Avere vent’anni: giugno 2005
ULVER – Blood Inside
L’Azzeccagarbugli: Era un album molto atteso Blood Inside, perché, a distanza di cinque anni dal capolavoro Perdition City, gli Ulver tornavano con il loro primo album dopo una serie di Ep, sperimentazioni e nulla che lasciasse intravedere quello che sarebbe stato il loro passo successivo. Il risultato è un disco dalla genesi e dalla lavorazione tormentata, che si è dipanata nel corso degli anni, un lavoro incentrato sulla “malattia” della contemporaneità che, musicalmente, rappresenta, insieme all’immenso Themes from William Blake’s The Marriage of Heaven and Hell, il lavoro più denso, ricco e indecifrabile dei norvegesi. Marchiato a fuoco dalla produzione, estremamente “presente”, di Ronan Chris Murphy, Blood Inside è a tutti gli effetti il disco progressive degli Ulver, anche se non nello stretto senso del genere di riferimento. Un lavoro incredibilmente stratificato, come si intuisce sin dall’iniziale Dressed in Black e ancor di più dalla successiva, davvero incredibile, For The Love of God, costruita su basi elettroniche, orchestrazioni sintetiche e un beat pulsante. Un disco estremamente ambizioso e denso che, a differenza dell’album ispirato a Blake, soffre, in alcuni passaggi, soprattutto nella metà, di questa ambizione e di questa magniloquenza compositiva e produttiva, perdendosi, in alcuni brani, in eccessivi barocchismi. Ciononostante, con brani come Christmas, Blinded By Blood (altro capolavoro dell’album) e la doppietta finale Your Call /Operator il risultato non può che essere ottimo, pur non essendo l’album che, anche per questioni di fruibilità, si rimette su con maggiore frequenza e pur non riuscendo ad entrare nella nutrita categoria degli album imprescindibili dei norvegesi.
MAKE A CHANGE… KILL YOURSELF – st
Griffar: Nati nel 2005, i danesi Make a Change… Kill Yourself esordiscono subito con un album omonimo che li lancia direttamente ai vertici del funeral black/doom metal. Sono un progetto di Ynleborgaz degli Angantyr (e di molti altri gruppi) che si occupa di tutte le composizioni e degli strumenti, alle voci duettando con una fanciulla, tale Demonica, che figura come componente effettivo della band parimenti a Nattetale, colui che ha sempre e solo scritto i testi senza ricoprire altro ruolo. Ai tempi era opinione diffusa che il gruppo fosse estemporaneo, creato per utilizzare musica difficilmente adattabile al gruppo-madre che sarebbe stato un peccato scartare; dato il grande interesse che suscitarono, tuttavia, i Make a Change… Kill Yourself hanno proseguito l’avventura ed esistono ancora oggi, anche se dall’ultimo full (il quinto in totale) sono già trascorsi sei anni. L’esordio è un monumentale assemblaggio di semplici riff piacevolmente melodici, sebbene lugubri e tenebrosi, ripetuti in loop sì che tutti i quattro brani oltrepassino agevolmente i dieci minuti raggiungendo la punta massima di 27 nel pezzo che conclude l’opera, la quale nel suo complesso ne dura circa 71. Ogni composizione ha una coda di sole tastiere, oscure anch’esse e molto ambient (tranne che nel capitolo 3 dove sono organistiche), che si conclude esattamente quando inizia il brano seguente, così che il disco sembri un’unica lunghissima sinfonia funeral black suddivisa in movimenti. Nonostante la scarsa immediatezza, la lunghezza esagerata e a tratti discutibile, ebbe parecchio successo, ed è indubbiamente un ascolto molto interessante anche oggi. Mia opinione personalissima è che i dischi successivi siano sostanzialmente migliori.
