Un Sabbath italiano, Vol.5: insalata di ratti

Essenzialmente, Metal Skunk è un blog fatto da terroni e per i terroni. Sì, ci sono eccezioni, ma alla fine la ciccia è quella. Quindi per il solo fatto di avere messo Pino Daniele in copertina mi aspetto sì qualche insulto, ma anche più di un distinguo o persino qualche apprezzamento. Se qualcuno però già fischietta ‘Na Tazzulella ‘e Café lo fermo subito: io Daniele non lo digerisco. E ho persino tentato di ascoltarlo proprio per scrivere questo pezzo qui. Niente. Senza voler offendere la sensibilità di nessuno, dico solo che non lo digerisco. Il perché allora sorrida sornione nella copertina di oggi vi sarà forse chiaro solamente dopo. Per ora vi basti che vi faccia notare che non c’è solo lui in quella foto.

Oggi ci concentriamo quasi più sui musicisti che non sulla musica. Perché se in effetti, pur con nobili eccezioni (Stratos, Di Giacomo), il prog italiano difettava di cantanti all’altezza del panorama internazionale, lo stesso non si può dire per gli altri strumentisti. Abbiamo già incontrato musicisti eccezionali di area romana nel terzo volume.

Inside LP

Oggi seguiamo invece una traccia che parte dalle pendici di un vulcano irrequieto e dagli scogli neri lanciati da Polifemo in persona. Oggi partiamo dell’Etna e dal catanese, zona nota per il contributo straordinario alla musica dei ’70 dato dal giovanissimo Franco Battiato, per quanto emigrato a Milano quasi subito. Nato e cresciuto a Ionia, prima di confondersi nella nebbia meneghina consegue la maturità ad Acireale. Ed è qui, colpo basso, che però dirottiamo la vostra attenzione su di un’altra storia. Ma non temete, sul genio di Battiato credo proprio che ci torneremo un’altra volta. Oggi invece seguiamo una pista diversa, quella di un giovanissimo complesso proprio di Acireale, un quartetto, che nel ’71 esordisce con un album anglofono, nel linguaggio musicale quanto in quello verbale. Il complesso si chiama Flea on the Honey ed è composto dai fratelli Antonio ed Agostino Marangolo, rispettivamente tastiere e batteria, dal cugino Carlo Pennisi alla chitarra e dal bassista Elio Volpini. In realtà i quattro si spostano quasi subito a Roma. Che non è Londra, anche se loro ci provano: Flea on the Honey è un buon disco, ma derivativo dal rock psichedelico anglosassone, cui deve tutto. Poco male. È il ’71, in Albione la musica moderna è già esplosa, mentre l’Italia pare assopita. Ancora per poco.

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Nel ’72 anche le espressioni nostrane cominciano ad esplodere e tra queste c’è proprio quella dei quattro siciliani, che con un nome abbreviato stavolta in Flea e un solo anno in più sembrano una band nuova, incredibilmente cresciuta. Il prodotto è un album, stavolta in italiano, intitolato Topi o Uomini. Non è un disco particolarmente oscuro, misterioso, cupo. Aspetti che ne giustificherebbero da soli la menzione in questo nuovo capitolo di questa nostra stramba ricerca. È invece estremamente vitale, vivace, esplosivo. Però oggi, come dicevo, ci concentriamo soprattutto sui musicisti, e sulla loro interazione. Topi o Uomini è composto dagli stessi quattro, anche se in tutta sincerità io le tastiere non ce le sento. Quello che sento è una coesione tra basso, chitarra e batteria formidabile, micidiale. E mica solo per un Paese di periferia.

