Musica da camera ardente #21

Cercando di capire insieme qual è lo stato di salute del neofolk odierno, qualcuno potrebbe arguire che, probabilmente, questo è un genere che non gode di grandissima salute ormai da un po’ di tempo, afflitto da una minore prolificità rispetto a un passato più recente o per qualche motivo messosi in disparte e progressivamente autorelegatosi ancora di più in quella nicchia cui appartiene dalla fine degli anni ’90. Ciò forse per non destare troppe attenzioni in un periodo storico, l’intollerante presente, che non vede troppo di buon occhio certe opinioni non perfettamente conformi a un certo modo superficiale, forzosamente importato e tutto tipicamente contemporaneo (quindi effimero e dal fiato corto – si spera), di vedere una realtà assurdamente scissa dalle determinazioni storiche che l’hanno condotta ad essere ciò che è. O forse ciò è anche da attribuirsi alle possibilità intrinseche del genere che lo portano rapidamente a lambire i suoi stessi confini, non superabili per presa di posizione ideologica e filosofica, costringerlo a tornare indietro, guardandosi allo specchio in un ciclo continuo che, come è facile intuire, è destinato presto ad affievolirsi, o esaurirsi per sopravvenuta penuria di quegli elementi chimici (culturali) che sono alla base della vita. O che forse si sta già esaurendo.
Grandi nomi del passato che per vari motivi, non ultimo la mancata rigenerazione di una minima ispirazione, rischiano di finire in un piccolo dimenticatoio personale, hanno già dovuto lasciare il proprio trono a realtà che quei confini, invece, provano a superarli non a fatica, andandosi poi a ritrovare in situazioni paradossali come quella che stanno vivendo i Rome in questi mesi. Che viene da pensare: se il loro nome fosse rimasto buono e tranquillo in quel piccolo cantuccio tutto ciò non sarebbe probabilmente accaduto, a nessuno sarebbe venuta voglia di approfittarne per monetizzare. Ma per fortuna non ci sono solo i Rome i quali, vuoi per la particolarità della proposta, vuoi per l’aver saputo trovare una cifra personale all’interno di un ambito che ha fatto del canone e della impersonalità la sua caratteristica fondante, sono da considerare più l’eccezione che conferma la regola.
Un altro nome che di solito viene fuori quando si fa riferimento al neofolk dal sound riconoscibile, che prova a sfondare il muro dei riferimenti stantii, è quello di Kim Larsen che con i suoi OF THE WAND AND THE MOON ha pubblicato un nuovo album dopo ben dieci anni di silenzio. Your Love Can’t Hold This Wreath Of Sorrow avrebbe dovuto rappresentare la boccata d’aria che si attendeva dopo la grande quantità d’ossigeno inalata con The Lone Descent nel 2011. Dato lo stato di salute del genere, che abbiamo capito non è morto, ma nemmeno si sente tanto bene, questo disco è oro. Da un punto di vista meno di contesto, non mi convince al 100% pur riconoscendovi tutti gli elementi che fanno parte delle personalissime capacità narrative di Larsen volte a proiettarci nel suo mondo sonoro, fatto di quella voce roca e sussurrata che sembra venire da fuori campo, di quel giro di basso, sempre lo stesso e pur sempre adeguato, l’uso moderato e non marziale di archi, campane e percussioni, finalizzati alla melodia insieme alle voci femminili di accompagno e all’immancabile sassofono, anch’esso suonato da dietro le quinte. Nei dischi di Kim Larsen di predominante non sembra esservi mai nulla, il tutto scorre piano e appianato, soft, non per decadenza ma per ineluttabilità. Cinque brani su dieci (i primi tre e gli ultimi due), che posso dire di aver apprezzato realmente, sono un po’ poco per farmene parlare con maggiore entusiasmo.
Verso la fine dell’anno scorso i DARKWOOD davano alle stampe un nuovo disco. Un po’ perché occorre che i tempi interiori siano maturi per ascoltare determinate cose, un po’ perché con l’anno nuovo ricomincia l’infaticabile inseguimento alla novità, Twilight Garden era passato sotto silenzio. La creatura di Henryk Vogel, da par suo, appartiene a quella categoria di immarcescibili band di martial neofolk che riesce a resistere allo scorrere del tempo, al passare delle mode, alle bordate ideologiche del momento, nonché a sé stessi, cioè al difetto intrinseco di un genere che, come detto, non ha grandi sbocchi al di fuori del suo recinto dorato. Che è dorato perché lo si è costruito con cose ritenute preziose, idee e riferimenti culturali che si vuole preservare dal logorio della vita moderna, come diceva la famosa pubblicità. La storica band di Dresda, oggi che realtà analoghe quali Sonne Hagal e Forseti sono diventate silenti, rappresenta un baluardo a difesa di quel modo di fare musica che sembra più nessuno sia capace di fare senza strizzare eccessivamente l’occhio al passato remoto (inevitabile citare i primi Current 93, Death in June e Sol Invictus) e senza provocare pesanti sbadigli o, ancora peggio, infilarsi in sperimentazioni che personalmente non riesco mai a mandare giù.
Quest’ultimo album è meno oltranzista e ortodosso dei diretti predecessori Schicksalsfahrt e Ins Dunkle Land, che io preferisco come tutti gli album dei Darkwood cantati in tedesco per il semplice fatto che sono cantati in tedesco, nei quali si sente predominate il riferimento alle tematiche natie del ritorno alla patria e alla natura e che in lingua madre suonano più convincenti (sempre caro fu ad Henryk quell’ermo Wandervogel). Twilight Garden è un ottimo album che riesce ancora a tenere alta l’attenzione del neofolker più tradizionalista ma che si lascia andare anche a leggere variazioni sul tema mai eccessive e fuori luogo. Il tutto poi, registrato e prodotto ad arte, è reso godibile dalla varietà di archi, voci ed altri strumenti utilizzati, quali la fisarmonica e la tromba militare. A chi, eventualmente, non conosce ancora la band io consiglio sempre di iniziare da Notwendfeuer, il mio preferito, ma va benissimo anche Flammenlieder, una raccolta pubblicata qualche anno fa, ideale per farsene una minima idea per poi approfondire. (Charles)