HOUR OF PENANCE – Pageantry for Martyrs
Luca Venturini: Pageantry for Martyrs, il secondo disco degli Hour of Penance, è fichissimo. Lo è per due motivi: il primo, più ovvio, perché ha delle belle canzoni; il secondo perché mostra una band in ascesa totale, che avrebbe sparato altri quattro lavori incredibili nei successivi dieci anni. A distanza di vent’anni è eccitante riascoltarlo sapendo cosa sarebbe uscito dopo. Più in generale, quello che io apprezzo di loro è la complessità con la quale hanno sempre approcciato la materia. Questo non è solo chitarre ribassate, rutti nel microfono e sbudellamenti nei testi; è un brutal di livello, ragionato, e arrangiato in maniera meticolosa. Gli Hour of Penance di allora erano delle macchine da guerra, e per quello che mi ricordo di quei giorni, erano una delle poche band che mi piaceva seguire, soprattutto perché facevano sembrare che l’Italia avesse qualcosa da dire nel panorama metal internazionale.
WIZARD – Magic Circle
Barg: Dunque, ricapitoliamo. Head of the Deceiver era un capolavoro di grezzura e cieca aggressività contro i nemici del vero metal, paradossalmente impreziosito da una produzione al limite del casereccio ma proprio per questo perfettamente funzionale allo scopo. Il successivo Odin godeva di una migliore produzione (ad opera di Piet Sielck) e di una cura più professionale degli arrangiamenti, risultando quindi formalmente inattaccabile ma allo stesso tempo meno viscerale e sentito del precedente. Poi uscì Magic Circle, che univa i difetti di entrambi gli album citati, peraltro accentuandoli, senza però riprendere nessuno dei loro specifici pregi; e, giusto per entrare nei dettagli un secondo, non si può evitare di citare la batteria, che sembra un metronomo sia per il suono robotico sia per l’esasperante monotonia. Se dovessi darvi un giudizio spassionato (inteso letteralmente, cioè senza passione) vi direi quindi che Magic Circle è un discaccio brutto, riuscito male e da cui stare lontanissimi. Se invece volete un giudizio soggettivo ed estremamente personale (che è probabilmente il motivo per cui la maggior parte di voi legge Metal Skunk) vi dico che in ogni caso agli Wizard non si può proprio resistere, perché sono GREZZI, sono TETESCHI, sono SPUDORATI e la loro devozione per l’heavy metal e nello specifico i Manowar come soluzione di tutti i mali è commovente. Qui c’è addirittura un pezzo che si chiama Metal, come si fa a non perdonargli qualsiasi cosa? E di fronte a testi come “Spikes and leather on the stage / Like roaring rage / This is the total domination of true metal” o ancora “Drinking, rocking, fucking chicks / Kick some bloody asses / Feel the power inside you / Let it free / With your bikes you will ride / Like thunder in the sky” che gli vuoi dire? Sul serio, che cazzo gli vuoi dire? Se ci dovesse un giorno essere un festival di Metal Skunk, farò tutto quanto in mio potere per fare in modo che ci possano essere anche gli Wizard.
EVEREVE – Tried and Failed
Michele Romani: Degli Evereve avevo già parlato in occasione del loro ottimo esordio Seasons del ’96 uscito addirittura per Nuclear Blast, che aveva puntato parecchio su di loro tanto da sceglierli da spalla per il tour di Elegy degli Amorphis. Sono particolarmente legato alla data romana del suddetto tour non solo perché fu il primo concerto in assoluto che vidi al Frontiera, storico locale gestito dal compianto Baffo che tra il ’95 e il 98 riuscì a portare una marea di band estreme nella Capitale, ma anche perché fui realmente impressionato dal gruppo tedesco e in particolare della prova del cantante Tom Sedostchenko, che purtroppo decise di porre fine alla propria vita un paio di anni dopo. Col passare degli anni, gli Evereve abbandonarono il gothic-death metal piuttosto articolato e personale del primo disco per far posto ad un gothic più leggero e melanconico che strizzava più di un occhio alla corrente love metal che andava di moda ai tempi. Questo cambiamento li rese però un gruppo come tanti, come dimostra proprio questo Tried And Failed, l’ultimo prima del definitivo scioglimento. La traccia omonima e un altro paio di brani stilisticamente non sono neanche male, ma si tratta di un tipo di suono che già nel 2005 aveva detto tutto quello che c’era da dire.
