Tette al rallentatore: CARNOSUS – Visions of Infinihility

Far combaciare un nome assurdo e un titolo ancor più assurdo è possibile e ce lo garantiscono gli svedesi Carnosus, non un omaggio alle maggiorate biondo platino della Los Angeles anni Novanta, e il nuovo di pacca Visions of Infinihility. Il che comporta per me il dover recuperare il primo album Dogma of the Deceased – uscito in contemporanea allo scoppio della pandemia – poiché dei Carnosus altro non ricordavo che d’aver letto una recensione. E quelle righe, ora che ci ripenso e me le rammento, facevano due nomi: i Revocation e gli Archspire. Ecco in sostanza perché non ascoltai Dogma of the Deceased.

In realtà non posso dire che non mi piacciano i Revocation, è che certe volte mi stuccano, nella stramaggioranza dei casi per colpa del chitarrista David Davidson (una sorta di Giacomo Giangiacomo di Boston) e dei suoi assoli del cazzo messi dappertutto senza che un qualche criterio sopravvenga mai in suo e in nostro aiuto. Ma in linea di massima mi piacciono, sono dei gran mestieranti e qualche disco interessante l’han fatto.

Gli Archspire, se un giorno me li trovo davanti sulle strisce, accelero.

I Carnosus in realtà non c’entrano granché coi Revocation, a parte qualche riff che ne riprende stile e struttura. Sono una versione molto alleggerita e parecchio più lineare degli Archspire, per fortuna di chiunque popoli questo pianeta. Come questi ultimi, hanno un cantante che ha voglia di strafare. A differenza di quello degli Archspire, però, Jonatan Karasiak accompagna i pezzi. A prendersi la scena, da buoni riccardoni quali i Carnosus sono, è invece lo strumento: basso, batteria e naturalmente le chitarre stanno una spanna sopra alla voce, che è quasi fuori contesto, come un tizio che legge la Gazzetta in sala prove mentre gente preparata si lancia in buone ma ridondanti strumentali. Eppure Karasiak non canta in maniera piatta, anzi ce la mette tutta a tirar fuori carisma e varietà di timbro per eguagliare il cantante degli Archspire, Oliver Aleron. Ce la mette tutta e rimane al punto di partenza, con pezzi che, con o senza le tracce vocali, non guadagnano né perdono un solo centimetro. Ed è un bel casino, perché il ruolo del cantante rimane sempre quello, nel rock’n’roll così come nel death metal.

Magari un giorno qualche disadattato deciderà che il bassista deve avere lo stesso peso del cantante e, da quel giorno, tutti i gruppi, a prescindere dal genere, imposteranno i loro album in stile Primus; ma fino a quel giorno il cantante dovrà avere stoffa, personalità e un buon motivo per starsene al cospetto di quel luccicante microfono. Oliver Aleron, che alla lunga trovo una gran rottura di coglioni, quelle cose ce le ha. Karasiak, e me ne dispiaccio, no.

Il disco purtroppo parte col freno a mano tirato, con la sensazione che l’alternarsi dei brani non giovi né alla sua economia né alla nostra salute. Sembra d’essere sempre alla stessa canzone. Lo stavo ascoltando in auto la prima volta che ho realmente fatto caso ai titoli, e giunto a Fermenting Blastospheres of Future Putridity ho rischiato di schiantarmi sulla facciata della chiesetta moderna che si incontra, provenendo dalla Mukki Latte, poco prima dell’angolo della Mercafir andando in direzione del Palazzo di Giustizia di Novoli. Sono dell’idea che se a trenta anni scrivi Blastosfere in fermentazione di putridità futura dovresti uscire un capellino di più, la sera.

Fortuna che dopo quella traccia il disco, senza un apparente motivo, svolta.

In Debt to Oblivion mostra che, quando i Carnosus rallentano, tutto gli riesce meglio. E il discorso mi torna: prendete le carnose maggiorate biondo platino anni Novanta e filmatele in slow motion. Ora, zoom su quelle bocce gonfie di silicone. Avete capito che cosa intendo? Giù col metronomo quindi; giù con la doppia cassa anche perché questo Jacob Hedner dietro le pelli per quanto bravo è una gran rottura di coglioni, e avanti così. Non è neanche un caso isolato, perché in conclusione Among Worms it was Whispered (a Firenze si dice “si sussurrava fra i bachi”) riprende il medesimo mood e fa nuovamente centro, girando al largo dei Morbid Angel di Gateways to Annihilation e riprendendo dai summenzionati Revocation le atmosfere di cui sono maestri. Devourer of Light è forse la più riuscita fra le più rappresentative e canoniche.

Per il resto direi che i Carnosus rispetto agli Archspire hanno meno talento ed estro ma altrettanta capacità tecnica. La quale, da sola, non conta un cazzo. Hanno anche i riff, e contrariamente agli Archspire partono dalla semplicità per finire regolarmente col complicarsi le cose in un secondo momento. Negli Archspire il caos e la cacofonia spesso lasciano il posto a uno spiraglio di goduria fatto di un riff, di un passaggio ben scritto. Qui è il contrario: certe volte si comincia benee poi il martellare della batteria (a zero dinamiche, come garantito dagli standard odierni) e l’eccesso di sweep picking e virtuosismi di vario genere tolgono dal tavolo ogni genere di sentimento. Scopare, mettere più vinsanto in tavola, partita a calcetto e meno sala prove. I riccardoni sono anch’essi degli esseri umani e glielo va fatto capire in qualche modo. Sono la minoranza di domani nelle serie Netflix.

Un disco, questo Visions of Infinihility, di valore medio, che certamente si accaparra la sufficienza e che probabilmente non avrò mai la voglia di riascoltare. Un disco che ha come miglior pregio quello di durare poco, perché non si raggiungono mai i cinque minuti di durata a canzone, non si cede alla tentazione della suite e la conclusione arriva dopo una mezz’ora abbondante di riffoni, assoli, rantoli psicotecnici e agonia varia.

Dubito che gruppi come i Carnosus possano godere di una longevità assicurata. Al primo disco sono già preparatissimi, al terzo hanno nella stramaggioranza dei casi già esaurito ogni parvenza di velleità evolutiva. Al decimo, spesso e volentieri, in preda al math core e ad altre coglionate tipiche del millennio in corso, è probabilissimo che gli esploda la testa come in Scanners mentre tentano di comporre il brano più cerebrale di sempre. Auguro loro di scoprire i Venom e il sanguinaccio e di rendersi conto al più presto che l’heavy metal, in qualunque sua forma evolutiva e derivativa, è innanzitutto umanità. E tette che saltano al rallentatore, perché no. (Marco Belardi)

 

5 commenti

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...