Un Sabbath italiano vol.4: sotto al sole

Black hole sun
Won’t you come
And wash away the rain?
Tra le mie passioni più grandi ci sono i Soundgarden e i cimiteri monumentali. Chi mi conosce lo sa bene. Invece non ho un buon rapporto con il sole. Mi rincoglionisce. Mi annichilisce. Mi fa ammalare la pelle. Non scherzo. Ma su questo, se ne avrete voglia, tornerei dopo. Ora vorrei iniziare questo volume da un altro punto. Tutta questa storia è iniziata col ricercare tracce o indizi più o meno occulti di quella che avrebbe potuto essere (e non è stata) una via italiana al proto-doom, nel cuore degli anni ’70. Ovvero nel pieno della parabola ascendente dei Black Sabbath. Ma anche mentre in America prendeva vita la prima incarnazione dei Pentagram. O, per andare invece a cercare in una delle periferie dell’Impero (per quanto essa stessa impero, a sua volta), mentre in Giappone esistevano band come i Flower Travelling Band. Satori è del 1971, fa impressione a pensarci (per saperne di più, di quell’album incredibile e di tutta la scena incredibile del Sol Levante, vale la pena procurarsi Japrocksampler di Julian Cope, come già ci consigliava il Greco). E non è che altri Paesi fuori dell’impero mediatico anglosassone siano rimasti a digiuno di esperienze folli, cupe e disturbanti. Pensiamo ai Magma in Francia, o a tutta la musica cosmica decollata dalle basi spaziali della Germania dell’Ovest. Una scena inaudita, assurda, piena di esperienze sonore pazzesche ed influenti come poche (David Bowie, per dirne uno, mutò pelle a fine ’70 saccheggiandone le intuizioni), perfino cupe. Ma tutte comunque abbastanza distanti, o per lo meno tutte le migliori, da quel mondo che stava nascendo, disco dopo disco, canzone dopo canzone, riff dopo riff, per mano di Iommi & Co. (comunque, se interessasse approfondire la musica cosmica tedesca, sempre Julian Cope, ma Krautrocksampler, questa volta).
L’Italia, lo sappiamo, ha preso un percorso differente. Quello del prog, inizialmente in maniera ortodossa, sulla scia di Albione, per poi distanziarsene. Però spesso (non sempre) con un approccio politico determinante. A volte persino più caratterizzante della musica stessa. Torno quindi a consigliarvi il blog di John Nicolò Martin. Comunque la pensiate, la sua analisi del fenomeno progressivo italiano è precisa ed illuminante. Quando ci si chiede, ad esempio, perché alcune cose siano andate in una direzione piuttosto che in un’altra. Tipo il caso dei Crystals, che citavo la volta scorsa. Per Martin, quello che ha affossato il primo e unico supergruppo hard rock dei ’70 italiani (non troppo riuscito, non erano mica i Captain Beyond) era anche l’assenza di istanze politiche e rivoluzionarie. Di più: il complesso, pur sponsorizzato da Paolo Tofani degli Area, assimilava e riproponeva proprio gli stilemi dell’ormai solido hard rock anglosassone, mentre la musica politica andava verso ibridazioni etniche o colte. Insomma, troppo per il pubblico prevalente nell’Italia post ’68 e pre ’77. Vuol dire che non c’era sufficiente pubblico per riempire un un palazzetto per un concerto rock senza combattere la nobile battaglia proletaria per avere il diritto di entrare a scrocco. Poi, chissà perché, mi immagino i proletari dell’epoca ascoltare Califano e i Ricchi e Poveri, non frequentare Valle Giulia. Non so, non c’ero.
