Note in eccesso: ARCHSPIRE – Bleed the Future

Stavano attraversando l’entroterra maremmano a bordo d’un lercio e appena funzionante minibus, e la speranza di rimorchiare un’autostoppista gli parve alquanto vana. I quattro erano inoltre dell’Isolotto e a fatica si comprendevano fra loro; non gli erano neppure serviti i moniti di non proseguire oltre, ricevuti qualche chilometro addietro da un vecchio catarroso a una stazione di servizio. Procedevano per inerzia, certi che avrebbero raggiunto Manciano e infine le mura a picco di Pitigliano e Sorano, quando un tale un po’ trasandato l’autostop glielo chiese per davvero.
Si presentò come Amon senza nemmeno guardarli in faccia. Era preoccupato per il lunotto posteriore, certo che in quel rettangolo di vetro, anticipato dal fragore delle sirene, sarebbe comparso un numero di pattuglie sufficiente a bloccare un numeroso convoglio. Ma non compariva proprio nulla, se non polvere. I quattro dell’Isolotto gli si presentarono dicendo che uscivano alla Montagnola e che ascoltavano death metal. Amon ebbe un improvviso sussulto e pronunciò poche e concise parole.
Alla sua richiesta di mettere un disco venne loro in mente che era uscito l’ultimo Archspire, canadesi, brutali, tecnicissimi. Si convinsero di convincerlo a rilassarsi per mezzo di Bleed the Future: otto tracce, mezz’ora, una sorta di Reign in Blood dei riccardoni del death metal, almeno sulla carta. Amon, che già rifiutò la svolta dei Decapitated al tempo di Nihility, ritrovò nei primi sessanta secondi di Bleed the Future i medesimi tratti distintivi moltiplicati per cento, come se nel frattempo il death metal fosse stato spinto al massimo delle sue possibilità e torturato a morte: un milione di note di cui ottocentomila di troppo, cambi di tempo da mal di testa, palese assenza di rabbia. Ora accettava Nihility e ne comprendeva l’essenza, ma non gli effetti collaterali sulle generazioni seguenti. Bleed the Future nemmeno gli assomigliava ai Decapitated di vent’anni fa, ma quei concetti astrusi – alla base della nuova scuola di pensiero – vi erano stati pigiati dentro per essere, infine, rimasticati e resi indigeribili. Della scena di allora non s’era interessato a fondo, dedicandosi più che altro a losche attività culminate con la permanenza nel carcere di Sollicciano; ma Amon si sentì di dir la sua ai quattro progressive deathster dell’Isolotto, e si alzò, tanto nessuna curva stradale l’avrebbe mai fatto barcollare più dell’anfetamina che serbava in corpo.
Appoggiate le mani sui fianchi come una vecchia signora che rimbrotta, e mostrato loro il cazzo attraverso i pantaloni strappati, Amon, reduce della vecchia scuola per qualche ragione ritrovatosi in Maremma, vistosamente repulso al solo nominare il Canada per ragioni non ancora note, li interpellò: “Ma voi la conoscete la Earache? E quei gruppi death metal che arrivarono fino a Roadrunner? Chi cazzo sono questi? A me in Canada m’hanno arrestato, Isolotto merda, Della Valle colera”.
Quando il diciottesimo assolo di Golden Mouth of Ruin gli rivoltò il contenuto dello stomaco – perlopiù ossa canine ripulite a dovere – Amon emise un debole grido di sgomento e si lanciò giù per il minibus, sfondando quel lunotto posteriore che tanto aveva sorvegliato; poi corse lungo i campi d’argilla, sassi e sparuti cespugli pur di tenersi a debita distanza dagli Archspire. Allibiti, i quattro fiorentini si versarono una spuma bionda nei bicchieri di plastica e proseguirono nel viaggio, promettendosi di rimpiazzare quel vetro al più presto.
Una decina di chilometri più avanti trovarono una casa all’apparenza abitata il cui garage, semiaperto, mostrava morse e lamiere, fresatrici e ampi pannelli di vetro. Il che li rassicurò sulla possibilità di rimettere in sesto il trasandato Volkswagen. Parcheggiati lì davanti riluccicavano, si fa per dire, almeno otto fra camper, vecchi minibus e veicoli commerciali Fiat Fiorino. Avevano fatto bingo, si dissero dandosi il cinque.
Il più basso fra loro scese e si avvicinò al vetro laterale d’uno di quei mezzi: macchie di ketchup invadevano la tappezzeria e la moquette del camper era stata chiaramente imbrattata dalla composta di lamponi. Passò al mezzo seguente, come in una silenziosa ispezione della qualità. Il Fiorino, targato Piombino, riportava la scritta Amon su un’insegna simile a una grottesca targa, con l’adesivo dei Deicide e una croce fatta a pennarello che ne cancellava il logo. In passato era forse stato un tour bus? All’interno erano presenti dozzine di fucili e, non poteva accertarlo da fuori, alcuni pacchetti contenenti della Farina 00. Tornò dagli altri ed esclamò che era tutto a posto.
