Avere vent’anni: febbraio 1995

ULVER – Bergtatt

Trainspotting: è chiaro che voglio scrivere due righe su Bergtatt soprattutto per parlare del teorema degli Ulver: “buoni i primi, merda tutto il resto”. Queste due semplici frasette possono essere adattate alla maggior parte dei gruppi, vero, ma gli Ulver le hanno portate al parossismo. Bergtatt, il loro debutto, entrerebbe di diritto nelle classifiche dei dieci dischi migliori di tutti i tempi sulle riviste mainstream, se questo fosse un mondo perfetto e non la melma in cui cerchiamo di sopravvivere. I due successivi sono bei dischi, ma in ordine decisamente discendente. Poi? Che è successo? In che anno siamo? Ascoltare Bergtatt adesso, a quasi vent’anni di distanza da quando l’ho ascoltato la prima volta, e pensare alla discografia post-Nattens Madrigal, dà una sensazione di straniamento tipo il risvegliarsi in albergo dopo una sbronza il primo giorno di vacanza e non essere sicuri di cosa sia successo esattamente e del perché non hai mai visto quelle lenzuola prima in vita tua. Ho davanti agli occhi ora la lista di titoli che hanno tirato fuori negli ultimi quindici anni e ci sono cose che non sospettavo minimamente che esistessero. E io non discuto che possano piacere, per carità, non potrei mai dire questo: non ho sentito quasi nulla di tutta quella roba. Fa solo un po’ strano, ecco, che un gruppo capace di comporre uno dei dischi più belli di sempre poi abbia avuto quell’evoluzione. Non ho parlato molto del disco in sé perché non esistono parole per descrivere Bergtatt o, se esistono, io non le conosco. This is the magic that a name would stain.

Enrico: Bergtatt è un album talmente immenso che trovare parole degne di tale bellezza risulta quasi impossibile. Se siete metallari, sapete di cosa parlo. Se non siete metallari, lo diventerete al primo ascolto. Amen.

UNLEASHED – Victory

Luca Bonetta: Sono legato agli Unleashed da un sentimento di affetto paragonabile a quello che molte persone nutrono per gli Iron Maiden. Intendiamoci, pure io sono un fan della Vergine di Ferro ma per questioni di gusti e mentalità sono più legato, concettualmente e “filosoficamente”, ad altri tipi di band. Gli Unleashed per me sono una di quelle garanzie che, nonostante l’incedere degli anni e il passare delle stagioni, rimangono inalterate. Cambiano gli amori, cambiano gli amici, ma Johnny Edlund è sempre Johnny Edlund. Victory è il quarto full di questi svedesi ed è forse l’unica vera variazione stilistica che gli Unleashed abbiano mai compiuto in più di vent’anni di carriera. Prese le distanze dalle sonorità prettamente swedish dei lavori precedenti, i Nostri variano su un sound di stampo molto più motorheadiano, meno intricato stilisticamente e dannatamente più festaiolo e sfascione. L’anima death metal rimane e si sente tutta, ascoltare Legal Rapes per rendersene conto, ma l’atmosfera è in generale molto più disimpegnata. Mi piace pensare che questo disco sia nato durante un paio di sessioni in sala prove, tra qualche cazzata con gli amici e svariate lattine di birra. Buon compleanno, Victory

