Un Sabbath italiano vol.3: il Mago

There’s no sun in the shadow of the wizard
See how he glides, why he’s lighter than air
Oh I see his face!
(Ritchie Blackmore / Ronnie James Dio)
Gli anni ’80 e poi ’90 avrebbero rovinato tutto. Lo sappiamo. La parola mago sarebbe divenuta sinonimo di fandoneria, se non peggio: di truffa. Ce ne ha parlato il Messicano. Se però, a differenza mia e di parecchi lettori, non sei nato dopo i ’70, ma anzi, nei ’60, se non nei ’50, la parola mago magari ha significato pure altro. Una figura diversa, anche se egualmente diffusa da quella piccola scatola di plastica, circuiti e lamiera che emana onde luminose. Cino Tortorella, attore teatrale di scuola Strehler (no, non mi chiedete altro, io di teatro so niente) ha condotto, a partire dal ’57, la famosa manifestazione canora per l’infanzia Zecchino d’Oro, interpretando, con tanto di costume sgargiante (anche se visibile solo in bianco e nero), un personaggio di sua invenzione chiamato Zurlì, il mago Lipperlì. Più avanti avrebbe fatto coppia fissa con un altro celeberrimo personaggio della TV italiana, Topo Gigio. Rimaniamo su Zurlì. La sua, ovviamente, immagino fosse una figura di mago buono, protettivo. Non me lo immagino a spaventare i giovani partecipanti alla manifestazioni con arcani vari. Magia bianca, come minimo. Ma forse è eccessivo richiamare cose che nemmeno conosco. Diciamo semplicemente che la figura del mago è quella legata al mondo dell’infanzia: abiti sgargianti, magie fantastiche che rendono il mondo più colorato e le avventure più sicure. E, nel mondo reale, canzoni, musica. Quella cosa che suscita emozioni con onde immateriali. In fondo credo sia questa la tipologia di mago che quasi tutti hanno incontrato per prima. Io, per esempio, ne La Spada nella Roccia, produzione Walt Disney. Con un Merlino sì confusionario ed iracondo, ma sicuramente buono. La cattiveria, ma guarda un po’, semmai è relegata nella figura della strega, la Maga Magò.
Più in là negli anni, non so se prima confrontandomi col Merlino di Boorman o con quello della leggende originarie (o meglio, delle riscritture bassomedievali), ne ho scoperto aspetti che vanno ben oltre un’umana e comprensibile ira. Merlino uccide, non sempre esattamente per un bene comprensibile, o per quello che si possa pensare che esso sia. Umilia ed annulla sé stesso per l’infatuazione morbosa per una donna/maga malvagia (aridaje…), pur consapevole che lo stia circuendo. Quante relazioni tossiche in quella prigione d’aria. Soprattutto, Merlino è figlio del Diavolo (o di un demone, fa niente). Quindi, la figura per antonomasia del mago (sì, dai, più di Gandalf e di Harry Potter) ha in sé una componente diabolica. Anzi, visto che le abbiamo citate, le creazioni di Tolkien e Rowling (di sicuro nessuno dei due autori ignari del ciclo bretone) dal Merlino leggendario entrambe riprendono un’ambiguità intrinseca tra Bene e Male, che risolvono poi solo dopo mille avventure, se non vere e proprie trasfigurazioni.
Ora, Zurlì e Do Nascimiento a parte, sarebbe interessante indagare con maggiore cognizione di causa cosa significhi mago nella tradizione letteraria e folklorica italiana. Mi perdonerete: non ne ho le capacità, occupandomi purtroppo di altro nella vita. Né il tempo, dovendo purtroppo dare il mio contributo quotidiano alle concreta e cieca economia della locomotiva d’Italia. Ovvio, preferirei fare altro. Però posso rimanere su un livello superficiale, di suggestione, e mettere un punto: il mago, pur quando non è già stregone, non può essere, se non nella narrazione per l’infanzia (sacrosanta), una totalmente figura esente da ambiguità. Ambiguità, se vogliamo poi attenerci a categorie proprie della nostra religione di massa, demoniache.
