Avere vent’anni: RHAPSODY – Dawn of Victory

Questo è il miglior disco dei Rhapsody, per distacco. Certo, Legendary Tales è fresco, innovativo, ha dei pezzi splendidi e tutto. Certo, Symphony of Enchanted Lands è barocco, complesso, un salto nel vuoto uscito benissimo, eccetera. Certo, Power of the Dragonflame è potente, compiuto, maturo, e via dicendo. Ma è in Dawn of Victory che i Rhapsody riescono a essere tutto quello che avremmo sempre voluto che i Rhapsody fossero, è in Dawn of Victory che Turilli e Staropoli arrivano direttamente al punto senza mai girarci intorno. Questa recensione potrebbe finire qui, perché il concetto di Bello associato ai Rhapsody è talmente semplice, elementare e viscerale che basterebbe consigliarvi di ascoltare (spero per l’ennesima volta) Dawn of Victory per certificare la verità dei miei assunti, ma proviamo ad approfondire comunque la cosa.
Se fossi Marco Belardi avrei tre cani, una batteria elettronica, un arsenale di strumenti da pesca, non pronuncerei la C, la T e la R e soprattutto inizierei un lunghissimo discorso sull’importanza della presenza di Alex Holzwarth dietro le pelli, che peraltro aveva seguito la band anche nel tour del precedente album. La presenza di un batterista vero, bravo e personale al posto dello psicodramma-Carbonera dà più corpo al comparto tecnico, rendendo Dawn of Victory un disco più credibile dei precedenti, che finivano per dare l’idea di avere sempre quel che di fumettoso. Proseguendo nel discorso, un altro punto a favore di Dawn of Victory è la produzione, chiara, pulita, potente quando serve, che riesce finalmente a valorizzare al meglio la loro musica. Nei due precedenti album c’era ancora quel sentore di amatorialità plasticosa che sarà anche affascinante e romantica ma che finiva per tagliare le gambe ai pezzi. La produzione di Dawn of Victory rimarrà invece come un punto di riferimento nel genere per gli anni a venire, e non saranno pochi i gruppi che cercheranno di riprodurne la resa.
Ma il motivo più importante per cui questo è il miglior disco dei Rhapsody è che rappresenta al meglio la loro poetica. È, insieme a Legendary Tales, il loro disco meno barocco e cervellotico, quello in cui usano il meno possibile la tecnica dell’accumulo e in cui pongono la maggiore attenzione possibile alla forma-canzone. È anche il loro disco meno drammatico e più scanzonato, con un’atmosfera spudoratamente da scampagnata primaverile in collina in cui Fabio Lione canta con un tono divertito e tutta la band sembra divertirsi davvero a suonare quello che sta suonando. Uno stato di grazia assoluto che si riflette anche sul lato compositivo: i nove pezzi effettivi sono tutti splendidi, e non c’è mai un solo momento in cui ti venga anche lontanamente in mente di cambiare traccia. Dall’inno dell’eponima con quel GLORIA PERPETUA responsabile di raucedini e sfiatamenti vocali a chiunque si sia ritrovato a cantarla ai loro concerti fino al tripudio in battere di Holy Thunderforce, il cui video coglieva perfettamente lo spirito della cosa, tra porcellini allo spiedo, procaci locandiere e rievocatori che si menano per finta per poi brindare tutti insieme nel nome della sacra forza di tuono. Non c’è niente di sbagliato: il ritornello commovente di Triumph for My Magic Steel che vorresti non finisse mai, la filastrocca di The Village of Dwarves, il respiro epico di The Last Winged Unicorn, The Bloody Rage of the Titans che è la semiballad che ogni gruppo power venderebbe la madre per comporre, non c’è niente che non sia perfetto. Persino la suite finale The Mighty Ride of the Firelord è più diretta e immediatamente godibile delle loro solite suite finali.
Non è un caso che questo sia il disco più saccheggiato nelle loro scalette dal vivo. D’accordo, gli altri dischi hanno Land of Immortals o Emerald Sword, ma Dawn of Victory è, nella sua totalità, quello più facilmente riproponibile dal vivo. Perché va bene tutto, ma se vado ad un concerto dei Rhapsody e non sento almeno (almeno!) 3-4 pezzi di Dawn of Victory non torno a casa contento. Speriamo che quest’incubo della pandemia finisca il prima possibile, anche solo per poter andare di nuovo sotto al palco e gridare GLORIA PERPETUA ancora una volta, e poi ancora un’altra, sempre, per sempre. (barg)
Erano giorni che facevo il conto alla rovescia. GLORIA PERPETUA.
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Lo ho sempre trovato bello ma troppo semplice. Cmq la mia edizione limitata me la terro per sempre!
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Ah, che meraviglia quei Rhapsody! Fu un disco più diretto del solito, più energico ed era già chiaro allora che sarebbe diventato un classico. Bel momento.
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