Avere vent’anni: maggio 2004
ELDRITCH – Portrait of the Abyss Within
Barg: A differenza di molti altri miei stimati colleghi di redazione io non ho mai seguito con attenzione la carriera degli Eldritch. Sono cosciente che questa è una mia mancanza e so benissimo di starmi perdendo qualcosa, ma sapete com’è: certe volte si procrastina a quando si avrà più tempo o voglia, poi passano gli anni e si rimane sempre là. Ho chiaramente ascoltato i loro album, quantomeno sino a un certo punto, ma mai troppo approfonditamente, ahimè. L’unico che, per motivi assolutamente incidentali, conosco molto bene e che ho sentito tantissime volte sin dai tempi dell’uscita è proprio questo Portrait of the Abyss Within, di sicuro non il loro migliore né il più rappresentativo, ma che mi è sempre piaciuto parecchio. È molto più power rispetto alle prime uscite, con una struttura più lineare e un approccio per i tempi quasi modernista; ha pochissimi cali di tensione e più o meno tutti i pezzi meritano, in un modo o nell’altro. Ecco, se questo – che è un disco minore – spacca così tanto, figurarsi gli altri, no? E infatti fu proprio a causa di questo disco che l’enormità della mia follia mi fu rivelata in un lampo accecante, e mi dissi che ero stato un cretino a non approfondire la passata discografia degli Eldritch. Eppure siamo ancora qui: brutta cosa, la procrastinazione.
ENDSTILLE – Dominanz
Gabriele Traversa: Martellante e drammatico era il war black metal dei tedeschi Endstille. Non c’era solo l’intento di annichilirti con l’assalto sonoro, ma anche di farti provare sofferenza, panico, paura. Durante l’ascolto di questo Dominanz si ha sì la costante impressione di trovarsi sotto a un bombardamento, ma anche di contemplare le macerie degli edifici immediatamente dopo la distruzione, in mezzo al fumo e alle polveri che si alzano al cielo. Menzione speciale per la penultima traccia, Crucified, che all’epoca rimase nel mio lettore mp3 per un bel po’: due accordi distorti in apertura, rullata, un urlo lacerante del cantante Iblis che va dritto dritto nell’antologia dei migliori urli d’apertura della storia del genere per la porta principale, sfondandola a spallate, e la batteria cannoneggiante di MAYHEMIC DESTRUCTOR (!!!) ad accompagnare il tutto. Venti secondi per imporsi di prepotenza nel firmamento della nera fiamma. Potrei riascoltarli per mesi, in loop, solo quei venti secondi iniziali, e i brividi sarebbero sempre gli stessi, da sempre.
BARAD DÛR – Gold oder Blut
Griffar: Partiamo da un non insignificante presupposto: i Barad Dûr hanno composto quello che è a mio modestissimo parere uno dei migliori venti brani black metal di ogni tempo. Dico venti per non azzardarlo nei dieci, ma siamo lì. Si tratta di Königin der Jagd, non lo troverete in questo disco, è uno dei due capolavori (e non sto esagerando) che i tedeschi hanno incluso nello split con i Graven del 2001. Disco introvabile, uscito per 88 records – e già qui capirete perché è introvabile. Lo split si pone a metà strada tra l’esordio Dunkelheit del 1999 e Gold oder Blut uscito nel 2004, e sfortunatamente nessuno dei suoi cinque brani arriva a quel picco totale. Tuttavia non si può pretendere l’impossibile: quel brano è irripetibile, ma i pezzi qui presenti non si distaccano in modo eclatante, sono in grado di soddisfare la vostra necessità di odio e violenza. L’alternanza tra riff cadenzati e veloci è rimasta la stessa, l’attenzione nel comporre melodie coinvolgenti in grado di perdurare impresse nella memoria per decenni idem. C’è Burzum, c’è molta ruvidità DarkThrone ma c’è anche una sensibilità tutta tedesca nello scrivere riff stupefacenti, con melodie aggressive e sostanziose in ogni cristo di secondo che passa. Non c’è un brano migliore, sono tutti al di fuori della portata (ad essere generosi) del 75% dei gruppi black metal che hanno frequentato e continuano (talvolta) a frequentare la scena black metal mondiale. Penso possa bastarvi. Cosa aspettate, allora?