WIGRID – Die Asche eines Lebens
Griffar: Temo di essermi scordato di celebrare il ventesimo anniversario dell’esordio dei tedeschi Wigrid tre anni fa, quell’Hoffnungstod che li lanciò alla ribalta del depressive black tedesco dopo tre demo ben accolte dal pubblico underground. Qualcosa tra le sabbie del tempo sfugge sempre tra le dita. Rimedio riportando all’attenzione il secondo Die Asche eines Lebens, forse persino migliore del debutto. Più sofferto ancora, sempre lento, opprimente, asfissiante; cupo fino all’inverosimile, strutturato su riff semplici tutti in minore ripetuti monotonamente in classico stile burzumiano, appena variati di tanto in tanto da liquidi arpeggi lacrimevoli oppure da armonie su note più alte. Accostabili a tratti a fenomeni come Forgotten Woods o a loro degnissimi colleghi del calibro di Wedard, Abyssic Hate o Be Persecuted, i Wigrid hanno un’innata capacità di scrivere brani catartici: introspettivi, psicanalizzanti, i loro mantra in alcun modo possono lasciare indifferenti ed aiutano chi li interpreta correttamente ad esternare ed espellere tutta la pece e i fanghi tossici che ne ammorbano lo stato d’animo. Così sembra incredibile che anche la lunghissima (12’45”) strumentale che dà il titolo all’album, tutto un gioco di tastiere come ad evocare un carillon ottocentesco, abbia un suo perché, e quando comincia infine non la si interrompe mai, si resta ad ascoltarla in silenzio, commossi. Nel suo piccolo – che poi piccolo non è affatto – Die Asche eines Lebens è un capolavoro.
COPROFAGO – Unorthodox Creative Criteria
Marco Belardi: In una settimana, tanto tempo fa, io e un collega decidemmo di convincere tutti gli altri che Gianni Morandi mangiasse effettivamente la merda. Cominciammo dai più facilmente influenzabili: guarda che è finito all’ospedale, aveva tracce di merda sotto le unghie, allora hanno fatto esami più approfonditi e hanno trovato feci non digerite in un tratto dell’apparato in cui non dovrebbero ancora esserci feci. Faticavano a crederci, in fin dei conti era quello che cantava Non son degno di te. Allora passammo al sensazionalista: guardate che lo ha ammesso in una intervista, o meglio, non lo ha negato, che poi è come ammetterlo. È una malattia riconosciuta, si chiama coprofagia. I colleghi iniziarono a parlarsi fra di loro, come per comprendere se l’argomento avesse una qualche base fondata. Alla fine li convincemmo tutti con un video ripescato su YouTube in cui tutta la curva della Fiorentina, in trasferta a Bologna, cantava a gran voce che Gianni Morandi mangia la merda.
DEW-SCENTED – Issue IV
Luca Venturini: Conoscevo già i Dew-Scented di nome ma non li avevo mai sentiti quando, nel 2009, vennero ad un piccolo festival in provincia di Verona. Io ero là per i Marduk, a dire il vero, ma i Dew-Scented mi colpirono per il loro thrash/death ben fatto e soprattutto per la simpatia. Il cantante Leif Jensen sapeva tenere il palco e scambiava battute e bestemmie con il pubblico. Iniziai ad ascoltarli proprio dopo di allora, e generalmente non mi sono mai dispiaciuti. Issue IV era uscito qualche anno prima: è buon disco, fatto di canzoni tirate e ricolme di tupa tupa, di una band sottovalutata che contribuì sensibilmente a un trend dell’epoca, quello alla The Haunted. Insieme ai precedenti due, Inwards e Impact, compone la fase di maggior ispirazione dei tedeschi. Vi dirò: a ripensare a quel concerto, in fondo in fondo mi dispiace che si siano sciolti nel 2018. Forse avremmo dovuto considerarli un po’ di più.