Bussarono alla porta principale e a parlare fu ancora il più basso di loro, motivato da una sicurezza innaturale. “Che c’è nessuno? Siamo della Montagnola, s’ascolta death metal tecnico”. Gli altri lo fissarono esterrefatti per qualche istante, poi scelsero d’entrare come fossero a casa propria. Era aperta, e lo scricchiolare dei cardini avrebbe rivelato a chiunque l’intrusione.
S’aggirarono per i corridoi della lercia dimora nella speranza di stanare il proprietario dello stabile e chiedergli (pretendere) servizio. Girato l’angolo che si affacciava sulla sala li videro seduti a un tavolo, silenziosissimi. Riconobbero il primo a sinistra: era Amon, il cui sguardo celava un misto d’odio e terrore. L’altro era calvo e lisciava nervosamente un lungo pizzetto mal curato, e, con l’altra mano, reggeva una rossa BC Rich come se tenesse a bada un cane abituato a mordere i passanti. Con ardore, i quattro esultarono in coro: “Bada ganza, Schuldiner ce l’aveva nera!”.
Amon rivolse lo sguardo al compagno e gli disse: “Hanno tirato fuori un gruppo canadese, devono essere di là. Ci hanno arrestati, Brian, al confine con il Canada”.
Brian li scrutò uno ad uno, in silenzio. “Li ha mandati Benton, dici?”
Setacciò i loro sguardi pur d’individuare il più normale di loro; riuscì a fatica nell’intento, allorché ripeté la domanda. “Vi ha mandati Benton, merde?”. Sembrarono non conoscerlo.
“Eric”, disse Brian ad Amon, “domandagli se sanno niente del Canada”.
Fu allora che ripartirono, come l’Arno in piena, a tessere le lodi di Bleed the Future degli Archspire, il capostipite di quel death metal tecnico che era venuto per sotterrare quella marmaglia di sequel apocrifi dei Pestilence e degli Atheist e d’altre band provenienti – guarda caso – o dai Paesi Bassi o dalla paludosa Florida dei coccodrilli e del cajun. Gli Archspire erano matematici, eleganti e riverenti signori di una milizia metallica che intendeva rinnovarsi non facendoti capire niente neppure con un album di otto tracce e trentun minuti di durata: erano un amore. Estratto uno smartphone dalle tasche, aprirono Spotify finché la ricezione dati maremmana glielo avrebbe concesso e diedero il là a Drone Corpse Aviator: “Sentite!”. Si erano introdotti a casa loro per irrancidire ulteriormente l’aria già irrespirabile e ammuffita di quella grossa capanna, e gli era riuscito.
Eric stava per avere una crisi. Brian non sapeva come cessare quell’orrore e fece l’unica cosa da farsi; li prese a cazzotti, tutti.
Risvegliati, i malandati camperisti si ritrovarono legati lungo il tavolo di salotto. Il nonno, risvegliato dall’alcova in soffitta e rispondente al nome di Paul Speckmann, li osservava con sguardo folle e un martello in mano, sentenziando parole il cui accento parve est europeo. Uno degli ostaggi disse sottovoce che questo qua andava sicuramente a maiale a Praga, e ricevette un sonoro ceffone da Brian.
Paul batté un pugno sul tavolo e scrutò i due chitarristi in segno di tacito assenso, mentre i quattro avevano già ripreso a constatare quanti bei cambi di tempo gli riservasse quell’intensa mezz’ora di frenetico death tecnico. “Magari fosse durato di più, che ne so, il doppio”. A quell’affermazione Speckmann perse una mascella, che gli fu presto riattaccata con del nastro.
“Mettete via il loro Volkswagen, e togliete di dentro tutto quel che è utile. Non la spuma, e nemmeno i dischi, tanto non ci sarà niente degli Autopsy e poi degli Autopsy ho tutto, incluso Shitfun. Ma Shitfun è oro in confronto a quello sturascarichi canadese che mi torturava di sottofondo. Portateli di sotto e svegliate Pat, ci penserà lui. Questi sono capaci di chiacchierare di terzinato e postproduzione mentre li torturi; non ce ne occuperemo io e il mio martello, ma Pat, che ormai non sente più niente per com’è ridotto”.
Giunti di sotto gli parve d’essere al macello, legati in una stanza piena di ganci e catene in cui la luce filtrava per sbaglio dalle fessure, simili a enormi graffi, che le conce e ammuffite pareti rivelavano. Si sentirono indifesi e mormorarono fra sé di avere paura di buscarne e finire ricoverati a Ponte a Niccheri. Al di là della porta, Speckmann e i due fratelli chitarristi lottavano con un’entità che brontolava e sbarellava, come per contenerla, finché riuscirono, a fatica, a chiudere una porta alle spalle della Creatura. Sentirono tirare una cordicella, e il più basso dei quattro osservò, sorridendo: “Pare quando s’accendeva il motore del motoscafo a Marina di Castagneto!”. La cordicella era tirata nervosamente dallo stesso Essere che ripeteva mugugni intraducibili, finché, calciando la porta dello scantinato, con una lercia maschera putrescente in faccia e una motosega accesa in mano, colui che doveva corrispondere a Pat O’Brien mandò affanculo loro e i dischi di merda che s’ascoltavano, e poi avanzò senza più aggiungere niente. Il death metal vince sempre sulle sue più patetiche e inappropriate imitazioni. (Marco Belardi)