GRAVE+MISERY INDEX+ARSIS live@Blackout, Roma-14.11.2010
Che ci sarebbe stata poca gente lo si poteva immaginare. La stessa sera all’Init, a poca distanza in linea d’aria ma in posizione decisamente più centrale, stavano suonando i Cathedral e, per soprammercato, c’era pure Joe Satriani all’Atlantico. Senza contare che molti metallari gourmet, tormentati da una scelta invero difficile, avranno valutato che appena usciti dall’Init si può andare dal greco al Pigneto a sfondarsi di pita e vino resinato, mentre qua siamo a Tor Pignattara, in uno scenario pressoché postatomico. Fatto sta che, complice anche il contemporaneo derby della Madunìna che avrà tenuto molti fuori sede incollati allo schermo, a seguire lo show dei capitolini Slaughter Denial saranno soprattutto gli altri musicisti. Non li avevo mai ascoltati in precedenza ma mi hanno fatto una discreta impressione. Death metal thrashettone cattivo e diretto allo scopo, davvero niente male. Non che ci sia molta più gente quando salgono sul palco i The Rotted. Ve li ricordate i Gorerotted? Beh, sono la loro nuova incarnazione.
Questi zozzoni londinesi mi sono sempre stati simpatici, e il loro nuovo corso sfascione dal vivo è divertente. Hanno abbandonato l’identità goregrind e il loro death metal è diventato più groovy e diretto, vagamente Gorefest. I testi, invece, non parlano più di sbudellamenti bensì di risse e violenza metropolitana. Il cantante Ben McCrow ha sviluppato un look e delle movenze quasi hardcore e continua a cazzeggiare sorridente con il pubblico fottendonese di avere quattro gatti davanti. Mezz’ora di brutalità servita con piglio e convinzione. Fuck yeah. Prima che comincino i The Last Felony, in giro con il loro secondo album Too Many Humans (come dar loro torto), esco a ristorare la gola in un discopub truzzo nelle vicinanze con un miglior rapporto quantità/prezzo, e torno mentre il gruppo metalcore canadese sta per lasciare la ribalta agli Arsis. Avevo perso di vista l’ensemble statunitense dopo il loro esordio A Celebration Of Guilt, che all’epoca non mi fece una grande impressione.
Su disco il loro death metal tecnico a volte colpisce più per la notevole perizia esecutiva che per le idee, ma dal vivo passano tutt’altro che inosservati. Il frontman James Malone sfoggia un look anni ’80 con t-shirt di King Diamond e giubbotto jeans smanicato con toppa di Run To The Hills sulla schiena. Lo spirito quindi, nonostante le radici ben salde nella scuola a stelle e strisce, è quello dei bravi ragazzi che sanno suonare benissimo e hanno il poster di Chuck Schuldiner in camera. Però, appunto, sanno suonare benissimo, e – anche se a volte tendono leggermente a strafare – il loro approccio resta estremamente violento e aggressivo. Magari ai dischi nuovi un’ascoltatina la dò.
Quando i Misery Index iniziano il soundcheck il pubblico è aumentato ma siamo sempre sotto al centinaio di persone. Peccato, perché la prestazione della band dell’ex Dying Fetus Jason Netherton è semplicemente straordinaria. Li ho sempre considerati una delle migliori band estreme uscite dagli Usa nel corso dell’ultima decade, e la loro annichilente prestazione on stage non ha fatto che espandere la già altissima opinione che avevo di loro. Il chitarrista John “Sparky” Voyles ha mollato la baracca prima del tour americano, costringendoli a esibirsi come trio per alcune date. Ora alle sei corde c’è Darin Morris, preso dai Criminal Element, side-project che coinvolge altri due membri del quartetto di Baltimora: il frontman Mark Kloeppel e il tentacolare batterista Adam Jarvis. Partono sparatissimi con Embracing Extinction, Fed To The Wolves e The Carrion Call, i primi tre pezzi del nuovo, eccellente Heirs To Thievery (ne parliamo qua), che sarà il fulcro della scaletta insieme al precedente Traitors, dal quale viene estratta subito dopo l’anthemica title-track, con pochi ma giustamente esaltati fan (tra cui il sottoscritto) a gridare il ritornello col pugno in aria. Il loro death/grind, eclettico e intransigente allo stesso tempo, live è veramente devastante. La batteria di Jarvis è un chirurgico olocausto che lascia a bocca spalancata, Kloeppel e Netherton si alternano dietro al microfono dando voce all’incazzatura collettiva con una rabbia e una virulenza di marca hardcore.
I vecchi brani, come Conquistadores e The Great Depression, sono ancora più letali live, e quando si chiude con la micidiale doppietta We Never Come in Peace/Theocracy non sono l’unico ad avere un sorriso da fesso, grazie a un gruppo che ogni volta riesce a ricordarti una buona parte dei motivi per i quali ascolti musica estrema. Una fottuta macchina da guerra. Il tempo di sistemare un paio di teschi sopra i Marshall ed ecco che salgono sul palco i Grave. L’ultimo Burial Ground non è stato altro che una scusa per poter tornare in tour, con una filosofia un po’ motorheadiana. E, non so a voi, ma a me fa sempre piacere che ci siano in giro Ola Lindgren e compagni, che continuano imperterriti a portare avanti il verbo dell’old school svedese più putrida e ignorante. Dopo un po’ di casini di line-up, sono ora in giro come three-piece, con l’ex Centinex Ronnie Bergerståhl dietro le pelli e la new entry Tobias Christiansson alle quattro corde. Attaccano con You’ll Never See e da lì in poi mantengono le promesse. Appunto, è come con i Motorhead, se ti piace quel suono cupo e cruento, come lo si faceva una volta, non puoi non goderti un concerto dei Grave, soprattutto se ti riesumano una Christi(ns)anity o una Hating Life. Un’esibizione cruda, genuina, trucida e serrata, esattamente quello che ti puoi aspettare da loro. Insomma, si meritano il nostro headbanging. E quando chiudono con il classicone Into The Grave ce ne andiamo soddisfatti, consci di aver assistito, nonostante tutto, ad una grande serata di death metal. (Ciccio Russo)
(foto del sottoscritto)
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