URFAUST – Geist ist Teufel
Michele Romani: Gli Urfaust sono sempre stati un’entità abbastanza indecifrabile all’interno della variegata scena black europea post-2000. Partiti con una demo di solo dark ambient, il duo olandese cambia decisamente le carte in tavola con questo Geist ist teufel, un lavoro totalmente fuori di testa in cui le atmosfere di un certo black novantiano dalla forte connotazione atmosferica vengono mischiate con elementi ambient e noise. Difficile dare a Geist ist Teufel un giudizio compiuto, perché fondamentalmente ogni pezzo va per cavoli propri, a partire dalla lenta litania in apertura di Die Kelte Teufelsfau, classica registrazione da cantina con chitarre ronzanti e batteria appena udibile. Qui a farla da padrone è il cantato di Willem IX, che trasuda follia allo stato puro: quando canta in scream sembra una specie di incrocio tra Nattramn dei Silencer e il Conte, e quando canta in “pulito” è talmente sbagliato e fuori posto da essere l’unica adatta a una roba simile. In Drudenfus così de botto si cambia completamente registro e si va nel folk più puro, sempre però nella connotazione malata e inquietante alla Urfaust, per un brano che ricorda molto gli Isengard voce compresa, una nenia incomprensibile che sembra declamata da un Fenriz totalmente ubriaco. In Ausrzug aller Todich Seinen Krafte tutto cambia ancora una volta, i ritmi sono quasi al limite del doom ma su una lenta base tremolo picking e con la voce che si fa sempre più sinistra e maligna, mentre title track e outro si alternano tra urla disumane e rumori indefinibili su una base dark ambient. Un disco non per tutti sicuramente, ma per quanto mi riguarda resta ancora il miglior lavoro del duo olandese.
KOTIPELTO – Coldness
Barg: Timo Kotipelto non è mai stato ‘sto gran cantante. Molti di noi ci si sono abituati, o addirittura affezionati, perché ha cantato su alcuni dischi con cui siamo cresciuti e che ci sono rimasti nel cuore. Però, ecco, insomma. La sua carriera solista poi è stata brevissima (tre dischi in tutto, questo è il secondo) ed è nata e si è svolta nel periodo in cui Timo Tolkki stava dando seriamente di matto e quindi gli Stratovarius erano in condizioni pietose e con un futuro tutt’altro che roseo davanti. Anche da solista il nostro biondissimo eroe ha voluto rispettare il format del virtuoso ciccione alla chitarra e infatti ha chiamato Michael Romeo (che peraltro mi pare un bel passo avanti rispetto a Tolkki, in parecchi sensi), per il resto affidandosi a un paio di sconosciuti di fiducia e a un altro paio di solidi professionisti, ovvero Janne Wirman dei Children of Bodom alle tastiere e il prezzemolino finnico Mirka Rantanen alla batteria. Il disco alla fine scorre senza troppi intoppi, ci sono spunti abbastanza buoni e altri decisamente meno, e la voce di Kotipelto è più piatta e cantilenante del solito, ma in qualche modo l’atmosfera è familiare e rassicurante. Forse la migliore è Reasons, seppure nel mio iPod rimase per anni Can you Hear the Sound, canzoncina stupidina arrangiata da un bambino di cinque anni che mi si piantò in testa e ancora non accenna ad andarsene, mio malgrado.
LEVIATHAN/CREBAIN – Split CD
Griffar: Parlo di questo split più che altro per celebrare i Crebain, perché dei Leviathan abbiamo già scritto: il loro fast/slow/depressive/atmospheric eccetera black metal è una formula vincente, i brani presenti in questo split frantumano ossa, penso basti così. Per i Crebain il discorso è diverso: nati nel 2003 e con all’attivo solamente un demo (Night of Stormcrow, autoprodotto e poi ristampato in CD e picture LP) sono sempre rimasti un’entità oscura nell’underground statunitense, nonostante il traino di questo split con i Leviathan. Suonano un black psichedelico e straniante, non dissimile da quello di Xasthur ma più nitido, con suoni più definiti, meno slabbrati od offuscati da nebbie tossiche. I Crebain avevano un loro dannatissimo perché ed avrebbero meritato miglior sorte, anziché rimanere confinati in un limbo. I due gruppi si spartiscono in modo paritario i 65 minuti dell’opera, il che significa che i Crebain li possiamo gradire per mezz’ora abbondante di black metal indolente, cadenzato, marcissimo e sommerso da strati millenari di catrame e suoi derivati. A tratti diventano più aggressivi e veloci (Glorious Age of Satan) eppure fondamentalmente il loro territorio è il black lento, soffocante, velenoso, di quello che ti intossica fin dentro le ossa e causerà danni irreparabili. Secondo Metal Archives ancora attivi dopo tutti questi anni, oltre ai due dischi citati si ricorda solo un promo 2018, registrato comunque sei anni prima, e nient’altro oltre alle compilation che ripropongono i due lavori ufficiali oramai introvabili da tempo in versione originale.
