MARK OSEGUEDA, ti devo dire qualcosa di molto importante

Di quell’aneddoto scrissi giusto due righe in un articolo sulla prostituzione e sui Marduk, e pensai: prima o poi questa cosa con Mark Osegueda la approfondisco. Prima o poi, appunto, ti capitano dei momenti che ti fanno sentire metallaro. Sensazione difficile da spiegare, ma è esattamente così che funziona e uno dei più piacevoli episodi che io mi ricordi, ebbe a che fare con il cantante dei Death Angel.

Anno duemilaetre, No Mercy Festival di Milano. Se non erro eravamo all’Alcatraz. Il bill è il meno estremo e più casualmente assortito che quella manifestazione abbia mai tirato fuori; ci sono i Testament preceduti dai Marduk, un sacco di roba melodica come Darkane e Die Apokalyptischen Reiter, i Pro-Pain ed i Malevolent Creation o qualunque formazione Phil Fasciana andasse spacciando per essi. E poi c’è il thrash metal, in quantità incontenibili, inteso come Nuclear Assault e Death Angel. Prima e dopo è una caccia perpetua ai tour bus per incontrare i nostri beniamini, e ce la facciamo con tre gruppi: i due principali, e la sorpresa finale con tanto di birra in mano. Tentiamo di rompere gli indugi – o le palle – con i Marduk: pittati in faccia e completamente alla mercé della fica, per non perdersi un generoso fingering ci terranno alla larga come mosche che hanno adocchiato un pezzo di carrè di vitello messo al sole. Legion se la tira in una misura inaccettabile, ma sarà l’ultima occasione che avrò di vederlo suonare con loro. Poi ci sono i Testament, Chuck Billy è un gran simpaticone e Steve Di Giorgio una di quelle cose metafisiche che ricordo dalle foto dei booklet: da Swallowed In Black passando per Individual Thought Patterns, ricorre questo tizio che sembra un hippie e che andrebbe visto di persona. Esiste davvero? Adesso è lì e non si atteggia nemmeno a star, mentre il resto della line-up trascende quasi totalmente da quella di The Gathering. Dave Lombardo non c’è, mentre James Murphy è stato sostituito dall’onnipresente Steve Smyth. Il loro concerto non mi è neanche piaciuto, sicché mi tengo a mente l’incredibile prova offerta dai Death Angel: loro sì che sembravano posseduti, The Art Of Dying era sempre più vicino e nel frattempo c’eravamo goduti Kill As OneVoracious Souls da due passi. Mentre barcollo su un marciapiede con una birra annacquata nell’infame bicchiere di plastica, canticchiando beatamente la terza traccia del bellissimo The Ultra Violence, vedo questo tizio che mi fissa, sorride e poi viene ad abbracciarmi. E mi fa, I know that song! Era Mark Osegueda: cinque minuti a chiacchierarci elogiando il loro mostruoso concerto, cinque minuti con un personaggio fantastico dopo i musi lunghi di Eric Peterson – il che è tecnicamente inaccettabile dopo che ci hai dato in pasto i Dragonlord – e Morgan Hakansson.

E poi sono arrivati i dischi dei Death AngelThe Art of DyingKilling Season, e a ruota tutti gli altri. In attesa di sentirmi il nuovo – di cui si occuperà ancora Cesare Carrozzi – io un po’ preoccupato lo sono. Non che i loro lavori attuali siano brutti, è che non li riconosco più: hanno perduto quell’energia figlia di Act III e che fino a Killing Season aveva un po’ tolto spazio al thrash metal più tagliente, ma preservato la loro inconfondibile identità. Con questo non vado bramando un ritorno alle cose incise con i The Organization o gli Swarm, ma i primi Death Angel dopo la reunion – sebbene fossero un po’ confusionari sul da farsi – erano certamente più vivaci e accattivanti degli odierni. Ora hanno i pezzoni, come The Moth oppure Lost, i ritornelli ruffiani accalappiapischelli di Claws In So Deep, un batterista bravo come tanti altri che rammento giusto per un disco fatto con i Warning SF. Relentless Retribution ricordo benissimo che in un paio di punti tirava fuori quei riff simil-black melodico che mi fecero uscire il sangue dal naso coi Dragonlord, ed è assolutamente ciò da cui il gruppo di Mark Osegueda dovrebbe tenersi alla larga. Pestate pure un po’ meno, ricacciate dentro a forza Andy Galeon ma vi prego: fate i Death Angel, che di gruppi così ce n’è in giro un esercito. Nonostante un titolo come The Dream Calls For Blood mi fosse pure piaciuto, ho sempre la sensazione – confermata dai due inediti ascoltati nei giorni scorsi – che in particolar modo Rob Cavestany sia impegnato a suonare il thrash metal più tosto che gli riesca di produrre, a discapito della firma indelebile con cui marchiò pezzi come 3rd Floor o la più recente Lord Of Hate. Fate a modino, ci tengo. E per ribadirlo mi sono riascoltato Frolic Through The Park proprio stamani: bello, con quell’estro indomabile e quei passaggi un po’ funky che paradossalmente mi mancano. Animali in studio e soprattutto sul palco, oggi specie da proteggere dai consueti cliché del cazzo dei quali ce le ho sicuramente piene. (Marco Belardi)

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