Un Sabbath italiano vol.6: il ballo di San Vito

Il brano che oggi mettiamo al centro dell’attenzione è un brano live, tratto appunto dal Live in U.S.A. della Premiata Forneria Marconi. Il brano è Celebration Medley e lo preferiamo a È Festa, la sua versione originale in studio, per tre valide ragioni:
- Il medley comprende anche un accenno di Impressioni di Settembre, quindi due piccioni con una fava;
- La versione live è suonata a tratti con una pezza metal devastante;
- Ad un certo punto il Moog di Flavio Premoli accenna, poi riprende più convintamente ancora, il tema tradizionale di Funiculì Funiculà.
Tre ottime ragioni, quindi. La storia di oggi parte però da una nota autobiografica di buoni venticinque anni successivi alla pubblicazione di Live in U.S.A..
All’epoca del quinto ginnasio ascoltavo i Sabbath e gli ultimi scampoli di hardcore SxE che Riccardo mi passava, nonostante non comprassi poi molto nel suo negozio di fumetti. Alessio invece mi stava doppiando su cassetta Blues for the Red Sun e Defenders of the Faith. Anche questa cosa avrebbe avuto delle belle conseguenze. Attorno a me invece andavano i Subsonica. Piacevano a tutti e, devo essere onesto, Discolabirinto era anche un bel pezzo, col suo synth obliquo, il suo tempo dispari, asimmetrico. Ballabile eppure cupo. Mica la ballavo, ma era meglio di Gigi D’Agostino alle feste (o no? Certo che il tempo distorce tutto). Partii per Matelica per una rassegna di laboratori musicali scolastici. Portavamo uno spettacolo pretenzioso, ma tutto scritto da noi, pure le musiche. Ero tra i più piccoli in assoluto della congrega. Ricordo tante cose di quel viaggio. Le professoresse ai primi posti del bus e le canne fumate sul retro dai più grandi (ma le prof ci raccomandavano di non fare come loro). Il bacio che una mi stampò sulle labbra, anche se comunque non aveva intenzione di andare oltre. Ricordo la serata di discoteca improvvisata nella camerata della casa di campagna dove alloggiavamo. Ricordo la strobo che qualcuno si era portato e Discolabirinto sparata a volume altissimo a notte fonda, nel buio della campagna marchigiana. Ricordo che però sulla strada del ritorno, dal cassone di un autogrill, raccolsi due album e li acquistai: il quarto dei Led Zeppelin e Storia di un Minuto della P.F.M.. Che mi sarebbe piaciuto il primo dei due era abbastanza scontato. Più sorprendente il secondo, per il ragazzino che ero io. Ma in fondo, chi o cosa era questa P.F.M.?
Esatto, quello lì è Teo Teocoli
Franco Mussida e Franz Di Cioccio, chitarra e batteria, provenivano da un complesso beat chiamato Black Devils. Poi, arruolato Antonio “Teo” Teocoli alla voce (già nei Demoniaci), cambiarono nome ne I Quelli. Il primo brano pubblicato lo scrisse Mussida, ma per motivi di SIAE lo firmò Ricky Gianco. Lo conosciamo, lo abbiamo già incontrato, bel diavolo pure lui. Un piccolo successo arride al complesso, sulla scorta di cover internazionali italianizzate. Intanto entrano Flavio Premoli alle tastiere e Giorgio Piazza al basso. Mussida parte militare, sostituito nel frangente da Alberto Radius. Poi Teocoli molla per entrare nel Clan di Adriano Celentano. I quattro, al rientro di Mussida, intanto si fanno valere come sessionmen per la Ricordi, registrando brani per Mina, Celentano stesso, Fabrizio De André. Soprattutto suonarono al servizio di Lucio Battisti in tutta la sua produzione post ’69. Di Cioccio, Premoli e Mussida incisero tra le altre la celebre Emozioni, brano che dovette motivarli non poco. Durante le registrazioni de La Buona Novella di De André avevano intanto conosciuto l’eccellente multistrumentista Mauro Pagani, il tassello fino a quel momento mancante per il complesso, sempre più intenzionato a tornare prevalentemente in proprio ed a votarsi al nascente verbo progressivo. Serve un nome nuovo: prima viene adottato Krel, poi, su suggerimento di Pagani, quello di un forno dove si reca a comprare il pane a Chiari, in provincia di Brescia. Nasce la Premiata Forneria Marconi come la conosciamo più o meno tutti. La sponsorizza la Numero Uno di Battisti e di Mogol, il quale quando si tratta di aiutare a scrivere il testo di Impressioni di Settembre, lato B del singolo di esordio, offre il suo contributo. Il lato A intanto era l’hard crimsoniano de La Carrozza di Hans, uno dei loro futuri cavalli di battaglia. Ma sarebbe diventato molto più celebre il lato B, ispirato forse proprio dall’atmosfera del brano Emozioni del cantautore di Rieti. Il colpo di genio è la melodia sublime del ritornello, “cantata” (ecco, la P.F.M. non era provvista di un cantante vero e proprio) da un costosissimo Minimoog, il cui timbro era la prima volta che si ascoltava in Italia. La band, ancora squattrinata, aveva ottenuto dal distributore di averne uno a titolo gratuito, a fronte della pubblicità che avrebbe ottenuto col successo del brano. E fu successo, il che condusse alla pubblicazione del primo LP, Storia di un Minuto. Quello che trovai in un cesto da ragazzino.
