LORDS OF CHAOS e la parabola del caffè al bar

(Probabilmente non avremmo dovuto, ma alla fine noi tutti abbiamo guardato Lords of Chaos – e molti di noi si sono sentiti in dovere di parlarne. La presente è dunque solo una delle sei recensioni che pubblicheremo nel giro di pochi giorni, ndbarg)

I biopic tirano fuori il peggio dalle persone, un po’ come ordinare un caffè al bar prima di andare a lavoro. Prende forme e sembianze ai limiti dell’ossessione, due parole seguite da un banalissimo e opzionale per cortesia, che diventano sette o otto come se si trattasse di un rituale del cazzo, una di quelle cose importanti che si fanno così, oppure così. E che ti elevano a qualcosa di superiore, e in particolar modo differente, da ciò che sarai nelle restanti ventitré ore e quarantacinque minuti della medesima giornata; oltretutto, perché stai per andare a lavoro a farti prendere a cazzi in faccia. Ma in quel momento il cartellino l’ha timbrato il povero barista, tocca a lui, e dunque un deca in vetro tazza grande macchiato soia sarà l’unico imperativo, l’unica via per rappresentare pubblicamente il proprio Io.

Quanto ho sentito rompere i coglioni quando è uscito il film sui Queen. Che sapevo benissimo non sarebbe piaciuto ai loro fan, nella misura in cui questo non piacerà a quelli dei Mayhem, del black metal, né della musica che amiamo in generale. Quindi Jonas Akerlund, ex batterista dei Bathory si fa per dire, ora la fai tu la parte del barista. E noi ordiniamo tutti un caffè nelle maniere più disastrose che ci vengono in mente, quando a casa lo berremmo pure dentro a un sottovaso perchè tutte le tazzine stanno nella lavastoviglie. Le considerazioni che mi vengono in mente su Lords Of Chaos sono due: questo film era già nell’aria da un pezzo, quindi è in un certo senso a sé stante dal ciclone dei biopic rock’n’roll, a cui toccherà assistere sull’onda del successo a suon di Oscar riscosso da Bohemian Rhapsody. In primis The Dirt sui Motley Crue, esclusiva Netflix e quindi casting sicuramente rimediato in mezz’ora al mercato ortofrutticolo di Novoli, scegliendo in base alle capigliature più stravaganti ed alle Converse con sopra più borchie. E allora, di preciso questo film a chi era destinato, per essersi ritrovato fuori al momento giusto, ma nel posto sbagliato?

Oggi questa roba potrebbe non interessare a nessuno, dato che sono passati oltre venticinque anni da quei fatti di cronaca norvegese. Ma se decidi di infilare una cosa del genere nel circuito multisala, e non di limitarti ad un paio di esclusive proiezioni torinesi, farai interessare ad esso diversa gente in un momento nel quale il biopic, tecnicamente, tira a prescindere. Io me lo sono visto in lingua originale, poco male se si considera che i dialoghi sembrano scritti da un pastore tedesco non sverminato che ulula per il suo primo e doloroso vaccino. Lords Of Chaos è gli Abruptum, e i dialoghi platonici che pubblicammo qualche tempo fa in confronto sono gli Arcturus, per intenderci, il tutto senza andare oltre alla lettera A.

Lords Of Chaos avrebbe un sacco di aspetti positivi di cui vantarsi, tecnicamente non è un brutto film anzi scorre godibile per calare di intensità solo nell’ultima parte, un po’ lenta, con quelle puttanate videoclippare grazie alle quali Jonas Akerlund avrebbe reso fiero un Tony Scott, per dirne uno di quella aberrante scuola. Ma basta un suo particolare a rovinare tutto quanto. Pensateci bene, tutta quanta la faccenda dell’Inner Circle – o Black Circle – è un qualcosa su cui ci siamo potuti documentare con ricerche su internet, interviste, estratti dalle fanzine a cui contribuiva Metalion – qui raffigurato come da consuetudine, bello tondo e costantemente alle prese col cibo etnico – e poco altro. La somma di questi pezzi di puzzle ci ha portato a fare le volute considerazioni, che poi tanto finali non lo sono mai state. Ma tutto rimane avvolto nel mistero, sappiamo che Euronymous fosse un codardo e Varg Vikernes la sua altrettanto ambiziosa e doppiamente determinata controparte, ma da quale fonte? Quanto è vero ciò che abbiamo appurato fosse Storia? L’unico modo per far funzionare un biopic su un musicista del quale si diceva fosse gay, comunista, e satanista in un modo piuttosto che in un altro, è lasciare ogni dettaglio o quasi avvolto nel mistero. Jonas Akerlund, perché hai perso così tanto tempo a mostrarci la caratterizzazione dei personaggi, in particolar modo quello di Euronymous, con tanto di svolta finale, taglio di capelli e camicina chiara indossata giusto un attimo prima dell’arrivo del carnefice? Ma soprattutto, lo spiegone che egli fornisce all’omicida mentre è in preda alle coltellate, della serie eddaje semo amici, stavo a scherzà!, è un qualcosa di pietoso.