strato

STRATOVARIUS – Fourth Dimension

Cesare Carrozzi: Ricordo che quando uscì The Fourth Dimension mi piacque molto ma non quanto il precedente Dreamspace, pur essendo davvero un bell’album, suonato e prodotto sicuramente meglio. È che gli Stratovarius con l’innesto di Kotipelto alla voce già si stavano avviando a diventare, da gruppo di ultra-nicchia, uno di quelli di punta dell’esplosione power metal che a cavallo degli anni novanta del secolo scorso dominava la scena metal europea, e la cosa non è che mi piacesse molto. Intendiamoci: ho amato ed amo tutt’ora gli Strato di Episode, Visions e Destiny. Ma i primi tre album erano davvero qualcos’altro, unici se vogliamo, pur con tutti gli evidenti limiti di una formazione che era ben lontana dalla perizia tecnica di quella mostrata da Episode in poi, ma evidentemente coesa attorno alla capacità compositiva di un Tolkki assai ispirato, sia a livello melodico che di scelta dei suoni. Per dire, sarà pure vero che Antti Ikonen tecnicamente non vale un mignolo di Jens Johansson ma, amici miei, che suoni, che atmosfere. Vabbè. Comunque, per tornare a The Fourth Dimension, pezzi come Galaxies, Winter, per non parlare di Distant Skies o Against The Wind oppure ancora Twilight Symphony, sono dei piccoli capolavori. Certo c’è anche qualche caduta di stile, vedi 030366 (che poi è un tentativo mal riuscito di scimmiottare i Queensryche di Screaming In Digital) oppure la strumentale Stratovarius (per carità…), ma in ogni caso The Fourth Dimension fotografa gli Stratovarius in una fase, seppur musicalmente transitoria, di assoluta qualità. Se state leggendo queste righe io vi consiglierei di riascoltarvelo sto disco per il ventennale dall’uscita. Poi come vi pare. (Cesare Carrozzi)

Trainspotting: Questo disco è bellissimo. Davvero si potrebbe finire di parlarne qui perché Fourth Dimension, come uno qualsiasi dei vecchi dischi degli Stratovarius, per essere compreso ha semplicemente bisogno di essere ascoltato. Belle melodie, semplici, senza troppi orpelli, che si susseguono secondo le strutture classiche della forma canzone: a quei tempi il talento compositivo di Timo Tolkki riusciva incredibilmente a far passare in secondo piano i suoi gusti musicali tremendi, e quando questi ultimi diventavano troppo evidenti lui riusciva nonostante tutto a trasformarli in oro, come succede, ad esempio, in We Hold The Key. Eppure gli Stratovarius, gruppo di riccardoni con le influenze musicali sbagliate e capace di comporre in fondo solo semplici canzoncine (tanto che i vari tentativi di fare delle suite oltre i dieci minuti sono quasi sempre falliti miseramente), alla fine diventarono uno dei gruppi più influenti e in definitiva migliori della storia ormai trentennale del power metal. Ma c’è un punto fondamentale che li ha resi unici: gli Stratovarius introdussero nel power metal la malinconia e il senso di vuoto, percepiti e subiti a volumi insostenibili; e Fourth Dimension, nonostante sia il primo con Kotipelto e il primo che inizia a staccarsi definitivamente dal limbo dei primi tre dischi, è intriso di quel pessimismo cosmico e quell’horror vacui che solo la Finlandia ha dimostrato di saper trasmettere fino in fondo.

slowdive

SLOWDIVE – Pygmalion

Enrico: No, cari amici: anche se la prima traccia s’intitola Rutti, questo non è un disco dei Nanowar. Pygmalion esce in piena esplosione britpop e consacra gli Slowdive come uno dei gruppi più importanti e sottovalutati degli anni ’90. La genesi dell’album ricorda, mutatis mutandis, quella di Dopesmoker degli Sleep: l’etichetta bramosa di sfruttare il trend del momento, un contratto da rispettare, tanta droga da consumare e una band caparbiamente intenzionata ad andare per la sua strada. Quello che ne esce fuori è un lavoro bellissimo, ipnotico, pressoché ignorato dalla critica (e dal pubblico) dell’epoca. Pochi accordi ripetuti all’infinito, loop che s’incrociano turbinando in un’atmosfera rarefatta e onirica, vibrazioni elettroniche fluttuanti tra sogno e realtà. Gente come Radiohead e Sigur Rós attingerà a piene mani da questo meraviglioso flop commerciale, inevitabile fine della storia degli Slowdive e insospettabile inizio della loro leggenda.

