Avere vent’anni: THERION – Vovin

Anche se, nell’immaginario collettivo, il punto più alto della discografia dei Therion è il precedente Theli, il mio preferito è decisamente Vovin: sia perché è quello che ho ascoltato più spesso in questi vent’anni, sia perché lo reputo il più maturo e compiuto mai uscito dalla penna di Christofer Johnsson. Difficilmente potrei descrivere le mie sensazioni quando vidi per la prima volta il video di Birth of Venus Illegitima, dato che non avevo mai sentito nulla del genere, e la cosa mi sconvolse tanto che nella mia mente di ingenuo sedicenne si spalancarono di colpo nuove possibilità di orizzonti musicali. All’epoca forse non avrei saputo spiegare bene il motivo, ma l’illuminazione definitiva la ricevetti anni dopo, quando riuscii a vederli per la prima volta dal vivo in un bosco sloveno in mezzo al fango e alla merda. Perché dovete sapere che – e questo pregiudizio immagino che per molti versi li accompagni adesso – vent’anni fa da molta parte del mondo metallico i Therion erano inquadrati all’interno del carrozzone gothic metal, quello fatto di pizzi, merletti, austeri cipigli e gente che si prendeva estremamente sul serio. Lo stesso insieme dei Theatre of Tragedy, per capirci, o quantomeno dei My Dying Bride. Questa concezione errata mi accompagnò per molto tempo, facendomi travisare lo spirito della band in modo così persistente che fu solo il vederli dal vivo a darmi la seconda, e definitiva, illuminazione. Cazzo, i Therion erano un gruppo metal. Si intenda gruppo metal nella stessa accezione che ho usato per definire il passaggio dei Cradle of Filth da Dusk a Cruelty: un gruppo cioè con entrambi i piedi ben saldi nella tradizione, che non usa cioè il lessico metal (chitarre distorte, doppio pedale etc) per cercare di fare qualcos’altro ma, al contrario, prende influenze esterne e le impianta su una struttura fortemente ortodossa. Aiutò anche il fatto che quello era il tour del meraviglioso Lemuria/Sirius B, in cui Johnsson zompava da una parte all’altra del palco con un sorriso a trentadue denti mentre i componenti dello sterminato coro operistico vestiti in maschera apparivano sinceramente divertiti; fu quindi istantaneo collegare quest’attitudine all’intera ragion d’essere dei Therion, e in particolare al disco qui in oggetto, del resto il primo che mi venga in mente quando penso alla band svedese. 

Voi direte che potevo arrivarci da solo, e che all’interno dello stesso Vovin la cosa diventava palese almeno in The Wild Hunt, il pezzo power metal con Ralf Scheepers alla voce, e in Wine of Aluqah, altro mirabile esempio di powerone trullallero da osteria, o ancora nel video di The Rise of Sodom and Gomorrah, registrato dal vivo, in cui i riffoni da scapocciamento che sorreggevano tutta la struttura del pezzo erano estremamente evidenti. Effettivamente il passo avanti rispetto a Theli è soprattutto formale, con l’eliminazione di qualsiasi residuo dell’ormai remoto passato estremo e la messa in primo piano degli elementi orchestrali, ma da un punto di vista strutturale i pezzi sono indubbiamente figli di un approccio metallico alla questione.

La tensione è altissima per tutto l’album, senza riempitivi o momenti di calo: le canzoni sono tutte bellissime, con alcuni capolavori che alzano ancora di più la media, già alle stelle di suo. Era un momento in cui dalla penna di Johnsson usciva benissimo qualsiasi cosa, con una riuscitissima commistione tra l’elemento sinfonico e quello metal. È tutto estremamente credibile, e non si scade mai nella sensazione di ascoltare qualcosa di artefatto o appiccicaticcio, come invece accade spesso nelle recenti produzioni dei Therion. Ci sono tonnellate di orchestrazioni, sovrastrutture, impalcature, arrangiamenti operatici, ma non si scade mai nella frociata alla Nightwish o in qualcosa che non sia sempre estremamente, strutturalmente, intimamente heavy metal. Ed è per questo che, se Theli era di sicuro più ruspante, è con Vovin che l’idea musicale nella mente di Johnsson assume la sua forma più piena e compiuta. Citare solo qualche canzone è arduo, perché il disco merita dall’inizio alla fine, e risulta adatto per una molteplicità di contesti, dall’ascolto meditato fino al sottofondo durante un viaggio in macchina, ma difficilmente potrei fare a meno di pezzi come Rise of Sodom and Gomorrah, Birth of Venus Illegitima oppure Eye of Shiva. Un disco del genere sarebbe potuto uscire solo nella Svezia del 1998, sempre sia lodata la Svezia del 1998. (barg)

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