A questo punto, mi riallaccio pure al primo capitolo di questa mia… cosa che assomiglia ad una rubrica. Dicevo che a me Biglietto per l’Inferno e Rovescio della Medaglia non dicono gran che. Ora però vado ad argomentare meglio. Entrambi i complessi hanno una potenza invidiabile, per l’epoca. Mica solo per l’Italia. Però la potenza del suono a volte potrebbe essere pure più equipaggiamento che altro. O denari investiti in fase dei produzione (quella dei Crystals, per dire, non è mica all’altezza). Musicalmente parlando, poi, il debito nei confronti dei Sabbath (o degli Atomic Rooster, per dire) è evidente. Però il genio manca in ambo i casi. Cosa intenda ora con la parola genio non è troppo evidente nemmeno a me. Diciamo che entrambi i complessi sudano, graffiano, ma non si liberano di una certa eredità tardo beat. Nella forma e nella sostanza. L’omonimo de Il Biglietto e La Bibbia sono album, dal punto di vista squisitamente musicale, notevoli per un Paese di periferia. Hanno i riff, gli assoli, le linee vocali potenti, ma la musica non trasfigura mai veramente in altro. Non è facilissima da spiegare questa. Ma quando ascoltate i Sabbath la musica diventa subito altro, oltre a riff e ritmo. O sbaglio? Si tratta di evocare, di creare per la mente scenari che esistono solo con il suono. Tipo l’attacco di Sabbath Bloody Sabbath, quel riff da solo, in pochi secondi, genera un medioevo alternativo. È questo il genio dei Sabbath, quello per cui si stagliano tra tanti altri gruppi hard rock o blues che giravano all’epoca, senza lo stesso impatto. Anche in Albione. Tornando poi sulle linee vocali, è noto che fossero tendenzialmente quelle il punto debole delle produzioni prog italiane. Curioso, per il Paese del bel canto. Ma mica tutti potevano vantarsi di avere un Francesco Di Giacomo in formazione. Claudio Canali, a dire il vero, fa la sua figura. Non dico di no. Però…
E comunque non è nemmeno solo una questione di musica. A livello lirico, entrambi i complessi si pongono in linea coi tempi, toccando (o aggredendo), in maniera didascalica, un tema molto vivo nella musica popolare alternativa in Italia ai tempi, pure se praticamente in maniera opposta: la religione. Il Rovescio mette in musica la Creazione stessa, producendo una specie di (anzi, una vera e propria) messa (hard) rock. Si usava, a quei tempi, e anzi mi sa che su questo torneremo in almeno uno dei prossimi volumi. A me però di mettere la Bibbia in musica fregherebbe nulla. Il Biglietto si pone invece all’opposizione e il disco omonimo è invece un concentrato di anticlericalismo. Che poi lo stesso Canali sia finito per diventare monaco forse qualcosa dice. Alla fine, quello del proprio rapporto irrisolto con la fede cattolica è uno dei blocchi principali della coscienza del nostro Paese. È una cosa molto italiana. Comunque, in ambo i casi, la dimensione è quella della ricerca spirituale. Non si tratta di banale fascinazione estetica. Noi siamo gente superficiale e un po’ semplice, amiamo fare le cornine quando vediamo un capro e ci intrufoliamo nelle chiesette diroccate, sconsacrate e non, in cerca di mummie, cripte e simboli. Amiamo baracconate come Batushka e Fvneral Fvkk. Quella fascinazione estetica che viene dal gotico, dall’horror, non ce la troviamo mica, in quei due dischi. C’entra forse che siamo diversi dal pubblico dell’epoca (i nostri zii). Sono cambiati i tempi e tra le conseguenze di questo cambiamento c’è il fatto che per noi la musica non deve necessariamente essere resa nobile da un messaggio. Che possiamo goderci la musica in sé, come se intrattenimento non fosse una parolaccia. La musica senza messaggio politico, poi, mica è per forza solo intrattenimento. Senza polemiche, eh. Mi limito solo a dire che, tra le tante conseguenze nefaste dell’imperialismo culturale angloamericano, sono convintissimo nel dire che il rock’n’roll io lo accetto in toto e senza remore. E che sono lieto di lasciarmi pervertire l’anima ogni giorno dai suoi ritmi animaleschi ed impulsi lascivi. Ora, per dire, stanno pure tornando tempi in cui il diritto ad essere ascoltati si guadagna solo con affermazioni politiche, se in linea con la vulgata dominante, per quanto “antagonista”. Soprattutto Oltreoceano. E dire che il rock si presta a dare sfogo a frustrazioni individuali senza che debbano per forza essere messe in relazione con concetti politici o spirituali. Come se la musica non potesse essere una cosa stupenda e comunicativa di per sé. Ed inoltre: come se uno che volesse invece affrontare il suo mondo individuale, il suo punto di vista, senza metterlo immediatamente e direttamente in conflitto politico e religioso, stesse realizzando qualcosa di serie B.
Ed è a questo punto della mia dissertazione senza capo né coda che faccio entrare in scena i Teoremi, da Roma.