MORRISSEY – You are the Quarry
Stefano Greco: Sette anni di silenzio e la generale percezione che fosse morto. You are the Quarry equivale a una resurrezione agli occhi di quelli che reputano il mancuniano effettivamente assimilabile al Messia. E, se un ritorno dall’Ade è per sua natura spettacolare, questo comeback non si fa alcun problema a sfoggiare qualsiasi effetto speciale a disposizione. You are the Quarry è il settimo sigillo che unisce cinismo, sarcasmo e romanticismo in maniera indistinta, un classico istantaneo che rappresenta in tutto e per tutto il cuore della sua poetica. Per l’occasione Steven Patrick Morrissey imbraccia un vecchio mitra e se la prende un po’ con tutti: dalla casa reale (vecchio rancore mai sopito) alle pop star, dagli americani fino ad Oliver Cromwell in persona, per concludere con una generica condanna a un po’ tutta l’umanità rea ai suoi occhi di essere di una noia mortale. Difficile dargli torto. In circa tre quarti d’ora il Moz canta luoghi, storie e sentimenti. E poi perdona anche Gesù Cristo in una celebrazione dell’assurdità dell’esistenza stessa. Probabilmente l’ultimo vero sussulto del più grande poeta vivente.
WYRD – Vargtimmen pt. 2: Ominous Insomnia
Barg: Su queste pagine si era già parlato dell’entità finlandese Wyrd, fondata e portata avanti per lungo tempo dal solo Narqath, che avrebbe poi cominciato ad inserire musicisti in formazione solo molto dopo il debutto. Questo Vargtimmen pt. 2 è il quarto album e segue di appena un anno il primo Vargtimmen (che aveva il sottotitolo di The Inmost Night) e non cambia di molto le coordinate dello stile consolidato nei precedenti, a parte forse un approccio più doom nella lunga apertura The Wicker Man, che dura tredici minuti ma avrebbe dovuto probabilmente fermarsi molto prima. Personalmente lo trovo inferiore ai primi due e grossomodo sullo stesso livello del predecessore; è un disco che mostra il suo lato migliore nelle parti più dolenti ed epiche, ma comunque troppo lungo e talvolta anche farraginoso, specie nelle parti più sparate che tendono a spezzare l’atmosfera. Ad ogni modo rimane consigliato per chi ama quel tipo di black metal da ascoltare mentre si cammina sotto una malinconica pioggerellina primaverile.
DARKTHULE – Beyond the Endless Horizon
Griffar: Si è giustamente detto che il black ortodosso greco suona spesso più nordico degli stessi scandinavi. Non fanno eccezione i Darkthule, alfieri del movimento NSBM ellenico che, ispirandosi ai primi DarkThrone, ne colorano lo stile con sfumature di pagan black, distante comunque dalle proposte dei Graveland o della scena polacca. Estremamente prolifici tra il 2002 (loro anno di nascita) e il 2006 con tre demo, due full, due split e due EP, nel tempo hanno rallentato il ritmo e, dal 2006 ad oggi, di inediti si contano solo tre partecipazioni ad altrettanti split e un EP. Beyond the Endless Horizon, debutto sulla lunga distanza, non ha bisogno di funambolismi per essere descritto: black metal veloce (non velocissimo) minimale, suonato con cuore e grinta senza pretese di tecnicismi, pregiati arrangiamenti od originalità di sorta. Uscito per la spagnola Battlefield records con i primi sei brani, venne ristampato tre anni dopo dall’argentina Dark Hidden productions assieme ai due primi demo come bonus track, arrivando al non indifferente minutaggio di 63 unità. Gli amanti di DarkThrone e affini ne saranno deliziati, chi non gradisce quel tipo di black metal ridotto all’osso è meglio che lasci perdere. Tutti i loro dischi sono democraticamente banditi su Discogs e quindi introvabili in versione fisica, ma si trova molta loro musica in digitale su Bandcamp. Affrettatevi, prima che anch’essi si accorgano che trattano tematiche NS e democraticamente li bannino pure loro. Risultano comunque ancora attivi, sebbene l’ultimo episodio originale Άπειρος Γη (un digi-CD in carta grezza, sigillato con la ceralacca e compact disc nero limitato a 100 copie, giusto per rendere l’idea) sia datato oramai 2019.
VINTERRIKET – Landschaften Ewiger Einsamkeit
Michele Romani: La prolificità di Cristoph Ziegler, colui che si cela dietro al progetto Vinterriket, oramai è cosa nota. Tra full, split, singoli ed Ep il musicista tedesco è arrivato anche a pubblicare 3-4 titoli nello stesso anno, e barcamenarsi nella sua infinita discografia non è mai stato facile. In soldoni Vinterriket si è sempre diviso tra black metal, dungeon synth e puro ambient atmosferico, quest’ultimo protagonista assoluto di questo Landschaften Ewiger Einsamkeit. Ammetto (come già detto in passato) di preferire di gran lunga Vinterriket in questa versione, in quanto i dischi propriamente black non mi hanno mai entusiasmato. Ovviamente è un genere ultrasettoriale che ha bisogno di uno specifico stato d’animo: quello che consiglio io è di ascoltarlo in casa, di notte, sfogliando le bellissime foto (fatte dallo stesso Ziegler) dell’elegantissima versione in A5 del disco, in modo da calarsi al meglio nelle sue atmosfere.
