In Nomine Doomini vol. 2: alti e (soprattutto) bassi sul versante epico

Il periodico aggiornamento sul versante doom della nostra musica preferita oggi si concentra su quattro uscite che, in un modo o nell’altro, si qualificano come epiche. Nulla di particolarmente stravolgente, a questo turno. Almeno nella mia opinione, che si sa, è discutibilissima. Fin tanto che non mi si contraddice. Della selezione di oggi, onestamente gli ISOLE son meritevoli, salvo il fatto che non sono di palato fine io. I NINE ALTARS anche se le premesse (e la copertina) erano promettenti, si sono rivelati lagnosi. GOAT EXPLOSION e DESOLATE REALM hanno bei numeri, ma ancora dei difetti da limare. Mentre i CROMLECH da limare hanno parecchio. A cominciare dal minutaggio del loro disco.

Si parte con gli svedese ISOLE, il cui nuovo album Anesidora si candida come uscita di peso in campo epic doom, quest’anno. L’esperienza ce l’hanno, così come i numeri per piacere. The Songs of the Whales in apertura non lascia indifferenti. Suono potente, linee vocali enfatiche, una melodia che resta in mente. Si chiariscono pure le coordinate per i meno avvezzi: doom è, epico pure, ma parente stretto di quello gotico dei ’90. Quindi di dimensione barbara e guerresca dovrete fare a meno. Al contrario, predomina la raffinatezza. Se poi foste poco inclini a sopportare la prestazione del cantante Daniel Bryntse (talvolta su toni da opera teatrale, il livello di digeribilità lo potrete valutare da voi), io condividerei pure. Però le trame ci sono. Monotonic Scream, ad esempio, ha una bella dimensione ieratica e una struttura di riff più che convincente. In Abundance include growl e death nel linguaggio. Come per i compagni di etichetta Thy Listless Hearth, qualche leziosità eccessiva mina la mia tenuta sulla durata del disco. Il genere è di fatto lo stesso (senza le vette sfiorate dalla one man band inglese). Io ho forse un palato più ruvido, ma Anesidora i suoi ascolti li guadagna pure da uno come me.

Le premesse dei NINE ALTARS erano allettanti. I quattro sono di Durham, Inghilterra, ed in particolare a promuovere c’è Kat Shevil Gillham, quì cantante e batterista, che avevamo già incontrato al microfono dei Thronehammer. L’idea pareva rinfrescare i fasti dei classici epici (i soliti, splendidi nomi) con un forte orgoglio inglese (“We are THE NEW WAVE OF BRITISH HEAVY DOOM METAL, dicono loro stessi). Composto di soli tre brani per una durata di poco superiore alla mezz’ora, The Eternal Penance non è però un esordio da segnarsi, anzi. La costruzione dei brani (durata media undici minuti, tutti sopra gli otto) si fonda sulla reiterazione ossessiva. Non è un male in sé, ma se la linea vocale è lagnosa e viene ripetuta allo sfinimento (The Eternal Penance) la prova di resistenza è improba. Il riff di The Fragility of Existence è effettivamente buono, o più, e attorno c’è anche una specie di struttura che fa variare l’ascolto e non ti fa pesare troppo i 12 minuti di durata. Lo stesso non può dirsi per l’ultima Salvation Lost, dal riff particolarmente brutto. Ci sarebbero dei momenti che non sono male, specie quando la voce ci dà tregua, ma i Candlemass, il principale riferimento cui si vorrebbe tendere, sono lontani un bel po’. E mi sa che lo rimarranno.