KATAKLYSM – Sorcery

Luca Bonetta: C’erano una volta i Kataklysm, realtà del sottobosco canadese dedita ad un death metal ferocissimo ed intricato, travolgente come poche cose all’epoca. Dico c’erano perché col tempo, diciamo da quel Shadows & Dust del 2002, i Nostri pare si siano adagiati su coordinate molto più (passatemi i termini) mainstream e commerciali. Ad oggi i Kataklysm suonano un death metal dai fortissimi rimandi melodici, catchy da risultare stucchevole e, cosa più grave, risultano inoffensivi come un cucciolo di foca monaca. In principio non era così, e proprio il debutto Sorcery che questo mese taglia il traguardo della seconda decina di vita è forse tutt’ora il lavoro migliore partorito dalla band del corpulento Maurizio Iacono. Arrangiamenti che tradiscono più di una volta l’ingenuità di una band ancora agli inizi, cosa perdonabilissima se contestualizzata all’interno di un disco che, pur sfiorando a tratti la cacofonia pura, racchiude una cattiveria e un impatto sonoro che i Nostri con il tempo perderanno complice, forse, l’ingerenza di mamma Nuclear Blast che, come il proverbiale lupo, non perde mai il vizio di traviare le band sotto la propria ala.

LACRIMOSA – Inferno

Charles: Da ragazzino conoscevo alcune persone più grandi di me che se ne andavano in giro conciate in modo strano, pantaloni di pelle nera, eyeliner nero (pure i maschi), ma con occhiaie più marcate del normale, questi capelli tirati su a forza e catenelle ovunque. Solo in seguito capii l’origine di quelle occhiaie, ma vabbé. I miei compaesani, provinciali, o li scansavano o li insultavano. Avvicinarli, farsi spiegare perché questo modo di conciarsi e rimanerne affascinati per sempre è stato veramente un attimo. Diventare drogato di The Cure è anche un attimo. Poi cresci, arriva il metallo, esci dalla provincia e un bel dì ti capita questo dischetto tra le mani, bianco e nero (bellissime le tavole di Stelio Diamantopoulos), che è gothic, darkwave e metal allo stesso tempo. Parecchio teatrale, forse troppo per le immediatezze a cui eri abituato, e poi che è ‘sta novità? Cantato in tedesco? Suona forzato! Tutto a un tratto, però, ti torna alla mente tutto quel mondo di gente strana, coi capelli dritti e le catenelle, che avevi messo da parte perché il metallo ti aveva ormai conquistato. Insomma, riparti da quei dischi e cominci pure a capirli sul serio. E’ andata più o meno così. Inferno, titolo evocativo, metal ma non troppo, sinfonico senza esagerare, dark nell’estetica e nel gusto dei testi (ricordo che rimasi affascinato dal duetto in No blind eyes can see), conteneva alcuni dei pezzi più belli in assoluto dei Lacrimosa, tipo Versiegelt glanzumstromt, Schakal e Der kelch des lebens (assolutamente stupenda). Stille sarà di un altro pianeta ancora, ok, ma Tilo Wolff e moglie venivano da tre album più ‘classicamente’ dark, quindi meno interessanti dal punto di vista di un metallaro. Qui si inizia a ragionare. Negli anni successivi continuerò a seguirli e verrò per questo anche perculato dai certi miei colleghi, perché ascoltare un gruppo che si chiama Lacrimosa non è affatto TRVE. Ma loro non hanno ben compreso l’importanza di rimanere collegati a quel mondo oscuro fatto, tra le altre cose, di belle coticone, chiappone e ciacione da club. Cose che apprezzi solo col passare del tempo.

24 commenti

  • porca merda, tranne slowdive e lacrimosa, tutti quei dischi li ho consumati, soprattutto victory e fourth dimension.

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  • Io invece sono estraneo a tutto quel che leggo qui. Buon ri-ascolto!

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  • Non condivido il teorema degli Ulver. I primi tre dischi hanno fatto la storia del metal e sono tuttora di qualità irraggiungibile, ma gente che ha le palle di passare da quello alla drum ‘n’ bass ad un disco di cover rhythm & blues con un’orchestra, e tutto in maniera convincente, può essere definita in un solo modo: artisti. Anche a me non piacciono gli album successivi a “Nattens Madrigal”, ma non posso che inchinarmi di fronte alla personalità di un gruppo come gli Ulver. La Norvegia non ha sfornato altri musicisti parimenti eclettici.

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  • Io sono dell’opinione che una svolta audace come quella degli Ulver sia più rispettabile rispetto a chi si adagia sui vecchi successi o chi si limita a fare album identici alle uscite di 20 o più anni fa. Sbaglio o siete un po’ insofferenti verso quasi ogni forma di musica elettronica? Lo dico perché fra i miei conoscenti cose come Perdition City o Shadows of the Sun sono apprezzate trasversalmente, anche da chi, come me, ascolta più volentieri Bergtatt o Nattens Madrigal.