Il retrocopertina è assolutamente doom
Su Storia di Un Minuto potete davvero leggere altrove, su qualsiasi media mainstream: Rolling Stone, La Repubblica, qualsiasi. In realtà anche Piero Tola aveva già offerto il suo giusto tributo a quel capolavoro immenso. Quel Moog, quello di Impressioni di Settembre, crea effettivamente un Universo, un’atmosfera indescrivibile a parole. Io vorrei però, in linea con lo spirito della rubrica, soffermarmi su alcuni aspetti più cupi, forse quasi gotici, del capolavoro dei milanesi. Non sono molti, ma ci sono. A partire dalla copertina, in puro stile grafico prog. In particolar modo il retro. Guardatelo. In primo piano le sagome inquietanti di figure rappresentate a tavola, sguaiate. Potrebbero essere dei popolani colti a mangiare maccheroni. Oppure invece degli orchi giganteschi intenti a cibarsi proprio di umani. Lo sfondo, non meno inquietante. Torri nere di un borgo in collina, torri senza finestre, senza vita, avvolte da nubi al tramonto. Sarò io a vedere sempre il lato cupo delle cose, ma quel retro a me mette i brividi da sempre. Dentro di musica altrettanto cupa ce ne è poca. Certo, la magia di Impressioni di Settembre sa di spazio indefinito, di interruzione del tempo (forse non-vita). Alcuni passaggi della già citata La Carrozza di Hans, come di Dove… Quando…, sono duri e misteriosi, ma non quanto ci servirebbe per giustificare questo ennesimo pezzo senza senso. Il pezzo più rock e chitarristico poi è tutt’altro che mesto. È esplosivo. È una vera e propria boogie-tarantella. È ballabile. È Festa.
Troppo allegri però paiono mica
Eppure è proprio questo il brano scelto oggi per aggiungere un piccolo tassello a questo mosaico che stiamo tentando di comporre, sabato dopo sabato. Il riferimento nel titolo del pezzo di oggi d’altronde non vi sarà sfuggito. Anche St.Vitus Dance dei Maestri è in parte definibile una tarantella, in effetti. Ma, a parte questo, l’aspetto che ci interessa è a lato. Un’altra delle sfaccettature più originali dei Black Sabbath è stato il folklore incastonato tra i riff. Folklore albionico, ma non solo. Il ballo di San Vito, appunto. O lo scacciapensieri di Sleeping Village (ci sono rimasto, al primo ascolto). Mica si può dire lo stesso dei Deep Purple. Dei Led Zeppelin sì, in parte, ma quando staccavano la corrente. E quindi chi, in Italia, si stava prendendo la briga di ibridare la musica rock non solo con influenze colte, come facevano un po’ tutti (…), ma anche con quelle basse, popolari?