Vengono da Lipsia, quindi sono tedeschi, e suonano epic doom, i GOAT EXPLOSION. Stavolta doom epico inteso come guerresco. Ma aspettate, non c’è ancora da lasciarsi cadere dalla sedia, che purtroppo Threatening Skies non si avvicina ai conterranei pesi massimi del genere (Atlantean Kodex, Wheel). Il nome scelto per la band è effettivamente discutibile, probabile che in partenza le intenzioni del quartetto fossero di darsi esclusivamente allo stoner. E disorienta pure quel faccione che campeggia nella copertina, un po’ Carlo Marx, un po’ Zardoz. Lasciati da parte questi due aspetti, l’ascolto in realtà risulta piuttosto familiare. Mid-tempo, melodie solenni, riffoni. I riferimenti principali sono sempre gli stessi, in questo ambito: li sappiamo a memoria. Ma l’ascolto soffre il tono nasale e monotono del cantante, come certe linee vocali che paiono tirate a casaccio (Sinking Shift). Margini di miglioramento ce ne sono, così come basi su cui partire. Come per i conterranei Servants to the Tide (un buon album nello stesso stile un paio di anni fa, ma purtroppo non ce ne siamo occupati), restiamo in attesa degli sviluppi.

Intanto noi ci immergiamo da subito in atmosfere ancora più barbare e guerresche con un duo finnico, i DESOLATE REALM. Legions è un affastellamento di riff freddi, martellate cadenzate e voci aspre. Sempre doom epico, ma, come dicevo, maggiormente disposto alla pugna rispetto agli altri due dischi di cui abbiamo appena parlato. In pratica, un po’ Grand Magus, un po’ DoomSword. Non necessariamente tutto su tempi mediamente lenti. Certe accelerazioni (Forsaken Ground) spezzano il ritmo in chiave heavy. Certi scrosci episodici non è che ci distolgano molto, però, dal pensiero che Legions sia in realtà un album un po’ monotono e tutto incentrato sul un lessico abbastanza limitato (per quanto tutto corretto e condivisibile). Doom maschio, comunque. Per ora “solo” molto buoni. Magari la volta prossima ci stendono.

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Io vi giuro che scremare scremo, non è che butti due righe su tutti i dischi che mi passano nelle cuffie, sennò starei fresco. Molti nemmeno ve li propongo. Dovrei forse fare lo stesso coi CROMLECH, ma sono proprio in linea col tenore del pezzo di oggi. Di più: Ascent Kings dura sessantotto minuti per sei pezzi, tutti sopra i sei minuti di durata e ben tre sopra i dodici. Vi dico: non sono esattamente memorabili, né particolarmente piacevoli. Non so perché, ma questa cosa penso meriti rispetto. Dico la tigna, il crederci tantissimo. Il pensare di avere qualcosa da dire per sessantotto minuti di musica, anche se non è così, anche se non sei una rockstar ormai scoppiata o sgonfiata. Parte bene, folk anglosassone e lenta crescita fino al primo vero inizio doom con le chitarre elettriche. Il brano si chiama Cimmeria, intanto, tanto per ingraziarsi ulteriore simpatia. Tutto molto bene. Poi iniziano assoli alla rinfusa che Quorthon al confronto è Van Halen, sprazzi di thrash metal grezzo (sento odore di Carnivore) e confuso, lunghi sviluppi epici nuovamente, ma senza direzione, con linee vocali già non memorabili di loro che pure si sovrappongono senza curarsi di armonizzare. Già dura arrivare a fine pezzo. Sono quindici minuti e ne mancano ancora 53. Io che li ho ascoltati tutti, non una volta sa, poi, vi dico: motivi di interesse ci sono anche (esclusivamente se siete tipi da doom enfatico ma che non va tanto per il sottile), ma sarebbe meglio chiedere loro di fare un sunto. I Cromlech sono la dimostrazione che se sei canadese e suoni epic doom non tiri fuori necessariamente una figata pazzesca. Non questa volta, almeno. (Lorenzo Centini)

One comment

  • Grande delusione il secondo dei Cromlech, dopo che il primo mi era piaciuto un sacco. Una lagna interminabile, una cacofonia di suoni scombinati che per quanto provi ad ascoltarla non prende una forma e non va da nessuna parte. Che peccato.

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