DEVILDRIVER – The Fury of our Maker’s Hand
Barg: Dopo i noti accadimenti mi sono posto come obiettivo di non mancare mai una recensione dei Devildriver, quindi dopo aver celebrato il ventennale del debutto eccomi qui a parlare del secondo album del gruppo di Dez Fafara, che peraltro non avevo mai ascoltato prima d’ora. Si parla sempre di un metalcore/deathcore carichissimo, violentissimo e saturissimo, con la voce gorgogliante del suddetto Fafara che ci bombarda i timpani per tutti e DODICI i brani presenti. Riffoni ribassati, linee di batteria esasperanti, calci in bocca, sparatorie, odio verso il prossimo, monotonia come obiettivo supremo alla stregua di un pugile che sceglie di picchiare l’avversario sempre nello stesso punto e sempre alla stessa intensità finché non lo vede crollare schiumando dalla bocca. Alla fine del disco ti senti svuotato e hai la necessità di ascoltare dungeon synth per un paio di giorni per riprenderti. Dietro alla consolle peraltro c’è Colin Richardson, quello che ha prodotto – tra gli altri – tutti i Carcass fino a Surgical Steel e poi Bloodthirst dei Cannibal Corpse, Bolt Thrower, Extreme Conditions Demand Extreme Responses, Demanufacture e Soul of a New Machine, Utopia Banished e un fottìo d’altra roba compreso l’immortale Beat the Bastards degli Exploited. Ecco, il mio l’ho fatto, ora ci si risente fra un paio d’anni per il ventennale del terzo disco e nel frattempo corro a sentirmi gli Old Sorcery per una questione di sopravvivenza.
OLD WAINDS – Scalding Coldness
Griffar: Oбжигающий холодный, o più comprensibilmente Scalding Coldness, è il terzo album dei russi di casa a Murmansk (Circolo Polare Artico) Old Wainds, più volte da me citati in queste pagine per via dell’eccellenza della loro proposta musicale. L’ossimoro è traducibile in italiano come Gelo Ustionante, e come non sempre succede il disco tiene fede al suo titolo e contiene 41 minuti di pura tempesta di aghi di ghiaccio artico in grado di travolgere qualsiasi cosa si trovi al suo cospetto nonché di annientare qualsiasi forma di vita. La furia cieca degli elementi che Scalding Coldness celebra così mirabilmente si palesa tramite nove brani parossistici che lasciano esausti al termine dell’ascolto; va da sé, anche la più terribile delle tempeste qualche momento di pausa ce l’ha, e così la musica degli Old Wainds, ma sinceramente si tratta di allentamenti quasi marginali della tensione che più che dare sollievo preparano all’immediato olocausto che puntualmente si presenta pochi attimi dopo. Nemmeno gli Immortal o gli Isvind sono così frostbitten come gli Old Wainds, in grado di rendere in musica impetuosa e travolgente la rabbia atavica dell’inverno più gelido. Soprattutto non hanno mai ceduto a sirene commerciali come quelle che hanno convinto i norvegesi ad ammorbidire le loro composizioni per raggiungere consensi più vasti. Coerenti sin dai loro albori, gli Old Wainds meritano null’altro che infinito rispetto.
PROSTITUTE DISFIGUREMENT – Left in Grisly Fashion
Luca Venturini: Mi devo veramente impegnare per scrivere qualcosa su una band che non mi ha mai lasciato niente. È per questo che sto scrivendo queste due righe iniziali: così la recensione sembra più lunga senza esserlo veramente. Fatta questa importantissima premessa, andiamo al dunque. I Prostitute Disfigurement, fino a questo disco compreso, furono una band totalmente anonima, per i miei gusti. Al netto di canzoni con dei bei riff, il cantato ammazzava tutto. Lo stile di Niels Adams mi è insopportabile, non credo sarebbe stato tollerato nemmeno dal sanaporcelle di Cristo si è fermato a Eboli, la figura più death metal di tutta la letteratura mondiale. Mi è stato impossibile arrivare in fondo a qualunque dei primi tre loro album per questo preciso motivo. Per fortuna, dal successivo album del 2008 Adams cambierà stile, rendendo la band olandese decisamente più ascoltabile. Non che abbiano mai fatto dei dischi indimenticabili nemmeno dopo, intendiamoci, ma almeno non salto deliberatamente le tracce se mi capitano nelle playlist di Spotify.
NATTEFROST – Terrorist (Nekronaut part 1)
Michele Romani: Sinceramente non ho mai capito il senso dei due dischi solisti di Nattefrost. Ricordo di aver recensito Blood and Vomit (bel titolo) per Metal Shock dandogli 3 perché era una roba veramente inascoltabile, una versione un po’ più caciarona e punk degli ultimi Carpathian Forest con influenze industriali messe a casaccio e una sensazione di fastidio continuo perdurante per tutto il disco. Incredibilmente questo Terrorist riesce a fare pure di peggio, perché agli elementi di cui sopra si aggiunge la voce di quel cazzone di Nattefrost che questa volta è filtrata, rendendo il tutto ancora più fastidioso del precedente. L’unica notizia buona è che non ne ha fatti altri, e sotto sotto ho la sensazione che questi due dischi facciano schifo pure allo stesso Nattefrost.