Dal nome lo direste subito un complesso beat, manco troppo tardo. E la voce potente e personale del napoletano Vincenzo “Lord Enzo” Massetti in effetti ricorda vagamente il giovane Stratos di Pugni Chiusi. Il quartetto è composto da voce, basso, chitarra, batteria: secchi, rock, punto. E infatti la musica è un rock hard, asciutto più per la secchezza della tecnica di registrazione che per le composizioni dei quattro e le loto foti strumentali. E diciamolo subito: i Teoremi meritano a pieno titolo di essere ricordati tra gli antesignani dell’hard italiano (no, non quello di Schicchi). Tanto quanto le due band di cui ci occupavamo un secondo fa e che per la vulgata si contendono il titolo di Black Sabbath d’Italia. Solo che, al contrario dei colleghi più fortunati, i Teoremi non hanno avuto il culo di essere prodotti degnamente. Suono asciutto, pure troppo. Dominano la voce e stranamente il basso, a scapito di chitarra e batteria. Produzione (casareccia) sulla scia dei gruppi heavy blues in voga pochi mesi/anni prima. E infatti in fondo i Teoremi suonano principalmente heavy blues, pure se con influssi beat e prog. E infatti a tratti non sono manco così lontani dai Groundhogs. Che un disco così nel ’69 l’avevano fatto uscire col nome di Blues Obituary. Allegri. Ma pure i Teoremi, in fondo, non sono troppo dei buontemponi. Infatti lo shock lo regalano non con la copertina (totalmente anonima, in bianco, quando nel prog una bella copertina era metà dell’opera), ma con la foto del gruppo al suo interno. Quattro capelloni cupi sparsi tra le statue di un sepolcro monumentale. Sono stato convinto per anni che si trattasse del Verano, credevo di averlo letto pure da qualche parte. Invece ora che conosco meglio il Monumentale di Milano riconosco la tomba Campari. Famosissima in realtà. Contate che è il ’72, in Italia. Solamente un anno prima Il Segno del Comando aveva ambientato parte della trasmissione al cimitero acattolico a Piramide, Roma. Però non c’era mica quel feticismo gotico (o hipster) di oggi. Insomma, allegri i Teoremi di sicuro non erano. In A Chi Non Sarà Più pagano anche loro tributo a quel tale nazareno che ha fatto una brutta fine. Si usava, all’epoca. Per il resto, le liriche del disco (non troppo raffinate, forse) sono squarci su stati di animo cupi e depressi.
Tutto intorno a me
È distruzione
E là, lontano
Due ali vuote che
Un alito di vento farà girare
Ma dove?
Parlo ma non so a chi
Non c’è nessuno che
Ascolti le mie parole
Vedo oggetti che
Mi fanno orrore
Sono bianchissimi
E non hanno vita
Ora guardo il mio mondo
Ma cosa non ho
Su di me
Sono anch’io come loro
Non c’è ombra dietro me
Con tanta luce
Questa era Qualcosa d’Irreale. Penso non sia una forzatura eccessiva sostenere che un testo così, così poco letterario e invece asciutto, disperato, sembri poco prog. Di sicuro non più beat. Forse già grunge. È chiaro che al paroliere interessano meno i massimi sistemi che non il mondo interiore, le sue pene, la vita misera della quotidianità della povera gente, quella che nessuna Chiesa o Partito ha per davvero intenzione di aiutare.
Ogni volta che guardo la luna
Su in cielo mi sembra più chiara
Anche se la mia vita di notte
Mi sembra più scura
Vita di povera gente
Che nasce, soffre e poi muore
Facce diverse in aspetto
Ma quali in umore
Ammassano stracci per strada
La gente mi chiama barbone
Anche se la mia barba
Solo di me ormai fa impressione
Povera gente che alla sera
Ha solo la luce di qualche lampione
Una fontana comune
Che versa per quasi due ore
Rido se penso a quel cane
Che spesso mi segue
Che non capisce
Che tranne che in amore noi siamo rivali
Questa invece è Impressione ed è un brano davvero impressionante (scusate il gioco di parole mediocre). C’è un bassista in vena di straordinari, Aldo Bellanova. Soprattutto è un brano beat che si trasforma presto in un proto-stoner, per i riff duri e per la lunga oasi di quiete in mezzo. Nella quale è poi il chitarrista Mario Schillirò a diffondere psichedelia e sprigionare profumi assolati alla Joshua Homme (a tratti lo stile, fraseggi e suono, mi piace pensare che anticipi le intuizioni del genio di Joshua Tree). Assolati, ché si sente l’arsura, la siccità di un paesaggio periferico. Siccità attuale, in più di un senso.
A proposito di sole e siccità, più ancora di Impressione noi oggi parliamo dei Teoremi per un altro brano, ancora più devastante: Nuvola che Copri il Sole. Perché è in questa che Schillirò si supera, senza togliere nulla ai suoi tre compagni. Il brano è un altro blues corposo, con Bellanova, inizialmente dominante nel tessuto, che lascia poi a Schillirò la libertà di spaziare, frammentato, espressionista e concreto. Questo fino all’arpeggio che entra al minuto 3:13.
Sentitelo.
Sparatevelo in cuffia.
Dura venti secondi soltanto ed è mozzafiato.
