Andorra esiste e resiste: PERSEFONE – Metanoia

Seguo i Persefone da un bel pezzo, il che mi ha aiutato a comprendere che Andorra esiste sul serio. La sensazione che provo ad ogni loro uscita è che piacciano a tutti, ma che, sotto sotto, non se li inculi nessuno. Non ho mai percepito un loro salto a livello d’immagine o qualità, e dubito che in tal senso saranno aiutati dai numerosi guest che negli anni si sono concessi d’ospitare, da Paul Masvidal in Aathma al violinista e voce dei Ne Obliviscaris, Tim Charles, passando per gli assi di briscola in dotazione sul nuovissimo Metanoia: Steffen Kummerer dagli Obscura ed Einar Solberg.
Inutile accennare a chi sia quest’ultimo, che oltre alla nota nave madre (i Leprous, l’ho detto) sta ultimamente collaborando un po’ con tutti, dai validissimi progster australiani Voyager passando per quell’Ihsahn che, avendo lui bombato e sposato la sorella, può ora ricattarlo a oltranza e costringerlo alle più parossistiche sessioni da guest. Non ho dubbi sul fatto che la domenica pomeriggio vadano insieme da Zara a comperare quegli orrendi maglioncini a collo alto che la voce degli Emperor adopera nelle foto scattate in giardino al crepuscolo per darsi un tono.
Einar Solberg, in questo momento storico della musica heavy metal, può essere l’elemento in grado di spostare l’attenzione delle masse sul nome della tua band: è però mia opinione che i Persefone da Andorra continuerà a non incularseli nessuno poiché è questo il loro destino. Sono un gruppo sofisticato, i cui album richiedono numerosi piani di lettura e un’immersione graduale. Sono il genere di band che evoca la devastante e abusata terminologia “di nicchia”.
Per quel che riguarda Metanoia, album numero sei in quasi vent’anni, continuo a dedurre dalla musica dei Persefone la stessa sensazione emersa un decennio fa e oltre: non faranno mai un brutto disco, non ne sono in grado. Metanoia è un bell’album esattamente come lo era Aathma, e ci mostra una band coerente eppure incapace di crogiolarsi in un comodo immobilismo che all’epoca di Spiritual Migration – e del suo relativo successo – li avrebbe potuti facilmente indurre a sostare e mettere le quattro frecce. I Persefone si sono evoluti ancora, non sta lì il bandolo della matassa. Il problema, non il loro bensì il mio, è che intravedo nell’accoppiata formata da Core e da Shin-Ken la loro forma migliore, nonché il raggiungimento perfetto di un equilibrio fra semplicità, riuscita dei pezzi, tecnica e quella complessità che nel death metal tecnico dev’esserci e allo stesso tempo restare un elemento sì leggibile, ma di fondo. Riducendo ai minimi termini, li preferivo all’epoca del passaggio tra l’essere vaghi discendenti death metal degli Opeth e un magistrale pastrocchio technical death invasato dalla melodia e rimastoci troppo sotto dopo un qualche viaggio in Giappone. Non deve sovrastare, la complessità che impreziosisce oppure affligge questo genere musicale. Spiritual Migration, Aathma e il qui presente Metanoia sono album ricchissimi, specie i primi due. E quella ricchezza di note e suoni e contenuti, sinceramente, un po’ mi stucca.
quando ti viene il dubbio che siano tuoi amici solo per caricarti la sorella
Ciò in cui Metanoia vince a discapito dei due predecessori è l’avanzata sistematica di elementi riconducibili al djent e al metallo atmosferico di certi Soen e parentado (i Leprous fino a un certo punto della loro carriera, ad esempio; non gli attuali). È soprattutto il senso di spiccata drammaticità ad essere aumentato a dismisura, come dimostrato da certi episodi anche di passaggio come la strumentale Leap of Faith. In parole povere, i netti contrasti qui presenti ne facilitano la digestione e quasi azzerano la possibilità che si possa etichettare un album così complesso e lungo come piatto. I Persefone odierni, aiutati anche da un vuoto temporale riempito soltanto da un EP e una ri-registrazione (quella di Truth Inside the Shades), uno scalino ce lo fanno percepire eccome, con Metanoia. Ma restano pur sempre loro nel bene e nel male, e ci consegnano un altro album buono, forse buonissimo, ma anche stavolta non eccellente. Come se si stessero perdendo a migliorarsi, ed a perfezionarsi, dimenticando un po’ di lavorare sul semplice e sulla riuscita. Ecco infatti la ridondante Anabasis in ben tre parti, e il recupero di Consciousness da Spiritual Migration, cui viene qui aggiunto un terzo capitolo che mi auguro sia l’ultimo. Katabasis e Merkabah, ad ogni modo, poste nella prima metà del disco, corrispondono anche agli episodi migliori. Una band impeccabile che, tuttavia, non riesce e non riuscirà a raggiungere quella perfezione a cui tanto ambisce: come disse un mio amico e collega, se non smetti di guardarlo il latte non bollirà mai.
Nota a margine: ma quanto fa Death Stranding la copertina di questo disco? (Marco Belardi)