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  • Non per fare il trve de sto cazzen a tutti i costi, ma mi piacerebbe sapere cosa minchia c’entrano gli Slowdive fra Unleashed, Kataklysm e compagnia pesante. Avrei capito se fosse stata una rubrica per gruppi più “alternativi” (per usare un termine stupido ma almeno così ci capiamo), dove avrebbe avuto un senso accostare loro e gli Ulver…ma sinceramente, così com’è stata presentato e in questa sede, l’accenno agli Slowdive lo trovo completamente decontestualizzato. Sinceramente puzza abbastanza di hipsterismo spinto, visto che dopo la reunion la band è tornata sulla cresta dell’onda e fa figo sbandierarli ovunque, anche lì dove non c’entrano na mazza

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    • Suppongo tu sia un lettore nuovo o sporadico, altrimenti sapresti che questa rubrica (così come questo blog in generale) ha come unico criterio i nostri gusti personali. Ci stanno gli Slowdive perché uno di noi si sente legato a quel disco e ne ha voluto parlare, così come nella prossima puntata ci saranno i Morphine e così via. Non ci interessa se sembra che “non c’entrino”, uno di noi ha desiderato scriverne e quindi c’entrano. E poi, scusami, ma trovo deprimente e buffo allo stesso tempo questo approccio ‘retropensierista’ in base al quale se una cosa ‘non torna’ dietro ci deve essere per forza un atteggiamento o una posa. Avrei dovuto rispondere a Enrico, che aveva proposto 10 righe sugli Slowdive, “non c’entrano e poi la gente pensa che siamo hipster perché ora va di moda rivalutarli”? Se mi ponessi problemi del genere, sarei davvero un imbecille.

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      • Potete scrivere quello che vi pare come vi pare ma “Per noi di Metal Skunk, quasi tutti abbondantemente trentenni, questo numero ha pesanti risvolti simbolici perché fu proprio in quel periodo, anno più anno meno, che cominciammo ad ascoltare il METALLO. Quindi è grossomodo vent’anni che siamo METALLARI.” (maiuscolo mio, naturalmente) l’avete scritto voi, non io. Quindi, o bisognerebbe correggere il tiro affermando che in questa rubrica non si vuole celebrare solo il metal ma anche qualsiasi altro tipo di musica al quale si è legati, oppure il sospetto di “hipsterismo” (rivolto non a tutti coloro che scrivono su MS ma limitatamente ad una persona, visto che mi baso su quello che ho letto) non è poi tanto campato in aria. Se Enrico Mantovano nel 1995 ascoltava davvero gli Slowdive buon per lui

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    • mi permetto di aggiungere che l’ascoltatore di musica pe(n)sante (o almeno quelli che frequento io) è una persona che ama più generi musicali oltre all’heavy metal, generi sui quali si è formato e sui quali si sono formate anche molte delle band che definiamo strettamente heavy metal, quindi non ci vedrei niente di male se oltre ai ‘classici’ qualcuno volesse recensire un qualsiasi disco di grunge, rock alternativo, blues, elettronica, jazz o che ne so, musica classica

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      • Forse non mi sono spiegato. Il punto della questione non è questo ma ciò che ho fatto notare a Ciccio col mio secondo post

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    • Credo che il senso di AVERE VENT’ANNI sia rendere omaggio ai dischi del 1995 che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a renderci quelli che siamo. Come spiega Trainspotting nella parte dell’introduzione alla puntata di gennaio da te non citata (e, forse, nemmeno letta), “ciò che muove l’intera operazione alla fine è l’affetto”: tutto qui.
      Io senza gli Slowdive non mi sarei mai avvicinato a gente tipo Loop o Alcest o My Bloody Valentine o un sacco di altra roba che ho amato e amo, motivo per cui ho ritenuto coerente con lo spirito della rubrica proporre due righe su “Pygmalion”. Se ciò significhi peccare di “hipsterismo”, onestamente non lo so. Ma confesso di non sapere bene neanche cosa significhi “hipsterismo”.