La Forneria lombarda non era mica sola. All’ombra del Vesuvio ne stavano succedendo, per esempio, di cose. C’erano complessi nati già da qualche tempo che stavano cambiando forma, talvolta nome, scambiandosi pure componenti: gli Showmen, Il Balletto di Bronzo, i Città Frontale. Provenienti da questi ultimi, Lino Ajello e Gianni Leone (transitato in realtà per breve tempo) andarono a militare nel Balletto, che nel ’72 diede seguito allo spettacolare esordio con l’ancor più spettacolare Ys (magari ne parliamo un’altra volta). Franco Del Prete e James Senese avrebbero presto trasformato il nucleo degli Showmen in quello dei Napoli Centrale (ma di questi abbiamo già parlato). Intanto la Città Frontale muta forma e accoglie il chitarrista Danilo Rustici (fratello maggiore del Corrado dei Cervello, poi sessionman e produttore di rilievo, anche lui lo abbiamo già incontrato, anche se di sfuggita). Entra pure Elio d’Anna degli Showmen. A questo punto il nome Città Frontale viene abbandonato in favore di Osanna. Osanna che nel ’71 esordiscono con L’Uomo (semplificando molto, un album in stile Jethro Tull) e nel ’72 sfornano, in collaborazione con Luis Bacalov, Preludio, tema, variazioni, canzona, celebre colonna sonora del film Milano Calibro 9. Oggi però ci soffermiamo su quanto pubblicarono invece nel ’73, l’album Palepoli. Pure se perfettamente progressivo (composto di due lunghe suite), il disco accoglie ed anzi esibisce tanti odori e suoni folk partenopei. Inizio indimenticabile in questo senso già con Oro Caldo, lenta ed accogliente da principio, prima di infuriarsi nel corso dello sviluppo successivo (rock, ma anche tarantella). Il complesso mosaico di Palepoli poi farà affiorare in più punti i pezzi di quella tradizione che apre disco, facendola dialogare sia con la durezza delle chitarre che con melodie maggiormente colte. Avesse goduto di suono e produzioni migliori, pure Palepoli saprebbe farsi apprezzare maggiormente fuori dal circuito dei prog amatori. Per i palati meno fini, segnaliamo la durezza di certi riff nel lato B, Animale Senza Respiro. Durezza sempre calibrata in base al concept: un invito a non ascoltare le sirene della modernità (“Neapolis”) e abbracciare invece una vita più genuina, quella dei borghi antichi (“Palepolis“). Non so come la pensiate voi, ma su di me un messaggio del genere attecchisce eccome.
Ma, per quanto abbia scardinato ormai da tempo la diffidenza nei confronti del prog che mi derivava dalle prime passioni punk ed hardcore, le stesse idee io le preferisco, in musica, in un discorso più conciso, asciutto, dinamico rispetto ad una suite. In una canzone, o in qualcosa che ci assomigli.
Nel 1974 la Premiata Forneria Marconi è già andata parecchio avanti rispetto agli esordi. All’estero anche si sono resi conto che potevano benissimo rivaleggiare con nomi noti del prog inglese, così, sulla scorta di album sempre più diretti al mercato internazionale, avevano messo da parte la dimensione strapaesana in favore di un suono che ormai ricordava meno l’origine geografica degli autori. Anche l’idioma era stato accordato ad intenti più universali. Nel frattempo alle quattro corde Giorgio Piazza era stato rimpiazzato da Patrick Djivas, francese ma proveniente dai concittadini Area. È anche l’ora di capitalizzare il successo in prima persona, così i nostri si imbarcano in un estenuante tour negli Stati Uniti che metterà a dura prova la tenuta del complesso,ma che regalerà loro anche soddisfazioni impareggiabili. Risultato, per noi che non c’eravamo, è il primo disco dal vivo della P.F.M., Live in USA, sempre per la Numero Uno di Battisti e Mogol. La scaletta è incentrata prevalentemente sulla discografia “internazionale”, ma a me tremano i polsi quando parte Celebration Medley, che come dicevo all’inizio è composta dalla versione inglese di È Festa e dal tema di Impressioni di Settembre. E mica solo perché preferisco i due brani originali al resto della scaletta. Tutta la band è in stato di particolar grazia e la registrazione ci permette di ascoltare a perfezione quello di cui i cinque erano capaci. Soprattutto sprigionano qui un’energia vitale immensa, che sa di gioia e rivendicazione. Su tutti, la prestazione di Franz Di Cioccio è sconcertante. Porta tutto il brano ad un livello di velocità ed impatto superiore. Pesta addirittura, manco fosse Cozy Powell (che forse all’epoca non aveva ancora potuto mostrare del tutto quello di cui era capace). Premoli giustamente si prende un bel pezzo di scena coi suoi synth magici, e se dovessi proseguire con i parallelismi direi che, se Blackmore doveva per forza licenziare Tony Carey, avrei preferito Premoli a suonare le sue partiture piuttosto che Don Airey. C’è poi Mussida che accetta la sfida di Di Cioccio e si trasforma in un chitarrista di rock duro, con poca distorsione ma tanto ritmo ed energia. Contrappunto e fraseggi ad alternarsi alle mazzate boogie sotto al tema di Premoli. Il dialogo tra chitarra e batteria è pesante, heavy. Quando poi c’è il bisogno di ingentilire, c’è il flauto traverso, dinamico e leggiadro di Pagani. Questa registrazione è un capolavoro vero, fino al finale glorioso col tema settembrino. E lo sarebbe pure se non notassimo il colpo di genio di Premoli, che alla ripresa della tarantella, verso la metà, ci piazza a tradimento il tema di Funiculì Funiculà. Proprio con il Moog. È l’apoteosi, il culmine di tutto questo discorso.