ISIS – Oceanic: Remixes & Reinterpretations
Bartolo da Sassoferrato: Oceanic: Remixes & Reinterpretations, che dire? È chiaro che, come ogni disco che propone remix, anche questa doppia raccolta (che rastrella anche alcuni pezzi già usciti in precedenza su altrettanti EP) corre incontro al rischio di essere una porcata assoluta. È chiaro che, essendo i pezzi originali provenienti proprio da Oceanic, il rischio è ancora più elevato. È chiaro anche che, uscita originariamente nel 2004, esordì in sordina, perché nello stesso periodo gli Isis stavano dando alle stampe Panopticon, un’opera di ben altro significato storico e musicale. Questa roba sembra fatta solo per rastrellare un po’ di grano. Detto questo, i brani di questo Oceanic: Remixes & Interpretations non sono male. Meglio detto, non sono tutti male. Accanto a porcate di livello assoluto troviamo invece pezzi reinterpretati in modo veramente magistrale. La musica degli Isis, in fin dei conti, si presta bene a rimodellamenti ambient e drone. Mettici poi che chi lavora a partire dal pezzo originale sino a cambiargli quasi completamente i connotati si chiama Tim Hecker, Venetian Snares, Justin Broadrick o Thomas Köner e si capisce che la qualità di certo non manca. Il resto, a cui si aggiunge purtroppo anche l’inutile rework di Weight da parte di un Fennesz veramente sottotono, è tranquillissimamente tralasciabile. Questi sono i dischi che ti fanno veramente apprezzare i servizi di streaming: metti in scaletta solo le cose degne, il resto lo cestini.
MYRDDRAAL – Falling Sky
Griffar: Il tempo oramai corre veloce, quindi molti di voi si saranno già dimenticati di quando celebrai i vent’anni dell’esordio Blood on the Mountain degli australiani Myrddraal. Lì citai il loro secondo e ultimo disco Falling Sky, lo definii interessante e oggi sono qui a ribadire la mia opinione. Interessante, non migliore del debutto. Si percepisce maggiormente l’influenza DarkThrone e Immortal, sia nei suoni che nella costruzione dei riff nelle parti veloci, e quando tirano sull’epico è vivida l’ombra delle ali nere di Quorthon. Intendiamoci, il valore di brani come l’omonima in apertura oppure la successiva Formation rimane immutato nel tempo, ribadendo come questi australiani avrebbero meritato miglior fortuna, vista l’abilità nel costruire canzoni insieme epiche e glaciali. Mantenendo un certo grezzume nei suoni, il gruppo alterna sezioni fast black ad altre meno irruente, addentrandosi con un certo anticipo anche in situazioni ambient/atmospheric, sottogenere che all’epoca stava muovendo i suoi primi passi di ibridazione con il black metal (Blood and Ashes part I ed altrove) ottenendo un risultato vario e diversificato, sicuramente degno di uscire dalla nicchia del più profondo, profondissimo, oceanico underground. Non è stato così, sappiate solo che questa è la vostra ultima occasione di sentirli nominare e di recuperare i Myrddraal, perché Falling Sky ne è il canto del cigno e non ci saranno ulteriori ventennali da celebrare. A meno che non utilizziate la funzione “cerca” nel blog, allora queste parole non saranno state scritte invano. Da parte mia non posso fare altro che ringraziarli, i loro dischi li custodisco con orgoglio nella mia collezione, con tutto lo sbattimento fatto per trovarli, poi…
BEFORE THE DAWN – 4:17 AM
Barg: Il secondo dei Before the Dawn è, come promette il titolo, un disco notturno. È diverso dal precedente (e dal successivo): ha meno impatto, meno incazzo, è più incentrato sulle atmosfere da sbronza solitaria malinconica. Lo stile rimane quello, la sezione ritmica è sempre dritta, i pezzi si basano sempre sui riffoni, ma questi sono più ovattati, soffusi, meno da pogo. 4:17 AM è un gran bel disco, approfondisce un lato dello stile dei Before the Dawn, ma è da intendersi come un tutto unico, non è divisibile in singoli pezzi, mentre gli altri tendevano a girare intorno a un pugno di pezzoni da concerto. Ma questa è una caratteristica, non un difetto, perché poi è tutto bellissimo come sempre. In quel tempo Tuomas Saukkonen era in stato di grazia e riusciva a trasmettere tutto ciò che voleva trasmettere. La storia non sarebbe andata avanti per troppo tempo, ma finché è durata, amici, che spettacolo.
