PIG DESTROYER – Book Burner (Relapse Records)

Iniziare le recensioni in un periodo come questo, tra l’altro dopo aver accantonato da mesi la mia amata rubrica alla soia (cavolo, me ne rendo conto solo ora), è difficilissimo, credetemi. Ognuno ha i suoi impegni e varie ed eventuali, e per quanto riesca a stare dietro alle nuove uscite, maturarne un giudizio onesto diventa una fatica colossale. Soprattutto se poi devi affrontare scogli pesantucci come questo disco.

C’era una volta una band senza bassista (non smetteremo mai di supportare il mantra del grind per eccellenza, ormai sapete qual’è), una band originaria di Washington D.C. che sin dagli esordi aveva cercato di mostrare, se possibile, un volto nuovo del grindcore, e parlo di esordi legati a split, demo, ep e fritti misti del tipo che dobbiamo spigne l’underground, eddai. Si trattava di un nuovo modo di vedere il grind: non a partire da un riff thrashcore associato ad una ritmica violenta ma piatta, come avveniva nella normalità dei casi, piuttosto seguire gli sviluppi, le trame intricate e i riff angolari di una chitarra virtuosa vicina a certo techno-thrash. Sin dalle primissime prove raccolte in parte in 38 Counts Of Battery (per me l’autentico capolavoro della band anche se antologico), i Pig Destroyer hanno deciso di offrire più spesso prove aggressive ma non convenzionali che offesa pura e attacco frontale come avremmo visto bene esigere dal normale uditorio dei grinder di mezzo mondo. E così è stato anche per il resto della loro produzione discografica, con buona pace di chi ha versato fiumi di bit nello sforzo disumano di tradurre in parole il trip della musica della band. Dico trip perché la band ha da sempre associato il suo non convenzionale pacchetto sonoro alle liriche deliranti e ossessionanti di JR Hayes, vocalist di tutto rispetto con la passione per la fiction violenta. Un po’ di questa fiction, è bene dirlo, è colata giù per le liriche di JR e si è posata sporca anche sul concept grafico del nuovo disco, e quindi alle magnifiche copertine tra i graffiti e il figurativo in perfetto stile Relapse, si è accompagnato un inlay alla Black Flag di quelli che vanno di moda sui dischi powerviolence. Non a caso a curare il booklet è Rohan Harrison, già cantante degli australiani Extortion, band che avevamo incontrato in fondo a This Comp Kills Fascist Vol. 2. Piccola parentesi: a rintracciare le band e a compilare la tracklist delle due raccolte uscite per Relapse è stato proprio Scott Hull, che per stakanovismo e coscienza operaia oggi chiameremo Pino Scott. Giusto per dire della sua fama di guru.

Venendo al suono, la novità non c’è. O meglio, la band stavolta non si sa per quali ragioni, tira fuori un disco che è un po’ quel tipo di bestia iperprodotta che ogni tanto i tecnici del metal estremo tirano fuori e tutti quanti a dire “uh, senti che fill di batteria!”. E sulla batteria potremmo veramente concentrarci visto che a sostituire Brian Harvey è arrivato addirittura Adam Jarvis, che tutti voi ricorderete per come surriscalda le pelli nei Misery Index. E uno.
I brani sono fondamentalmente in linea con quanto già ascoltato soprattutto in Phantom Limb (meno evidente resta l’eredità del sound ancora confusionario di Terrifyer) e la sensazione di continuità è data dal ricorso a certi stratagemmi consimili adottati per restituire alle chitarre la corposità necessaria a riempire il vuoto di un basso inesistente. La voce opportunamente manipolata di JR ritorna impressionante come sempre e la cascata di elettronica quanto basta ci ricorda che a fare il figo con le manopole c’è pure un ex TRIAC salito a bordo già sul disco precedente. E due.
Ultima critica prima di tornare ad essere democristiani. Un disco così professionale a me non serve e forse neanche a voi. Per quello, cioè per le esigenze di professionalità e la devastazione in stile death metal, ci sono sempre i Misery Index. Qui preferisco la rottura delle consuetidini tipiche del metal estremo e voglio impatto reale. Leggerete un po’ ovunque di quanto siano rodati, di come sappiano riempire un disco -che è un po’ un macigno da ascoltare per intero- solo con la loro prestazione di qualità, di quanta precisione chirurgica sia necessaria per portare a nuovi livelli un sound grindcore che è veramente più unico che raro. Fuffa, tutta fuffa. L’unica cosa forse positiva nel bilancio di un disco un po’ deludente è che le canzoni, per violente che siano, hanno tutte una indubbia personalità e una positiva distinguibilità l’una dall’altra. Ma ammettere che è la band stessa, unica nel suo genere, ad essere forse la vera rivelazione possibile nel merito di una discussione su quanto si stia assestando il sound dei grinder. In quanto a risultati e a giudizi a caldo, però, è più che altro un disco di routine, con l’aggravante che la band dischi di routine non può permetterseli, visto che prima di produrre un nuovo full lenght si prende ogni volta una bella pausa e ti fa pure annaspare con esperimenti tipo Natasha.

Rimarranno pure alti il livello della band e le qualità tecniche del disco in questione, ma aldilà del mezzo godimento che vecchi fan come me possono trarre, c’è veramente poco da celebrare. Poi è anche vero che questi sono dischi che guadagnano fascino alla luce delle evoluzioni del sound della band solo sulla lunga distanza. Magari tra qualche anno, quando i Pig Destroyer si saranno trasformati veramente nei nuovi Dark Angel, ci sogneremo pure prove interlocutorie come queste, memori di una passato veramente grind. Per la cronaca (e per ironia della sorte) sono proprio i momenti più thrashy del disco a convincerti che l’acquisto del pezzo è più che valido. Per le vertigini tutte velocità e dissonanze bisogna andare un po’ in fondo al disco.

Per i fissati là fuori ci sono anche delle ospitate di tutto rispetto: Kat dei confratelli Agoraphobic Nosebleed e persino Jason dei Misery Index.

E poi ci sarebbe pure The Atheist, piccola novella inclusa nel booklet di Book Burner scritta proprio da JR. Non l’ho letta.

Ciao.

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