PELICAN – The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw
Ciccio Russo: Ai tempi del debutto Australasia i Pelican erano ancora un progetto collaterale dei Tusk, formazione post-hardcore di Chicago con cui condividevano tre membri su quattro. The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw fece però un botto così inatteso da cambiare drasticamente le priorità dei musicisti coinvolti. I Tusk avrebbero fatto un altro Lp nel 2007 per poi sciogliersi, i Pelican avrebbero infilato altri due dischi mostruosi prima dell’abbandono del chitarrista Laurent Schroeder-Lebec, di recente rientrato nei ranghi. Il miglior lavoro del gruppo è probabilmente questo: il salto qualitativo rispetto ad Australasia è nettissimo, nella produzione, nella cura degli arrangiamenti, nella complessità e nella stratificazione di un suono più melodico e meno aspro, fatto di viaggi strumentali avvolgenti e onirici che gettano un ponte tra il post-hardcore, componente qua ridimensionata, e il post rock più psichedelico e sperimentale, tra i Neurosis e i Mogwai. In tempi in cui nel metallo tout-court stava succedendo poco o niente, fu impossibile non innamorarsi dei Pelican.
HATE ETERNAL – I, Monarch
Luca Venturini: In cima alla lista dei miei personaggi death metal preferiti c’è Erik Rutan. È stato un’immenso dispiacere non vederlo l’anno scorso coi Cannibal Corpse, ma d’altronde un tornado gli aveva distrutto casa. Mi ricordo che lo conobbi con i suoi Hate Eternal e il loro precedente album King of all Kings. Ecco, il problema di I, Monarch è proprio questo: venire dopo Conquering the Throne e King of all Kings, appunto. È un lavoro meno ispirato rispetto ai precedenti due, nonostante molti altri musicisti avrebbero dato un rene per poterlo scrivereo. Il punto è che se sei Erik Rutan le aspettative sono diverse. Perciò, all’epoca, I, Monarch passò un po’ inosservato, e io stesso non lo riascolto praticamente mai. Inoltre la seconda canzone Behold Jesus, dopo quell’attacco devastante, ha una melodia che mi è sempre sembrata stupidina e mi disturba. Provate a solfeggiarla con del la la la, e ditemi se non sembra una melodia che potrebbe funzionare in un cartone animato per bambini. Funziona anche con What a Horrible Night to Have a Curse dei The Black Dahlia Murder, provate. Vabbè, se non vi è mai capitato di ascoltarlo, comunque un ascolto dateglielo, sicuramente non è tempo buttato.
CANCER – Spirit in Flames
Marco Belardi: Cercherò di essere breve. I Cancer, lo saprete, hanno realizzato tre album storici, uno più bello dell’altro. Avrei buoni motivi per preferire To the Gory End, altri per preferire The Sins of Mankind, ma oggi, probabilmente, il mio prediletto è quello che sta nel mezzo. Nel 1995 pubblicarono Black Faith, che, al cospetto di quei tre, era una cacatina. E si sciolsero. Un decennio più scarso più avanti si riformarono, capitanati ancora una volta da John Walker. Al suo fianco il fido Carl Stokes alla batteria. Pubblicarono, stavolta, Spirit in Flames, e si sciolsero subito, come nel 1995. Serve quindi che vi spieghi come era questo Spirit in Flames? In realtà faceva meno schifo di quanto prevedibile, almeno in principio alla scaletta. È che non andava da nessuna parte. Suonava sufficientemente old school da far gridare al miracolo, ma i pezzi e la loro interpretazione erano assolutamente spompi. La produzione non all’altezza, il che li mosse, all’epoca della seconda reunion, in direzione della Peaceville. Lasciatelo pure perdere, ma effettivamente, oggigiorno, buttiamo giù come Aspirina dischetti molto più insignificanti di questo e li facciamo passar per buoni solamente perché ad opera di benintenzionati giovanotti intenti a rifare la Musica dei tempi che furono.
