Questa è roba serissima. Epic doom metal classico, a metà tra Candlemass e Solitude Aeturnus, un’ora scarsa che vorresti fossero dieci ore abbondanti, atmosfere cimiteriali e afflato trascendente, in cui per ogni cosa che fanno ti ripeti che non avrebbero potuto fare niente di migliore. Non c’è su Spotify e manco su Bandcamp, quindi per ascoltare il disco dell’anno 2004 dovrete cliccare qui.

2 commenti

Lascia un commento