Con King Buzzo sulla destra, alla chitarra
Parliamoci chiaro: anche se sei friulano, quando sei all’estero e ti qualifichi come italiano i tuoi interlocutori pensano subito alla pizza ed al mandolino. La P.F.M. è figlia della Lombardia, è su suolo americano e sa giocarsi benissimo le sue carte. Sa benissimo che chi è sotto al palco, anche se sapesse trovare l’Italia sul mappamondo, non saprebbe mica che al nord del Paese la gente non mangia spaghetti con la pummarola in riva al mare. E allora ci gioca. E allora fonde il proprio inno alla gioia con la canzoncina folk più famosa, più stereotipata. Come volesse rappresentare in una volta sola tutto quanto il Paese che li ha portati in palmo di mano, ora che stanno riuscendo nel grande salto verso i palcoscenici internazionali. Solo applausi.
È curioso come, volendo semplificare un po’ (tanto), Celebration Medley sia di fatto anche un brano sia folk che metal. Col folk metal diventato popolare decenni dopo, con gli zufoli importati dalle terre transalpine. Curiosamente quando i nostri trans e cispadani hanno riscoperto di essere tutti un po’ galli, un po’ celti (con un po’ di fantasia e mettendo da parte un paio di decine di secoli di storia). Curioso che, avendo voluto, la miccia sarebbe potuta scattare già a metà anni ’70 per mano di un gruppetto di padani colti e colti nell’atto anche di celebrare le tradizioni partenopee, o per lo meno con esse quelle dell’Italia tutta.
Ma coi se sappiamo tutti che non andiamo lontano. Chi sarebbe andato ancora lontano è la P. F.M., rimanendo tra i nomi più celebri del prog internazionale in tutto il mondo, anche dopo l’arrivo del punk e dell’italo disco. Metal per davvero non sarebbero mai diventati, mentre il flirt col folk sarebbe riemerso in occasione della tournée con Fabrizio De André, stavolta non come turnisti, ma stampando il proprio nome sui manifesti, alla pari di quello del cantautore genovese. Chi avrebbe proseguito invece la ricerca delle tradizioni musicali sarebbe stato Mauro Pagani, ma una volta uscito dal gruppo. In proprio, con un disco solista omonimo uscito nel ’78, in odore di world e folk panmediterraneo. Collaborando con l’Ensemble Alia Musica, complesso di accademici dedito al recupero di partiture medievali e rinascimentali. O ancora nel progetto Carnascialia, assieme a praticamente tutti gli Area ed al Canzoniere del Lazio. E poi, nel corso della sua lunga carriera di musicista, compositore e produttore che dura a tutt’oggi e nel corso della quale il rock però lo avrebbe incrociato poco, per lo meno quello che preferiamo noi. Voi però adesso smettete di fare quello che stavate facendo e vi ascoltate ad occhi chiusi e polmoni aperti Celebration Medley. Potreste ballarla, scapocciando persino, immaginando di trovarvi in una festa di campagna, coi falò e sotto le stelle. Coi suoi synth ed i suoi ritmi asimmetrici. E non dite che come inno nazionale sfigurerebbe. (Lorenzo Centini)