NAER MATARON – Discipline Manifesto
Griffar: Due anni dopo il crudissimo River at Dash Scalding tornano i greci Naer Mataron con quello che a detta mia (ma non solo) è il loro disco più violento in assoluto. Dovevano proprio essere incazzati marci, perché Discipline Manifesto è talmente aggressivo e rabbioso da lasciare basiti. Difficile trovarsi al cospetto di cotanta catastrofe sonora e dire che fosse prevedibile, laddove il passare del tempo e il costante imprescindibile miglioramento delle fasi compositiva e tecnica solitamente implicano una seppur minima riflessione su quali siano i limiti di caos raggiungibili e quali non è più il caso di oltrepassare. Discipline Manifesto non ha niente da spartire con tutto questo, nessun ripensamento, nessuna analisi: un’ora di martellamento continuo che come sempre ribadisce che i Naer Mataron di greco hanno solo la nazionalità. Più nordico che mai, accostabile ai Setherial più rudi, agli In Battle o al fast black olandese di Unlord e Funeral Winds, il black metal dei Naer Mataron era-2005 ripudia melodie memorizzabili, atmosfere avvolgenti e trascinanti riff da scapocciamento, preferendo l’esplosione piroclastica che annientò la civiltà cretese. Distruzione, devastazione e morte, non serve altro. Al disco partecipa anche Nordvagr (MZ 412) alle tastiere, ma senza lasciare tracce particolarmente memorabili, alla batteria Warhead cerca di variare per quanto possibile il classico schema fast/raw black e fa un buon lavoro, ma ciò che si ricorda sostanzialmente di Discipline Manifesto è l’efferatezza delle composizioni, quasi tutto il resto passa inosservato. La buona notizia è che i problemi legali di Kaiadas sono terminati e che la band è di nuovo in attività, perché fino a non molto tempo fa sembravano destinati allo scioglimento.
FUNERAL FOR A FRIEND – Hours
Barg: Non è che sia mai stato un grande fan di questo tipo di musica, però negli anni mi sono capitati alcuni dischi sottomano, più o meno per sbaglio, e certe volte mi ci sono affezionato. Era successo per il debutto dei presenti Funeral for a Friend, che si chiamava Casually Dressed & Deep in Conversation, che ogni tanto mi ritrovo tuttora ad ascoltare. Il suo seguito, questo Hours, non ebbe lo stesso effetto; è comunque un disco carino, ma troppo più moscio rispetto al precedente, più emo nel senso deteriore del termine. Si lascia comunque ascoltare, ma gli mancano i pezzoni del predecessore. Ho però sentito di doverne parlare perché bucai completamente il ventennale del debutto, ma per il resto, come si usa dire in questi casi, lo consiglierei solamente agli appassionati del genere.
SATANIC WARMASTER – Carelian Satanist Madness
Michele Romani: Carelian Satanist Madness ( il riferimento nel titolo a Thuringian Pagan Madness degli Absurd è abbastanza palese) si può considerare il disco della piena consacrazione dei Satanic Warmaster: non a caso è quello che ha venduto di più e che viene riconosciuto da quasi tutti come la migliore opera di Herr Werwolf. Stilisticamente non è che ci siano tutte ‘ste differenze dai precedenti: il suono dei Satanic Warmaster è sempre quello da anni, tipico black metal darkthroniano ultragrezzo ma levigato da quel gusto melodico classicamente finlandese, uno stile che ha fatto scuola ed è stato copiato da una miriade di gruppi, finlandesi e non. Da questo punto di vista, però, Carelian Satanist Madness è un lavoro (permettetemi il termine forte) più paraculo rispetto agli altri, la registrazione è nettamente migliore e si sente che è più incentrato sui singoli brani. A proposito dei brani, che dire, a ‘sto giro siamo veramente su livelli altissimi, con una menzione particolare per la traccia omonima, My Kingdom of Darkness, My Dreams of Hitler (così è riportata all’interno del booklet, mentre fuori c’è scritto My Dreams of 8) e le micidiali The Vampyric Tyrant e True Blackness; quest’ultima ha forse il ritornello più catchy mai scritto dai Satanic Warmaster, ma che ritornello, ragazzi. C’è poco altro da dire, per gli amanti del black metal di derivazione finnica questo è un must assoluto da avere a tutti i costi.
