METAL CHURCH – Damned If You Do
L’essenza dei Metal Church è tutta racchiusa in ciò che avviene dopo circa cento secondi di Of Unsound Mind, un brano bello ritmato e capace di trasformarsi all’improvviso in un’esplosione di speed metal raffinato e potente. Ciò che non ti saresti mai aspettato si concretizzava in un attimo sfasciando la forma canzone e tutte quelle puttanate di cui pensavi di avere bisogno. È la cosa più bella che ho sentito suonare dai Metal Church, ed è incisa in maniera indelebile nell’indimenticabile Blessing In Disguise. Non ho mai capito quale loro album preferissi, fatto sta che fino a Hanging In The Balance li potevi attaccare solo se ti avessero trombato la moglie. Il punto a cui intendo arrivare, è che su Blessing In Disguise debuttò un certo Mike Howe, un tizio che insieme a gente come Carl Albert e Warrel Dane considero fra le più belle voci dell’heavy metal americano. Se avete aperto questa pagina, probabilmente sarete interessati al gruppo di Seattle e lo saprete già: Mike Howe è tornato e oggi siamo a discuterne per la seconda volta, davanti al titolo di Damned If You Do.
La copertina è qualcosa di cui letteralmente vergognarsi, ma mai quanto quella di Hanging In The Balance. E pure l’incipit a dire il vero, con Howe che decide di presentarsi come se fosse a un corso di meditazione. Dopodiché sembra filare tutto liscio: il problema di Damned If You Do è proprio che non c’è niente che non vada in esso. L’album è una lezione di stile paurosa, in cui Kurdt Vanderhoof passa senza problemi dal power/speed americano della title-track ad episodi più raffinati e che sembrano guardare all’hard rock di fine Settanta, come Revolution Underway. Howe se la giostra benissimo, talvolta con qualche ammiccamento priestiano, o addirittura richiamando i vecchi Sanctuary come nel ritornello di Into The Fold. I Metal Church odierni sono una band che gioca a interpretare quello che meglio gli riesce, mescolato a ciò che individualmente li ha cresciuti come musicisti: ne riparleremo più avanti, ma sarà un po’ questo l’ostacolo principale. In sostanza, di canzoni brutte ce ne sono pochissime, e probabilmente avrei fatto a meno di Rot Away così come della rocciosa ma inconcludente Monkey Finger, ma il resto è davvero di buon livello. Perché allora sono così scoglionato? Non sono le feste natalizie, è che manca un po’ di sostanza.

I Metal Church nel 2018, ma soprattutto l’agghiacciante pizzetto metrosexual del batterista Stet Howland
Ci sono momenti in cui quasi sfascerei la camera come quando mi trattenevo a fatica con quella Of Unsound Mind, tipo quando, in Guillotine, Kurdt Vanderhoof caccia fuori un riff che pare l’attacco di Disposable Heroes dei Metallica. O meglio ancora il motivo principale di The Shortest Straw. Tolta quella, By The Numbers e un paio di altri episodi gradevoli, ci resta da elogiare soltanto Out Of Balance, che è oggettivamente un qualcosa di fichissimo e che imparerete a memoria probabilmente subito. Ha una strofa che strizza un po’ l’occhio al Bruce Dickinson dei pezzi più pestoni, ma sul ritornello saranno cazzi vostri: un passaggio e vi frigge. Esattamente come mi è accaduto di recente con Pain degli Artillery, altro brano dell’ottimo 2018 che ci stiamo mettendo alle spalle. Un unico acuto del genere è decisamente poco, per un album che speravo di piazzare in top ten senza troppi indugi, e che ad un primo ascolto mi ci aveva fatto addirittura pensare. È dopo pochi passaggi che Damned If You Do – probabilmente – smantellerà il tuo entusiasmo iniziale, quindi ecco le conclusioni: Mike Howe ci sta sempre bene, sia nel 1989 quando raccolse l’eredità del grande David Wayne, sia ora che ha raccattato i cocci della fiacca era Ronny Munroe.
E Kurdt Vanderhoof? L’unico reduce della prima formazione degli statunitensi, pur cavandosela benissimo – e sorretto da una sezione ritmica adeguata in cui figura l’ex batterista degli W.A.S.P. Stet Howland – sembra un po’ orfano di quell’elemento cardine che, se presente, bilancia alla perfezione le due anime di una band. Tipo Samoth e Ihsahn finché ha funzionato: capisco di essere nettamente fuori tema, ma il loro è il primo esempio che mi è venuto in mente. Il leader è perfettamente a suo agio quando si cimenta col repertorio più classico, un po’ meno quando il power/speed dei Metal Church finisce confrontato con quello di The Dark, o dell’altro materiale che la band registrò senza di lui negli anni seguenti. Manca pure un po’ del corpo rotondo di The Human Factor, dato che qui i suoni risultano essere molto più asciutti, anche se una scelta del genere non si rivelerà necessariamente un male in tutto e per tutto. E credo che Craig Wells fosse l’ingrediente ideale per completare i Metal Church, perché da Masterpeace in poi (vi ricordate che suoni del cazzo aveva?) la situazione è diventata perennemente altalenante, specie quando si tratta di essere sé stessi e facendo ricorso alla maggiore naturalezza possibile. Sufficienza ampiamente meritata, ma temo di dover ridimensionare le mie aspettative nei confronti dei vecchi, oppure nuovi, Metal Church. E comunque, ogni volta che mi ricompare davanti il loro logo immutato nel tempo, rasento le lacrime. (Marco Belardi)
È un gruppo a cui (continuare a) volere bene, pur nella consapevolezza che ha già dato ciò che aveva da dare.
"Mi piace""Mi piace"
Mah, io l’ho trovato un po’ spento. Purtroppo non m’ha preso.
"Mi piace""Mi piace"