I nuovi standard: KATAKLYSM – Meditations

Avete presente il giochino dei pro e dei contro? Se lo si facesse coi Kataklysm l’elenco penderebbe sicuramente dalla seconda parte, ma per certi aspetti devo comunque essere riconoscente verso i canadesi: un po’ perché intervistai Maurizio Iacono ai tempi di Shadows & Dust e fu una delle chiacchierate telefoniche più piacevoli che io ricordi, e un po’ perché, senza fare troppo il complicato o l’esigente, i loro dischi compresi fra The ProphecySerenity in Fire erano piuttosto accattivanti. Semplici, diretti e sorretti dalla inconfondibile voce dell’italoamericano, nonché dalle loro caratteristiche bordate di batteria.

I problemi dei Kataklysm sono principalmente due. Il primo è il fatto che, una volta trovata la ricetta vincente, sono entrati un po’ troppo in pilota automatico, e in pratica fino al penultimo Of Ghosts and Gods si notava più che altro il subentro alla batteria di un’autentica macchinetta come Olivier Beaudoin. Per entrare in dettaglio, il loro è un batterista che non mi piace affatto: ha tecnica da vendere ed è impostato oltre misura, ma non trasuda un briciolo dell’energia che il picchiatore di lungo corso Max Duhamel era stato in grado di liberare, come da manuale del metal estremo. Beaudoin è freddo nell’esecuzione, e più avanti vi ripeterò che nell’ultimo album si è anche ritrovato abbandonato ad una produzione un po’ troppo confezionata, e, nel caso dei suoni di cassa, ai limiti del ridicolo. Non noto inoltre una particolare differenza fra la maggioranza degli album dei Kataklysm che hanno seguito Epic – The Poetry of War: cambiano i tempi, il modo di produrre, e, in piccolissime dosi, la formazione. Il fatto è che Iacono e Dagenais si sono ben guardati dallo spostare troppi elementi sulla scacchiera, una volta capito che cosa – della loro proposta – piacesse al pubblico.

Personalmente non ne ho neanche mai compreso lo status di death metal band di punta, anzi attribuisco il tutto al fatto che, a inizio anni Duemila, i Kataklysm avessero azzeccato una mossa rivelatasi poi decisiva. Infatti, in un momento in cui il black melodico da vetrina godeva di ottima popolarità (MidianPuritanical Euphoric Misanthropia), facevano il botto i Die Apocalyptischen Reiter, un volpone come Martin Schirenc lanciava gli Hollenthon, ed avevi un seguito pure se ti chiamavi Orphaned Land ed eri israeliano – quindi tagliato fuori dalle migliori scene – anche uno scemo avrebbe capito che il trucco era quello di mescolare saggiamente le carte, a prescindere da dove provenissero le sue radici. Ad esempio, avrebbe funzionato più che discretamente un vago retrogusto black infilato in un contesto principalmente death metal, ma non troppo pesante altrimenti la gente sarebbe scappata, e con un riffing di base solidamente appoggiato su basi classiche. Non potevi sbagliare, Iacono, ti avrebbe ascoltato chiunque anche se non producevi niente di eccellente: e il fatto che quei tre o quattro dischi in rapida sequenza fossero risultati buoni, fece eccome la differenza. Il problema fu il rimanere stanziali, sulla stessa mattonella alla maniera di un Tony Iommi ai concerti, mentre il tempo scorreva. 

Se come ho detto sopra, i limiti di fondo dei Kataklysm erano principalmente due, e il nuovo album Meditations finisce per rappresentare il terzo, poiché i canadesi si sono messi a suonare alla maniera di tanti figli o nipotini contemporanei dell’ideologia mescolona che ho descritto prima. Il che è naturale: negli anni del boom di Gojira e Arch Enemy, è accettabilissimo che se ne prenda spunto anche se si è dei veterani provenienti da un’epoca lontana e concettualmente distante. Aggiornare la propria musica al passo con i tempi non è né un peccato, né uno sbaglio: il guaio è che molta musica odierna – prendete come esempio cosa cazzo sono diventati i Kreator nel decennio corrente – suona come un banale compendio che potrebbe essere tranquillamente generato da un programma: che ci metto? Infiliamoci il riff spezzato, la voce cattiva senza che sia qualcosa di troppo disturbante, la linea di chitarra heavy metal che più heavy metal non si può, e già che ci siamo apriamo le danze con un blastbeat tanto per mettere in chiaro come stanno le cose (anche se in realtà, a conti fatti sarà esattamente il contrario). Non mancherà qualche lead di chitarra clamorosamente ruffiano, un suono di batteria di merda da quant’è pulito e pompato, ed ecco che il disco metal degli anni Dieci, preconfezionato e senz’anima, è bell’e pronto. Così ragionano ormai un sacco di gruppi: compongono in base a ciò che il pubblico vuole per attirare nuovi fan e non rimanere obsoleti, e producono i dischi con budget relativamente bassi perché la tecnologia ormai ti permette risultati puliti con poca grana, tagliando le gambe alla bravura dei produttori, figura professionale ormai quasi scomparsa. In questo modo il nuovo Kataklysm finisce per suonare come il nuovo Kreator, quello degli Arch Enemy e tanti altri ancora. Non importa a quale genere tu appartenga, finirai per condividere riff e melodie simili, e per avere la stessa batteria con due musicisti diversi e gli stessi cliché derivanti dal voler suonare “pesante ma melodico”, firma opinabile di etichette monstre come Nuclear Blast.

I Kataklysm sono finiti esattamente in questo calderone: uscendo dal pilota automatico dei precedenti album, abbassano il livello di sfuriate batteristiche e ricercano un maggior groove, con una produzione che avrei accettato piuttosto su Digimortal dei Fear Factory: una continua alternanza fra riff moderni e spezzati ed atmosfere più cupe. Non si tratterebbe neanche di un brutto album, anzi qualitativamente lo preferisco agli ultimi tre. Ma è l’anima a mancargli del tutto, suona preconfezionato e standardizzato, e sono certo che in futuro non avrò alcuna voglia di rimetterlo su. Spicca, semmai, un buon trittico conclusivo (chiuso da Achilles’ Heel che sarebbe anche il miglior brano, non fosse per certe melodie un po’ troppo reiterate e leggerine) oltre alla discreta opener Guillotine ed al break di Narcissist in cui le linee di basso finalmente pulsano come dannate. Il pro è che finalmente sento suonare i Kataklysm in maniera sostanzialmente diversa. Il contro, riassumendo, è che tecnicamente parlando quest’album è stato già fatto, sotto forma di altre sequenze di note, ma in una sostanza davvero troppo simile, da un sacco di gente in giro da anni; ascoltatevi un pezzo come Outsider e poi ditemi se non è così.

I nuovi standard del metal estremo: ciò che un tempo aveva lo scopo di raccapricciare, spingere oltre i limiti ed inveire, e che oggi è semplicemente diventato – per molti ma per fortuna non per tutti – un prodotto destinato a chiunque, smussato nelle sue imperfezioni e ad alta digeribilità. (Marco Belardi)

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