Il brano che dà il titolo al disco dura venti minuti, ma non è una suite di quelle che ci aspettiamo dai classici musicisti prog coevi. Topi o Uomini, la canzone, è qualcosa che credo non avesse eguali in Italia, ai tempi, ma nemmeno oggi, dopo cinquanta anni. Il modello è ancora la psichedelia angloamericana. Pennisi la conosce benissimo, si sente. Tra i chitarristi di stampo hendrixiano dell’epoca, nella nostra scena, dimostra però anche qualcosa di più oltre a gusto e tecnica. Lungo i 20 minuti piazza in continuazione riff asciutti, matematici, moderni. All’epoca i chitarristi (teniamo Iommi al di fuori, o al di sopra, di questa discussione) puntavano su estro e narcisismo. Fa eccezione Paul Kossof dei Free. Un giorno scriverò un pezzo infinito su Kossof e Fire and Water e del perché li ami. Anzi, sarei in grado di parlarne per ore e ore, specie se mi offriste da bere. Magari un’altra volta. Comunque anche Pennisi è un’eccezione per l’epoca e, anzi, pare in anticipo di almeno uno o due decenni (in tema di “avanguardia” chitarristica, provate anche Dark Round the Edges degli inglesi Dark, vi giuro che in Maypole non capireste se a suonare c’è un complesso beat o, per dire, i Sonic Youth). Pennisi comunque mica è l’unico ad eccellere. Volpini imperversa per tutto il brano con il gorgoglio delle sue quattro, irrequiete corde. Si pone tranquillamente al livello degli altri due strumenti (ripeto, io le tastiere non le sento). Dialoga in continuazione. Prende iniziativa. Con una tecnica anche lui impressionante. Io ci rimango, quando penso a come riuscissero a suonare dei ragazzini all’epoca, con pochissimi dischi a riferimento, pochissima strumentazione e ancor meno tecnologia, lontani pure da Londra o Los Angeles. Come facessero a suonare così per me è un mistero. È la cartina tornasole della decadenza attuale.

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Ma non ci siamo nemmeno soffermati sulla prova formidabile di Agostino Marangolo. Che aveva solo diciannove anni (non conosco invece l’anno di nascita di Pennisi e Volpini, ma non credo fossero molto più anziani). Ti stende, pensare a una cosa così. Non vi dico nemmeno cosa facessi io a diciannove anni. Certo non suonavo così. Il batterista etneo lascia semplicemente sbalorditi. Non è questione di mera tecnica. È dinamica, e creatività incontenibile. Certe cascate selvagge, certe progressioni all’unisono con gli altri due meritano solamente di essere definite perfette. Meritano solo applausi. Il tutto in poco più di venti, avventurosissimi minuti di hard rock psichedelico italiano, anche se il fatto di essere un brano italiano conta poco in realtà. Perché un capolavoro è un capolavoro, da ovunque provenga. E Topi o Uomini, per lo meno il brano, un capolavoro è. E di una modernità tale che pare, lo giuro, anticipare intere parti della discografia dei Motorpsycho. Prima ancora dei Verdena, per rimanere in Italia, ma quasi tre decenni dopo. Ai Verdena credo comunque che dobbiamo rispetto, non fosse altro che perché in ambito (quasi) mainstream erano gli unici da noi che sapevano cosa succedeva là fuori. I Motorpsycho non li evoco a caso. Per dinamica, forza ed espressione i tre (o quattro) siciliani anticipano davvero certi viaggi offerti venti e passa anni dopo da Bent e Snah. Ma tanta manna non durò: tempo tre anni e la stessa identica formazione si presenterà con nome cambiato (in Etna) e pelle mutata. Il nuovo verbo è la fusione con il linguaggio jazz, componente che imperversava all’epoca nella musica della controcultura italiana, ma che c’entra nulla con quello che interessa a noi, ora. Non seguiamo allora le sorti degli Etna in toto, ma continuiamo invece a seguire quella di Agostino Marangolo.

