I RIFFOBIA, la Grecia, Belardi e il futuro del thrash metal

Ho provato una lieve sensazione di imbarazzo nell’apprendere che i Riffobia provengono dalla Grecia. Non ho niente contro gli abitanti del paese della PAOK Salonicco; c’è da dire che sopporto, col fare paziente che mi contraddistingue, i Rotting Christ e l’atteggiamento riverente che Metal Skunk dedica a loro e a tutto quel che in una recensione definiremmo col termine ellenico.

Non di rado nella chat Telegram i lettori stuzzicano il Bargone e tirano fuori Sakis Tolis oppure quella mezza cacatina fumante degli Yoth Iria, ignari delle conseguenze psichiche e priapiche che, così facendo, riversano sul nostro redattore. Dovete sapere che una sera egli si fermò a Firenze lungo il tragitto Milano-Roma (o viceversa), al che ci trovammo in centro per un saluto e una birra. Le quali divennero in breve quattro. Io avevo una bronchite disumana, e, con buona probabilità, l’interferenza fra l’antinfiammatorio Ibuprofene 600 mg e i pregiati luppoli fecero sì che cominciassi a parlare un po’ troppo. Ricordo ancora che definii i Rotting Christ uno dei gruppi più prolifici in circolazione. Non significava nulla. Poteva voler dire che cacciavano fuori un album all’anno, ma i quattro anni a dividere Rituals da The Heretics mi sbugiardarono.

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I suoi occhi al pronunciare quella frase acquistarono un qualcosa di diverso, il cosiddetto barlume. Era come se le prominenze falliche del Doriforo di Policleto si fossero attivate per accedere ai suoi padiglioni auricolari e punzecchiarne l’interno. Al che, statua più muscoli più prominenze nell’orecchio seminarono nella sua mente una serie di equazioni che crebbero sino a dominarlo: Orestea di Eschilo uguale Virgin Steele, uguale New York. Uguale Manowar, uguale muscoli. Nel mentre la sua bocca si riempiva di una schiuma biancastra e sopraggiungevano i soccorritori del corpo forestale La Racchetta, da Scandicci.

Sono fiero di narrare di un gruppo greco che non spacca il cazzo con le proprie origini e con l’importanza della storia antica delle medesime, e che, contrariamente, gioca a fare l’americano della West Coast. Meno bronzi di Riace, più burro d’arachidi. A proposito dei Riffobia, uno di loro somiglia a un carlino. La copertina del disco è imbarazzante, una sorta di Ed Repka illustrato per il Vernacoliere che ritrae uno a cui il TSO non è servito a nulla. I Riffobia sono gli Exodus della Grecia, con qualche parte veloce presa in prestito dagli Slayer degli ultimi tre album, per inciso quelli con le composizioni di Kerry King numericamente in crescita e un riffing veloce che sgorgava direttamente da Divine Intervention. Ma qui dentro gli Exodus sono la matrice prevalente. È sempre arduo per il sottoscritto usare la parola matrice, perché se vai da un trippaio fiorentino e chiedi “la matrice” lui ti dà un piatto a base della fica della mucca. Ho durato fatica ad andare a vedere Matrix nel 1999 per lo stesso motivo.

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Consume – Obey è il pezzo forte del disco e sta precisamente in mezzo alla scaletta. Herald of Pain un’altra carinissima. I Riffobia, quasi volessero rimarcare l’ignorantissima origine del loro nome, dimostrano con questo disco omonimo (e stranamente terzo in carriera a distanza d’un ventennio dalla prima demo tape) di saper affrontare composizioni stratificate e ricche di riff. Ma si guardano dal compiere il passo che li consacrerebbe a gruppo autore di un buon techno-thrash. Saprebbero farlo, ma, in un’epoca in cui il thrash metal lo si è passato sotto i raggi più e più volte, non c’è ancora traccia di un movimento che indichi che il techno-thrash stia tornando alla ribalta. E, se i cicli son cicli, puntualmente si dovrà transitare in quella direzione, perché il techno-thrash fu la penultima fase che caratterizzò l’andamento e l’evoluzione del mio filone prediletto, e il suo splendore durò circa fino al 1990. Tornando ai pezzi, è singolare No Turning Back, con un approccio orrorifico che rimanda a quegli Slayer che da 213 in poi ci consegnarono un nuovo modello di mid-tempo.

Giocare a fare gli Exodus è pericoloso, anche se questi ultimi non mi esaltano sin dai tempi in cui subentrò Rob Dukes. Il problema primario è che Gary Holt è la macchina da riff per eccellenza, o una fra le più note. Ciò che meglio riesce ai Riffobia è instaurare una convivenza ritmica perfetta almeno fra basso e chitarra. Difficile darvi un giudizio sul cantante, Chris Ntelis, giacché non apprezzo particolarmente la voce sporca entro questi ambiti per quanto il suo utilizzo abbia origini assai lontane nel tempo. Le urla in apertura alla strofa di Prisoners sono tuttavia goduria pura.

Ora un po’ più di coraggio, che di scrivere riff a secchiate già vi riesce. (Marco Belardi)

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