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  • solo qualche riga per rispondere alle critiche di vario genere che ho letto, anche su altri lidi, su ciò che ho scritto riguardo a bergtatt. volevo specificare che io non ho mai criticato i dischi degli ulver post-NM anche perché, molto semplicemente, non li ho mai sentiti. dopo perdition city avrò sentito qualche nota qua e là per caso, per sbaglio o per curiosità. non è roba che mi interessa (non perché ‘non è metal’ o ‘è elettronica’, eh), quel poco che ho sentito non è la mia tazza di tè e non ho nessun tipo di giudizio da dare al riguardo. l’ho scritto chiaramente nell’articolo, peraltro.

    ‘avere vent’anni’ è una cosa scritta col cuore e basta: se avessi dovuto scrivere una retrospettiva sugli ulver avrei usato un tono completamente diverso. ho semplicemente voluto descrivere il senso di straniamento per un gruppo che, dopo i primi tre dischi, si è dato a qualcos’altro in modo talmente originale e ‘strano’, appunto, che non ti fa neanche salire la bestemmia come succede per altri gruppi che magari hanno semplicemente cominciato a fare schifo e basta.

    la mia non è ‘arroganza’: è semplice candore. io qua sopra scrivo esattamente quello che direi se fossimo intorno a un tavolo con le birre e stessimo parlando di musica. altri siti, rispettabilissimi e completamente diversi da MS, hanno un approccio più ‘istituzionale’ e paludato: le recensioni hanno voti più alti, ci sono i track by track, un vocabolario di 500 parole, si fa molta attenzione a non urtare la sensibilità di chi legge e c’è un sacco di pubblicità dei venditori di magliette. c’è chiaramente bisogno anche di quel tipo di siti (noi stessi li consultiamo per informarci), ma MS non c’entra niente con quelle cose lì: metterli a paragone perché entrambi parlano di metal è come dire che il frullatore e la lavatrice sono la stessa cosa perché dentro c’è un coso che gira. quei siti sono come il conoscente cinquantenne con la maglia degli emerson lake & palmer che prende sul serio tutto, ride raramente, non dice mai parolacce e ha una conoscenza enciclopedica su qualsiasi cosa, che sia il thrash anni ’80 o i cambi di formazione degli epica. MS è l’amico fattone di vecchia data con cui vai a fare il barbecue e che, se ti piace un gruppo che a lui fa schifo, prima ti manda affanculo ridendo e poi ti versa un’altra birra. sono due stili complementari e assolutamente non in competizione tra loro. penso che molte delle critiche che riceviamo vengano dalla mancata consapevolezza di questa differenza.

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    • Porca di quella vacca se non è così Trainspotting. E meno male. Io non ascolto nulla di questo thread, ma leggo tutto avidamente, e dopo un ventennio di recensioni track-by-track (fatte anche loro col cuore, eh) ho scoperto il lato caciarone del metal (per me è solo il metal, del resto importa sega) e ne sono ultra contento. Avanti così.

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  • Non che c’entri davvero, ma ‘sto Fosch Fest??? Poi lì con un bel rinforzo di vino cattivo si può parlare quanto si vuole del fatto che degli Ulver post-Nattens Shadows of the sun sia un disco perfetto da palpebra a mezz’asta sul divano. A garanzia di questa possibilità dico che lo stesso vinaccio ha permesso ad un mio amico di tenere un’arringa di mezzora almeno sulle alterne fortune di Arntor e Ivar Dåpe: fomentato come se quelle cose le avesse appena viste succedere lì fuori, ed interamente in “inglese” a mio cugino quindicenne che, fino ad allora, “non aveva la benchè minima idea dell’esistenza di un movimento di capelloni alcolizzati suomi vittu perkele che inneggiano al suicidio” [cit] e di conseguenza lo guardava con gli occhi fuori dalle orbite.

    PS: mi scuso di un eventuale doppio post ma credo che il mio telefono non abbia proprio inviato il primo tentativo.

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    • Joe Stromboli

      l’unico problema del fosch fest di quest’anno è che il 9 agosto ci sono i carcass però contemporaneamente ci sono gli obituary all’agglutination dall’altro capo dell’italia….scelta difficile….AIUTO!!!

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