Sempre nel ’75, entrato in contatto con Massimo Morante, Fabio Pignatelli e Claudio Simonetti, assieme al fratello Antonio partecipa alla registrazione della colonna sonora di Profondo Rosso di Dario Argento. In realtà, essendo il titolare delle pelli ancora Walter Martino, contribuisce alla sola Death Dies, cui però attribuisce una dinamica swing tesa ed inquietante, non banale. Tanto basta, perché ormai, al contrario del fratello Antonio, entra in pianta stabile nei Goblin e ne diventa il batterista dell’incarnazione forse più importante e nota della loro storia. E soprattutto partecipando, stavolta in pieno, al secondo capolavoro del maestri horror romani, la colonna sonora di Suspiria (dopo che ad Argento non era riuscito di coinvolgere il Banco del Mutuo Soccorso, pensate voi).

È ormai il ’77, l’Italia è bella che cambiata. I Black Sabbath li ritroviamo tra Technical Ecstasy e Never Say Die. E non li ricordiamo certo per questi due dischi. In America, in Inghilterra ed in Australia sta esplodendo quella ventata d’aria marcia che è il punk e i Goblin, che però sono prog, sono ancora in grandissima forma. Anzi, all’apice. Per quanto Profondo Rosso sia una colonna sonora eccezionale ed un tema indimenticabile, fondamentale, storico, Suspiria quasi fa meglio. I Goblin sono diventati nel frattempo una band vera e propria (non per molto ancora), in cui Marangolo tiene il polso del ritmo e del groove. Imperversa in Black Forest, arricchisce Makros di mille sbrilluccichìi e sfumature percussive. Nel tema Suspiria la sue pelli si sentono benissimo. Irrompono nello sviluppo della seconda metà, né governano il ritmo. I Goblin erano all’epoca un’entità gigantesca e purtroppo sappiamo come non abbia saputo dare forma ad altrettanta magia (nera) in un disco di canzoni proprie, un disco rock. Se ci fossero riusciti, sarebbero forse stati la cosa forse più paragonabile ai Sabbath (o ai Black Widow) nella storia del Bel Paese, pure senza i riff dei Black Sabbath. E Marangolo ne sarebbe stato il batterista. Peccato non sia andata così. In fondo, nei Goblin c’erano troppe teste e nessun autore (intendo di canzoni). Così poi si sarebbero moltiplicati. Poi collassati. Poi rinati in molteplici forme, ma mai come quella originaria, storica. Pure il simpaticissimo Claudio Simonetti sarebbe finito a fare altro. Tipo il tema del Gioca Jouer per Claudio Cecchetto. Non so se avete presente. Solo in Italia l’autore di Suspiria e del Gioca Juer potrebbero coincidere nella stessa persona. D’altronde, come avvertiva Freak Antoni, “cosa pretendi dal Paese che ha la forma di una scarpa”.

giphy

Ma coi soli Goblin e le colonne sonore, evidentemente nemmeno gli altri erano impegnati a sufficienza. Massimo Marante infatti tentò la strada del pop esordendo in proprio, ma sotto l’egida di Renato Zero. Marangolo invece già nel ’76 era andato a registrare le tracce in alcuni brani di Mattanza dei Napoli Centrale, quel disco il cui fonico era per qualche ragione assurda il noto Bobby Solo, il countryman più vicino a Johnny Cash che ci siamo meritati in Italia. Lo so, quando era il momento di parlare degli Etna, prima, ho detto che a noi oggi non interessava indagare l’area di contaminazione con il jazz del rock italiano, ma a me i Napoli Centrale piacciono assai, l’ho già detto, e il nome di Agostino Marangolo l’ho incontrato per la prima volta in vita mia proprio spulciando il libretto del CD di Mattanza. Era quando, nel mio percorso di ascoltatore compulsivo, mi ero convinto che avrei trovato oscurità e cupezza pure nel jazz, nel funky, nel soul ed in altre musiche maggiormente ballabili. Ne avevo trovato nel riff psych di Fingers del percussionista Airto Moreira e pure nell’esordio della band napoletana, in cui un mostruoso Franco Del Prete curava l’aspetto percussivo. Del Prete che in occasione del secondo album del complesso partenopeo fa un passo indietro e lascia spazio ad altri per la parte ritmica.