CENTINEX – World Declension
Luca Venturini: Ciccio aveva fatto un’ottima disamina della carriera dei Centinex in questo articolo, perciò vado dritto al sodo. World Declension è l’ottavo disco della band di Martin Shulman, nonché l’ultimo prima dello scioglimento del 2006 durato fino al 2014. È stato proprio con questo lavoro che li conobbi. Sulle prime mi ricordo che rimasi impressionato; era un disco potente, tirato dall’inizio alla fine, bombastico, con tanti blast beat e altrettanti tupatupa. Col tempo però mi resi conto che dietro a tutta quella apparenza c’era poca sostanza. Al di là di un paio di buone tracce come Victorious Dawn Rising e Synthetic Sin Zero, il resto non era poi così indimenticabile. Lungi da me dire adesso che sia un disco brutto; sarò condizionato dal fatto che questo è stato uno dei primi dieci dischi di death svedese che ho ascoltato in vita mia, e quindi sono condizionato positivamente, ma nel riascoltarlo personalmente percepisco il tentativo, sempre apprezzabile, di tirar fuori qualcosa di personale e nuovo. Allo stesso tempo credo gli manchi anche il coraggio di volerlo fare per davvero.
BAPTISM – Morbid Wings of Sathanas
Griffar: Il secondo album dei Baptism ha sempre sofferto il fatto di essere il successore dell’ineguagliabile The Beherial Midnight. Benché da quest’ultimo fossero passati tre anni, nei quali il gruppo di Lord Sarcofagian non è rimasto con le mani in mano – due EP e tre split hanno visto la luce, spesso per etichette minuscole e a tiratura limitatissima, ma poi ristampati nella raccolta Gloria Tibi Satana uscita per Northern Heritage nel 2015 – Morbid Wings of Sathanas è sempre stato, non so per quale contorto motivo, giudicato non all’altezza del suo illustre precedessore. Naturalmente io la vedo in modo del tutto differente, soprattutto dandone a posteriori un giudizio che non può essere diverso dalla larga sufficienza; a prescindere dal fatto che se Morbid Wings of Sathanas uscisse oggi sbaraglierebbe la quasi totalità dei dischi di black metal ortodosso pubblicati più o meno recentemente, l’album non ha un difetto che sia uno. Picchia un po’ meno duro, non fa ricorso alla costante velocità distruttiva, ma questo conferisce ai nuovi pezzi un groove più intenso, più pregno. Non è necessario buttarla sempre in rissa come fanno i Satanic Warmaster per palesare malvagità, ostilità e spietatezza: si può fare anche con mid-tempo pesanti e riff spessi, grevi, traboccanti disprezzo. I Baptism hanno preferito seguire una propria strada senza adeguarsi a quanto fatto – con meritato successo – da molti loro compatrioti che, anche grazie a loro, a un certo punto si sono trovati in mano lo scettro di miglior scena black scandinava. Fatevi un grosso favore, lasciate perdere porcheriole tutta forma e niente sostanza spacciate per capolavori e ascoltatevi dischi che hanno uno spessore autentico e una validità consolidata nel tempo. Morbid Wings of Sathanas è tra questi.
NAGLFAR – Pariah
Gabriele Traversa: Pariah dei Naglfar è il classico disco che compravi da adolescente metallaro nel 2005, quando eri talmente arrapato di musica da avere ancora cieca fiducia nei cattivoni figli di Satana che vedevi sulle riviste di settore. Una faccia imbruttita, una copertina inquietante e tutti da Ricordi Media Store con due spicci in mano. In realtà è una robetta blackened death metal senza infamia e senza lode, di mestiere al massimo, degno figlio del loffio triennio metallico 2003-2004-2005, di cui ho parlato e continuerò a parlare fino alla nausea. Però mi ricorda una vacanza in Sardegna con mia madre e mia sorella. Scali, traghetti e spiagge meravigliose con i Naglfar in sottofondo, perché i contrasti ci piacciono. Mi ero portato lui (appena acquistato), Chimera dei Mayhem e se non sbaglio il live degli Slipknot 9.0. Non possiedo più nessuno di questi dischi, e forse un motivo c’è.