Mi interessava fissare questo punto, per poi metterlo a confronto con una realtà geografica, non letteraria. Sono nato ai Castelli Romani e per ventisei anni, i miei primi ventisei anni, ho vissuto poco più giù, a quindici minuti di auto, in Pianura Pontina. Per ventisei anni, dalla finestra di camera mia, ho visto le pendici del monte Artemisio, e Lariano, proprio aggrappata a quelle pendici. In realtà la visuale si è progressivamente ristretta, coi palazzi di cemento che crescevano attorno, e quel panorama si è trasformato in una finestrella tra balconi altrui. E pensare che poi ho scelto io di fare il cementificatore per mestiere. Ancora non mi so spiegare perché. Mai gravitato moltissimo attorno ai Castelli Romani, in realtà, vuoi per campanilismo (la pianura r’n’r contro i colli prog, come mi ha insegnato un amico), vuoi perché alla fine più facile trovare cose da fare a Roma. Vuoi, banalmente, perché certe cose le ho scoperte solo dopo essere andato via. Tipo un blog, Nemora, che racconta cose dei Castelli Romani che non direste. Perché per tutti in fondo si tratta di Ariccia, fraschette, fontane che danno vino. Il Papa a Castel Gandolfo. L’Infiorata. I palazzi estivi dei nobili romani, i Colonna, i Ruspoli, i Chigi. Però se ci siete vissuti vicino, in adolescenza, pure qualcos’altro sicuro vi è arrivato. Le messe nere. La roccia del fattone. La strada in cui le bottiglie rotolano all’insù. Il ponte dei suicidi che collega Ariccia ed Albano. Proprio sotto quel ponte e sul retro del palazzo dei Chigi, quello davanti alla chiesa del Bernini, si estende un bosco, un giardino. Anni di frequentazione delle fraschette, ma non lo vedete mica. Poi le fraschette non hanno le finestre. Quel giardino, o bosco, merita sicuro una visita, non solo per aspetti naturalistici di primo interesse. A due passi da capolavori rinascimentali, ci si trovano ruderi, le grotte del brigante Gasbarrone e reperti archeologici, sparsi tra le radici degli alberi un tempo protetti da Diana. Tra i reperti, anche il sarcofago che la tradizione attribuisce a Simon Mago, personaggio biblico, da cui la parola simonia, per descrivere il commercio di beni spirituali. Bel tipo di mago, questo Simone. Se non un Merlino, sicuro più probabile come modello per un Do Nascimiento che per uno Zurlì. E qui ringraziamo Wikipedia, che ci risparmia la fatica di indagare le Sacre Scritture per cercare qualcosa di più sul suo conto:
« V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magìa, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: “Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata Grande”. » ( Atti 8,9-10)
Proseguendo qualche chilometro, in direzione Roma, si arriva anche a Marino, da cui proviene Vittorio Nocenzi. Tastierista e compositore già per Gabriella Ferri, da lei si fa sponsorizzare per un provino con una casa discografica. Provino al quale deve presentarsi con un complesso. Mette quindi insieme un po’ di amici e familiari, tra cui il fratello Gianni, ottimo pianista, e nasce così uno dei complessi prog italiani più noti nel mondo, il Banco del Mutuo Soccorso. Poi fusosi quasi subito con membri de Le Esperienze e dei Fiori del Campo, vedendo l’ingresso di uno dei cantanti più noti e dotati della scena progressiva, Francesco Di Giacomo, del bassista Renato D’Angelo, del batterista Pierluigi Calderoni e del chitarrista Marcello Todaro. Dopo aver vinto a parimerito proprio coi Circus 2000 il Festival di musica d’avanguardia e di nuove tendenze di Villa Pamphili, pubblicarono nel 1972 lo splendido esordio omonimo, noto anche come il salvadanaio.