Stavolta pure il suono. Scuro, cupo, emozionante. Non sembra un suono della sua rpoxa. Sicuro, non pare un suono uscito dal Paese a forma di scarpa (cit). Una cosa ho pensato dalla prima volta che l’ho sentito: è la musica più vicina a Black Hole Sun che sia mai uscita dall’Italia ed è però di ventidue anni prima. Che poi in fondo ammetto sia più probabile che Schillirò, piuttosto che aver viaggiato nel tempo per farsi ispirare da Thayl e Cornell, abbia invece attinto idee dal blues (quasi) contemporaneo. Tipo dai Groundhogs, dicevamo. O tipo da The House of the Rising Sun degli Animals di Eric Burdon. Voi direte che esagero, ma è tutto il brano che sembra quasi permeato dalla stessa intenzione, sia di Burdon che di Cornell. Tutti e tre i brani reclamano il sole nel titolo. Un sole che non rischiara, non rasserena. Nel brano degli Animals è evocato dal nome di un luogo poco raccomandabile, un postribolo. Nell’hit della band di Seattle, un sole chiaro a lavare via la pioggia, con un’invenzione (ed inversione) indimenticabile. L’istanza cantata da Massetti in fondo pare analoga:
Nuvola che copri il sole
Bagnami ancora, non te ne andare
Io vorrei vedere lui
Quando tutto è pulito intorno a meFulmine che mi illumini
Tuono che mi fai tremare
Pioggia che mi stai bagnando
Spazzate via tutto il male che c’è tra noiSole che con le tue mani afferri il bene
Non ti commuove neanche il pianto
Di un piccolo fioreChe cerca di sfuggire alla tua aridità
In fondo anche il brano degli Animals parla di reietti, dei poveracci ai margini (il white trash della Louisiana, pure essendo inglesi gli autori). In fondo anche Black Hole Sun è un brano di una disperazione abissale, talmente trasfigurato da non sembrare mai lontanamente il lamento di un quasi milionario (forse Chris, quando l’ha scritta, stava bene economicamente). Il disagio, individuale e psicologico, pare poco una categoria da prog italiano. Vengono in mente certo i Jumbo, che ne hanno fatto un monumento. Ma non sono hard (oppure sì?), quindi per il momento li lasciamo da parte. I Teoremi invece in un brano solo, e ancora in poco più di venti dei suoi secondi, riescono ad essere avanti rispetto a conterranei e contemporanei, sia rispetto al tema, che all’emozione. E al Suono. Mica male per un piccolo gruppo sconosciuto fuori dal’universo degli archeologi prog.
Dei Teoremi si sarebbero perse le tracce presto, anche perché non sarebbero mai arrivati ad un secondo album, essendosi sciolti prima. Massetti si sarebbe fatto una nuova vita da cantante in Tailandia, come riportano diversi siti. Ho cercato, poco, delle tracce su internet, ma non ho trovato nulla di più. Aldo Bellanova avrebbe poi partecipato alla nascita dei Samadhi. Poi chissà. Claudio Mastracci, il possente drummer, avrebbe invece approfondito ulteriormente lo studio del suo strumento in America, per poi lavorare con la tv e diventare turnista per grandi nomi. Ora è responsabile di batteria jazz alla Saint Luis di Roma, quindi credo sia stato docente di diversa gente che conosco bene (la mia città era una fucina di batteristi eccellenti). Mario Schillirò rimase a Roma per un po’, stringendo alleanza con Antonello Venditti, di cui divenne fidato chitarrista per un gran bel pezzo. Poi nei ’90 entrò nella band live di Zucchero, in staffetta ideale con un altro monumento del prog italiano, il Corrado Rustici dei Cervello, che invece in tour con Zucchero mi sa che non ci andava. Il mio primo concerto in assoluto è stato proprio Zucchero, ero coi miei, andavo alle medie, e se tanto mi dà tanto quella sera credo ci fosse proprio Schillirò alle sei corde. Scopro ora che negli ultimi dischi del bluesman lunigiano è Brendan O’Brien a occuparsi delle chitarre. Il produttore di Superunknown. Questa cosa mi manda fuori di resta. (Lorenzo Centini)
Mah, che dire … Tra molti nomi, non hai citato i Black Widow,che a mio avviso, oltre a dei testi, hanno delle musiche assai + coinvolgenti degli stessi Sabbath😅
Poi, che in Italia, il CattolCristiAnesimo, la faccia da padrone, è più che scontato; qsto fa sì, che limiti le idee di molti diversi da Loro.
La tristezza infinita.
"Mi piace""Mi piace"
I miei 3 gruppi preferiti? I Black Sabbath (proto Doom? Direi proto Metal… hanno ispirato gente come i Deep Purple, Parole loro, e tutto il seguito) , I Dream Theater (Prog Metal, per Metal vedi sopra), Iron Maiden dei tempi d’oro (a metà tra i due + folk Inglese).
Come dire che un ponte è possibile. È il bello della musica… non esistono schemi. L’unica barriera è l’ineguatezza e la precisione ossessiva, bisogna stare nel mezzo :-D
"Mi piace""Mi piace"