Frattaglie in saldo #19

Rabid-MR2

Tra un po’ dovremo assolutamente festeggiare, Frattaglie in saldo sta per raggiungere il ragguardevole numero di venti puntate, un lungo percorso formativo presieduto da Ciccio Russo, che ha deliziato i nostri palati parlandoci di gruppi death metal  austro-ungarici che conosciamo solo io, lui e l’irraggiungibile Luca Bonetta, che ha dimostrato di essere una sorta di jukebox vivente del death metal contemporaneo.

Nel tempo libero di solito discutiamo dei PATHOLOGY, che ci piacciono molto anche se non hanno origini austro-ungariche. In realtà questi giovinotti risiedono a San Diego, una città particolarmente fertile per il brutal death metal, il genere di musica che più sentiamo come nostro. Sostanzialmente la band di Dave AstorTim Tiszczenko (gli unici due superstiti della formazione originaria) registra e pubblica un disco ogni anno, con le dovute variazioni sul tema, il cui riconoscimento è noto solo ai filologi del death metal. E il tema di solito ruota attorno al campo semantico di sbudellare, squartare, ecc. Mentre i primi episodi discografici risultavano essere decisamente grezzi e caciaroni, dal formidabile Legacy of the Ancients in poi, i Pathology hanno dimostrato di aver saputo raccogliere l’eredità dei Disgorge, band in cui militava il cantante Matti Way, amichevolmente noto come Fogna Umana, viste le notevoli doti di growler. Uno sfortunato incidente e l’abbandono di Way, prontamente sostituito da Jonatan Huber, sfociarono nel mezzo passo falso di Awaken to the Sufferingin cui la presenza di due chitarre e una voce meno fognaria avevano reso più tecnica e relativamente – per gli standard del genere – meno brutale la proposta musicale dei nostri. A me era piaciuto comunque, ma continuo a preferirgli il successivo The Time of Great Purification, che aveva segnato il ritorno ad una maggiore compattezza sonora: una sola chitarra, riff  più quadrati, groove un tanto al chilo, melodia dosata con il contagocce e pezzi sempre più vicini alla forma-canzone. Dopo la bellezza di cinque (cinque!) dischi in cinque anni, mi aspettavo che si fermassero un po’, che magari meditassero su come smettere di riempire gli album di filler inutili, ma niente. Niente, a settembre ho appreso del ritorno di Way in pianta stabile e della conseguente uscita di Lords of Rephaimennesima – e questa volta mediocre – variazione sui classici stilemi del brutal americano. L’ex ugola dei Disgorge è la classica oasi felice e non tradisce le aspettative, ma tutto il resto sembra davvero non funzionare. Tra strizzate d’occhio ai soliti Cannibal Corpse e timide incursioni atmosferiche, quest’ultimo lavoro targato Pathology si trascina stancamente per una buona mezzora di timido headbanging.

Una fan molto arrabbiata

Una fan molto arrabbiata

Continuano le note dolenti con i nostrani FLESHGOD APOCALYPSE, che, dopo un avvio di carriera a dir poco esplosivo (Oracles e Mafia rientrano a pieno titolo tra le cose migliori registrare in ambito death metal nel biennio 2009-2010), si sono un po’ afflosciati con il successivo Agony, che aveva decretato l’approdo su Nuclear Blast e la logica e quantomai scontata appartenenza al partito dell’iperproduzione. Naturalmente, non si può ridurre la questione ad una mera critica relativa all’etichetta, il discorso, semmai, sarebbe da estendere all’importanza della componente orchestrale nella musica della formazione capitolina. In questo senso, il nuovo Labyrinth risulta essere un lavoro ancora più destrutturato del suo predecessore, ricco di barocchismi e straripante di artificiosa pomposità.Non me ne vogliano i fan della band, riconosco sicuramente la bravura tecnica e la capacità di scrivere pezzi sostenuti da ottimi riff, ma non posso non storcere il naso di fronte alle vocine pulite di Paolo Rossi, sempre più simile ad un ICS Vortex qualsiasi, così come non posso non rabbrividire di fronte a tutto l’ambaradan di tastiere, cori, coretti, e voci femminili che neanche gli ultimi Dimmu Borgir. C’è un’altissima probabilità che chi non aveva apprezzato Agony detesterà Labyinth dal profondo del proprio cuoricino, visto che quest’ultimo ne rappresenta la parossistica prosecuzione. Già me li vedo i fan degli Abominable Putridity di turno, mentre provano ad impiccarsi con un laccio emostatico sporco di sangue.

Fan impazienti attendono l'uscita del nuovo disco dei Convulse

Dei fan impazienti attendono l’uscita del nuovo disco dei Convulse

Di tutt’altra pasta sono fatti i CONVULSEstorici pionieri del death metal finlandese, che, a distanza di quasi vent’anni dalla loro ultima prova in studio, quel Reflections che un po’ faceva il verso al death’n’roll inventato dai ben più noti Entombed, sono tornati alla carica con un ep – uscito all’inizio di quest’anno – che non aveva di certo fatto gridare al miracolo. Eppure Inner Evil mostrava punti di contatto piuttosto evidenti con World Without God, universalmente riconosciuto come il loro capolavoro (e vorrei vedere, ne hanno fatti due di dischi). Dei due assaggini presenti sull’ep, viene ripresa God of Delusion, che a dirla tutta è uno dei brani migliori di questo Evil Prevails, che ci riconsegna i Convulse in una forma molto simile a quella dei primordi. Accantonate le derive entombediane del periodo Relapse, l’ensemble finlandese ripesca dal proprio passato la fascinazione per i grandi nomi del death svedese: gli Unleashed pre-svolta alcolica, i Grave prima della crisi di mezza età, gli eterni Nihilist ma soprattutto i primi Dismember. Gli stilemi sono quelli classici, le chitarre – non c’è niente da fare – suonano maledettamente svedesi, e sono sempre in bilico tra aggressività e melodia, anche se non disdegnano frequenti incursioni in territori vicini agli Incantation. Stoccate di ferale death metal accompagnano l’incedere macilento del doom: tra lente processioni verso il Golgota, esaltazione del Male e offese a Dio, Evil Prevails si candida ad essere la colonna sonora ideale delle domeniche solitarie trascorse a guardare il sole tramontare sulla pianura padana. Sarà che inizia a fare freddo, sarà quel tocco melodico che solo i finlandesi riescono a realizzare con tanta malinconica naturalezza, ma devo ammettere che questo ritorno è stato davvero gradito. (Gianni Pini)

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