Eh, sì, questa volta non andiamo a cercare tra le curiosità minori, ma convochiamo proprio una delle espressioni massime e più note della musica italiana, progressiva e non. Distantissima dalla cupa e morbosa musica che amiamo ascoltare noi ogni giorno. Ma non lo facciamo per un caso o una forzatura. Il salvadanaio contiene una suite tra le più arcinote del prog tricolore, Il Giardino del Mago. La conoscerete, brano incredibile, che calza poi a pennello col discorso che stiamo provando a mettere insieme. Ci troviamo, dominante, il gusto classico e raffinatissimo del terzetto Nocenzi/Nocenzi/Di Giacomo, assolutamente libero di esprimersi al meglio nei diciotto minuti del brano, sperimentando parti da operetta e intrecci di tastiera virtuosi ed avvincenti ciondolamenti quasi jazz. Ma c’è pure, rappresentato al meglio, il lato più viscerale del sestetto, la metà più rock, la sessione ritmica incalzante e dinamica e la chitarra inquieta di Todaro. Nell’introduzione, il chitarrista si pone all’unisono con synth e pianoforte in un riff doom dispari, oscuro a dir poco. Più in là, assumerà il comando della dinamica del brano, sfidando la coppia ai tasti con partiture infuriate. Il suono della chitarra, sporco e forse poco incisivo, risente credo delle limitazioni delle produzioni italiane dell’epoca, poco avvezze ai suoni rock oltremanica. Ed è assolutamente perfetto così. Sorprende poco trovarlo poco tempo dopo in una sorta di supergruppo hard rock infruttuoso chiamato Crystals (magari nebparleremo). Già più curioso ritrovarlo, parecchio dopo, come sound engineer molto quotato (Daniele, Ruggeri, Tozzi, Raf, Califano). Tornando al Giardino del Mago, più in là, nello sviluppo della suite, anche chitarre classiche, con quel sapore pur raffinato, ma popolare. I momenti più rock, più viscerali e meno sognanti, guadagnano poi in dinamica grazie al lavoro incessante di Calderoni. Non c’è niente da dire, i batteristi all’epoca erano più bravi, anche se con molta meno tecnologia. Insomma, Il Giardino del Mago pare dare spazio a due anime contrastanti: quella appunto classica, colta, e quella più viscerale e rock. Come dire: quella delle eleganti sale affrescate ai piani alti dei palazzi nobiliari e quella del fondo dei vicoli bui, delle cantine, delle storie raccontate nelle osterie. La bellezza del brano, rispetto ad altri capolavori del Banco, credo sia qui. Nella dualità, ambiguità. Un po’ come quella del Mago stesso. Né angelo, né diavolo. Un personaggio inafferrabile, che confonde. Non per forza malvagio, ma non per questo rassicurante.
Io sono arrivato nel giardino del mago
Dove dietro ogni ramo crocifissi ci sono
Gli ideali dell’uomo, grandi idee invecchiate
Nel giardino del mago io sto appeso ad un ramo
Dentro un quadro che balla sotto un chiodo nell’aria
Sono là che ho bisogno di carezze umane più di te
[…]
Ogni creatura del giardino del mago
Vive tutto il suo tempo dentro un albero cavo
C’è chi ride, chi geme, chi cavalca farfalle
Chi conosce i futuri, chi comanda le stelle come un re
Siamo arrivati alla fine anche di questo sproloquio qui. Il mago del Banco comunque alla fine non è foriero di sciagure, anzi. Il finale del brano apre a una speranza e ad una serenità che alcuni dei passaggi maggiormente claustrofobici della suite non facevano presagire. Benché ci si possa gasare non poco all’ascolto, anche dal punto di vista dell’ascoltatore di musiche cupe, non è in fondo un brano proto-doom. Però non vuol dire che sia un male. In fondo, tutta questa sconclusionata sega mentale ha origine dai Black Sabbath. Tutto ha origine dai Black Sabbath. E bene, eccovelo il mago dei quattro di Birmingham:
Misty morning, clouds in the sky
Without warning, the wizard walks by
Casting his shadow, weaving his spell
Funny clothes, tinkling bell
[…]
Evil power disappears
Demons worry when the wizard is near
He turns tears into joy
Everyone’s happy when the wizard walks by
Non sono più tanto sicuro, in fondo, che sia molto diverso da Simon Mago. O dal mago delle Zecchino d’Oro. (Lorenzo Centini)