Avere vent’anni: NUNSLAUGHTER – Hell’s Unholy Fire

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Troppi pochi album rimangono legati a doppia mandata a un preciso momento della tua vita. Facile dirvi che il giorno in cui un amico di Scandicci mise su Battery, niente sarebbe rimasto uguale a prima. Troppo facile. Preferisco giocare un po’ più difficile: il Capodanno del 2001.

Dopo aver festeggiato quello del Duemila in piazza, in una notte gelida, trangugiando litri di alcolici e camminando sui cocci delle bottiglie d’Heineken di cui tutta Firenze era cosparsa, finii col ritornare a piedi a Scandicci dalla stazione di Santa Maria Novella. Non ricordo di preciso perché prendemmo quella decisione infausta, ma aveva a che vedere con alcune divergenze fra quel che c’era scritto sulla cartellonistica del servizio bus e la realtà. Mi pare di ricordare vagamente che non stessero passando autobus, neanche alle sei e mezzo, nonostante fossero previsti fin dalle primissime ore del mattino.

Fu banale decidere di trascorrere il Capodanno seguente in casa con gli amici, ma la location scelta fu il Lido di Camaiore. E a me quelle zone portano sempre sfortuna. La casa era un bilocale spacciato per trilocale, senza riscaldamento; inoltre in nottata cadde qualche centimetro di neve, tanto per rendere idea della situazione climatica interna ed esterna. Eravamo circa in venti lì dentro, e la disorganizzazione era arrivata al punto che c’erano tre o quattro posti letto totali, e che per il “cenone” erano state prese soltanto le salsicce. La cosa bella è che a diciotto anni non te ne frega niente di tutto questo: accetti di buon grado di dormire per terra, appoggiato al muro, o, peggio ancora, di fare come feci io.

In seguito alla salsicciata, quando tutti avevano realizzato che non si scopava nemmeno stavolta, partì puntualissimo l’ampio DJ set a cura di chiunque passasse accanto allo stereo. Mancava il mangiare, mancava il letto per tre quarti della popolazione: ma col cazzo che mancava uno stereo, e di compact disc ne eravamo pieni. Dalle sette del pomeriggio a tarda nottata avevo incamerato cinque litri e mezzo di birra sotto forma di Moretti da 66 cl, ma almeno in prima battuta non fu la birra, e non fu nemmeno la musica, a mettermelo nel culo: ricevetti il colpo di grazia proprio dal gelo. A un certo punto qualcuno diede il via a Hell’s Unholy Fire, ed io, consumato fan dei Sarcofago, trovai ulteriore pane per le mie orecchie già stimolate o fracassate dal cd precedente (Handle With Care). La gente intorno a me era quasi tutta ubriaca. Era finito quel periodo di ambientamento in cui il blackster faceva il grosso menzionando Tmina dei May Result, e in cui io ribattevo con due o tre gruppi californiani che neanche i parenti del chitarrista ritmico conoscevano. Era la fase in cui tutti scapocciavano, e l’inizio di Hell’s Unholy Fire fu come il richiamo ideale. I Am Death, un pezzo eccelso. Intorno al sessantesimo secondo di durata, il cantante, con una voce caustica come quella di Martin Schirenc, declamava il titolo scatenando un vero e proprio Inferno: davanti alle casse ci distruggemmo di spallate come in un locale. E poi c’era il groove di batteria di Burning Away, che ricordo perfettamente anche a vent’anni di distanza. E c’era Cataclysm. Il ritornello di quella canzone faceva più o meno così:

Cataclysm

All Creatures Die

Cataclysm

Life Devitalized

Avevo sempre attorno questo tizio, sbronzo ma con le funzioni vitali che tenevano decisamente botta, che mimava di impugnare un microfono alla maniera di Phil Anselmo, e che letteralmente – in preda alle salsicce e all’alcool – gracchiava il testo di Cataclysm, urlando:

CATACLISOM…

WHY??? WHY???

CATACLISOM…

CRY!!! CRY!!!

Nessuna forma di vita uscita indenne da quel Capodanno può in alcun modo essersi dimenticata di Hell’s Unholy Fire dei Nunslaughter. Perfino io non sarei riuscito ad apprezzare Goat alcuni anni più tardi, perché qua stavamo parlando d’un vero e proprio pezzo di cuore. Inoltre buona parte del suo materiale aveva subito una lavorazione spalmata lungo più d’un decennio, arrivando, in occasione di alcune canzoni, a risalire addirittura agli ultimi anni Ottanta. Al termine del DJ set i corpi degli ubriachi erano ammassati nei corridoi e di fianco al letto matrimoniale, come feriti di guerra che al momento non potevano ricevere la morfina. Un amico ebbe l’idea di dormire in auto, tanto c’è il riscaldamento”, disse. Per palese mancanza di alternative e per non finire vomitato addosso nell’oscurità, gli diedi pure retta. E ci incamminammo nel permafrost della Versilia.

Fu un cazzo di incubo: lui rigettò dopo una mezz’ora scarsa ma ebbe la prontezza di aprire lo sportello, ed io ci andai letteralmente vicino in preda al principio di una congestione. Resistemmo lì dentro tutta la notte, come Walter Bonatti nel ’54 ma al livello del mare e con un freddo sopportabilissimo, reso però insopportabile da tutta quella birra. Al mattino il sole illuminò la Fiat Uno e il giardinetto imbiancato di neve fresca, rivelando l’Orrore delle onnipresenti chiazze di vomito, che, prive d’un nome, potevano essere state causate più o meno da chiunque, per le condizioni in cui quasi ognuno dei presenti era precipitato in quella notte.

Una settimana più tardi avrei comunque acquistato quel disco. (Marco Belardi)

One comment

  • Comunque Mà nel kit di ogni blackster erano comprese una gran quantità di pezze da vomito in uno zaino invicta nero/arancione( l’ arancione era quasi sempre postumo).

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