La prima parte del disco la suona proprio Agostino Marangolo. In Simme Iute e Simme Venute, in Sotto a’ suttana, in Sotto e ‘n coppa. Marangolo ha 23 (ventitré) anni e suona con una sicurezza e padronanza impressionante. Immagino risalisse più o meno all’epoca anche il primo contatto con un altro giovanissimo musicista, particolarmente dotato con gli strumenti a corda: Giuseppe Daniele, detto Pino, di due anni più giovane. Ne sarebbe diventato il batterista di fiducia per buona parte della prima parte della carriera, fino ai primi ’80, partecipando ad album noti come l’omonimo del ’78 e Nero a Metà dell’80. Non che li abbia davvero ascoltati, quei dischi, ma questo vi spiega finalmente il perché della copertina. Nella foto assieme al pingue cantante, noto per il falsetto nasale, c’è proprio Agostino Marangolo, forse nemmeno trentenne, ma già passato per tre differenti incarnazione dei Flea On The Honey/Flea/Etna, per l’apice dei Goblin, transitato nel capolavoro jazz/fusion dei Napoli Centrale ed ora a godersi il successo dal fondo del palco del celebre chitarrista napoletano.

Resta forse una delle parabole più significative di tutto questo discorso che stiamo portando avanti a spizzichi e bocconi, questa specie di ricerca sul perché non si siano mai trasformate in veri e propri incendi doom quelle scintille che stiamo rintracciando tra le mille esperienze del prog italiano dei ’70. Anche questa volta non ce l’abbiamo fatta a trovare un Masters of Reality all’italiana, ma abbiamo incrociato musicisti eccezionali che avrebbero potuto benissimo partecipare alla nascita di una vera e propria scena rock, più o meno oscura, anche da noi, nel Paese a forma di scarpa. Se questo non è successo, non possiamo dispiacerci del fatto che poi questi musicisti abbiano trovato mestiere in altri lidi musicali a noi meno consoni.

Agostino Marangolo, diventato un punto di riferimento, come batterista, per il pop nazionale, avrebbe quindi partecipato ad album di artisti popolari, spesso incrociando alcuni suoi vecchi sodali. Come la delegazione dei Goblin composta da Martino, Pignatelli e Morante in Buona Domenica di Antonello Venditti. Ancora Walter Martino ed il cugino Pennisi in Rettoressa di Donatella Rettore, mentre col solo Pennisi (tra quelli menzionati oggi) in Quando Si Vuole Bene di Riccardo Cocciante. Sempre in combutta con Pennisi avrebbe partecipato poi all’omonimo di Paola Turci, all’epoca non ancora rivale in amore di Silvio Berlusconi (nell’89 Francesca Pascale aveva sì e no quattro anni). Nel 2000 tornerà idealmente a Napoli, prestando servizio in Quando la mia Vita Cambierà del viceré Gigi D’Alessio. Oh, io tutte queste informazioni le ho recuperate su Wikipedia, di questi ultimi dischi non conosco neppure una nota, anche se ho promesso all’Azzeccagarbugli che un giorno mi deciderò a raccontare di quando, in un contesto di esaltazione mistica collettiva, ho assistito, forse per alcune decine di minuti, ad un concerto di D’Alessio. Ma non oggi, che mi sono dilungato a sufficienza.

Chi lo sa che carriera diversa avrebbero potuto avere i due Marangolo, Pennisi e Volpini, si fossero ritrovati al momento giusto nel posto giusto. Giusto per noi. Che so, Londra, Birmingham, San Francisco. Oppure no, che tanto coi se non ci si fa nulla. Io per questo volume chiudo qui. Vi lascio però proprio con i venti minuti di Topi o Uomini. Vi consiglio di goderveli in cuffia. E se vi viene da scalmanarvi, mimando batteria, basso o chitarra mentre viaggiate in metro o siete in fila al supermercato, tranquilli, non siete mica i soli. (Lorenzo Centini)

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