Tutto ciò che può portare a conclusioni – nostre – sui personaggi di Lords Of Chaos dovrebbe scaturire da frammenti di dettagli sparpagliati qua e là, non da palesi spiegazioni, pesanti ed evidenti come sentenze. Il che accade, e peggiora quando il regista ci mostra quella specie di taser elettrico, a conferma dell’ipotesi da sempre sostenuta da Varg Vikernes. Aveva ragione lui, che qua passa metà film a imbastire copiosi aryan teen threesome, mentre l’altro rosica. Ma fu Euronymous l’autore di De Mysteriis D.O.M. Sathanas, o sbaglio? Parliamone, Jonas. In Lords Of Chaos è fondamentale soffermarsi a oltranza su chi scopasse di più, e c’è la love story porca puttana: i registi non ce la fanno, sono letteralmente soggiogati da sceneggiatori che impongono loro la presenza di una love story, come se all’ipotetico pubblico di Lords Of Chaos questa interessasse davvero.

Questo aspetto del lungometraggio sotterra tutto quanto il resto, come ad esempio, due omicidi ottimamente realizzati. In particolar modo, quello di Bard Faust: un regista solitamente si concentra sul sangue, sull’aspetto gore, l’efficacia dello spavento. Akerlund ha riprodotto una delle uccisioni più realistiche e disturbanti che ho visto in un film negli ultimi anni, al punto di non replicare con altrettanta enfasi in occasione di quello ad opera di un cicciottello Varg Vikernes, che massacra il fratello di Mamma ho perso l’aereo, Rory Culkin.

Nella prima parte, il piglio adolescenziale di tutti loro viene portato in gloria da una sequela di gag anche buffe, su tutte quella di Euronymous che risponde a tono al postino su come pronunciare correttamente Deathlike Silence. Ma si torna al problema di cui sopra: non dirmi che erano ragazzini allo sbaraglio alle prese con cretinate alla stregua de I soliti idioti, oppure persone ferme nel loro Credo nero, di cui alcune in balia di una forte influenza carismatica individuale. Fammelo decidere, lasciami col dubbio. Che poi è lo stesso dubbio che hai tu, regista, poichè in quel momento storico non ti trovavi all’Helvete, laddove oggi la gente scende nel sotterraneo per scattarsi foto tutte uguali e che hanno intasato un qualcosa come Google. Buoni anche i roghi specie per quel che concerne la realizzazione tecnica, sebbene Fantoft – a dirla tutta – non appaia neanche come quello più enfatizzato. Così come funziona alla perfezione il suicidio di Dead, anche se i successivi flashback che lo riguardano ad un certo punto romperanno non poco il cazzo; e ci tengo a sottolineare come Bard Faust avesse a più riprese ripetuto che i due non avevano affatto un rapporto fraterno come quello descritto nel film, arrivando a insinuare fra le righe che forse, di un vero e proprio suicidio, non si trattò. Per cui Akerlund, tu tienimi nel dubbio pure lì, e non dirmi se devo credere all’ammazzato, oppure all’amico che vediamo piangere, modificare la scena del decesso, per poi correre a comprarsi una compatta usa e getta.

Comunque sia un po’ ho goduto, grazie ad un film accompagnato dalle note di Deathcrush, oltre a magliette e vinili di un certo tipo, Outbreak Of Evil, gente che scapoccia sugli Accept o su Stand Up And Shout di Ronnie James Dio. Jonas Akerlund in fin dei conti è stato soltanto di passaggio in quella scena, e in modo parallelo, ma fra lui e Roar Uthaug direttore del catastrofico norvegese The Wave, scelgo pur sempre il metallaro. Abbiamo di che lamentarci, non di che esagerare nel farlo. Akerlund ha imbastito discretamente, ma non nel migliore dei modi, il racconto di un qualcosa che non c’è più; e che probabilmente già dall’agosto del 1993, in quella precisa notte, si era vanificato come una nevicata dopo l’abbondante pioggia che la cancellerà in poche ore. Che tutto questo sia rappresentato bene o male, correttamente o scorrettamente, è l’eterno problema che affliggerà i biopic di chiunque ne abbia meritato uno. Armati di pazienza, se armato di cinepresa dovrai mai dirigere un titolo del genere, armati di pazienza perchè dovrai averne più di un barista. (Marco Belardi)

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