GOREROTTED – A New Dawn for the Dead
Luca Venturini: Il nome Gorerotted magari potrà non dire niente a qualcuno. La band si sciolse infatti nel 2008, per poi riformarsi nello stesso anno come The Rotted, i quali si sciolsero a loro volta nel 2014. Il loro grind death era diventato col tempo sempre più interessante, fino a trovare la forma perfetta in questo disco, appunto. A New Dawn for the Dead è un gioiellino; l’approccio caciarone degli esordi è stato incanalato in strutture più solide e ragionate; le due voci, growl e scream, continuano a esserci, ma qui accompagnano con maggior sapienza le dinamiche. I riff sono più elaborati e c’è maggior varietà anche nei groove. I testi umoristici e un po’ canzonatori verso i cliché del genere rimangono invariati e sono sempre apprezzabili. Dopo questo disco cambieranno nome, come detto sopra, per continuare con un stile più spostato verso il crust punk, in parte iniziato già qui.
DARKANE – Layers of Lies
Marco Belardi: Finalmente riesco a godermi Layers of Lies, e c’è voluto del tempo. Il motivo è molto semplice: nel 2005 avevo i coglioni pieni di questa roba, sembravano il torrente Marina un attimo prima di buttare Campi Bisenzio sott’acqua. I Darkane passavano, peraltro, per il lato “originale” dello swedish death metal, con tutti quei gingilli virtuosi, tecnici, quei tratti distintivi che non potevano immergerli nella medesima ciotola dei Soilwork d’allora. Eppure, ascoltati con pieno piacere Rusted Angel e Insanity, più il primo che il secondo, forse, mi passò pure la voglia di Darkane. Li ho anche visti dal vivo fra il 2004 e il 2005 e sinceramente dedicai loro scarsa attenzione. Layers of Lies è in realtà un buonissimo disco. Paga un’eccessiva incoerenza fra la prima metà e la seconda, che è sicuramente meno ispirata, e un effetto sorpresa calante, poiché i due summenzionati titoli furono un fulmine a ciel sereno. Expanding Senses e questo furono il ripetersi di una formula assodata e matura, e fu un po’ come vedere i The Crown all’apice assoluto con Deathrace King e poi pretendere troppo a ogni loro futura uscita. Bellissimo il ritornello alla Strapping Young Lad di Organic Canvas, e sinceramente ne ricorderò poco altro, al netto della sua indiscutibile qualità.
TONER LOW – st
Barg: Sapete cosa vuol dire l’espressione wake and bake? Vuol dire quando ci si sveglia la mattina e per prima cosa SI FUMA. L’avete mai fatto? Dovreste. Mi direte che avete una vita da persone adulte, siete sposati, avete figli, un sacco di responsabilità che non vi permettono una cosa simile etc. Amici, l’anno solare è composto di 365 giorni. Prendetevi un giorno all’anno, uno, andatevene il sabato sera in un appartamento B&B, possibilmente con un amico, anche a poca distanza da casa, perché tanto da quell’appartamento non uscirete fino al lunedì mattina, e fatelo. La gente per distrarsi fa mille cose assurde, ma credetemi: non c’è niente di meglio di questo, anche solo un giorno all’anno. Vi spiego come si fa. Ci si sveglia la mattina, si va in cucina e si prepara la caffettiera. Mentre il caffè è sul fuoco, preparate tutto e fumate insieme al primo caffè della giornata. Poi spostatevi sul divano, fate partire un film, una serie tv, un documentario sugli orsi polari, una partita a FIFA o quello che volete voi e continuate a fumare, sempre, senza mai fermarvi, a intervalli più o meno regolari. Il mio consiglio è di tenere le finestre aperte: non credo nelle cosiddette chiuse, sono malsane, non aggiungono niente all’esperienza e hanno l’unica conseguenza di farvi bruciare gli occhi e tossire. E non bevete niente: l’alcool non è il punto della questione e soprattutto ha una funzione sociale che non ha nulla a che vedere con quello che state facendo in quel momento. Ciò che non deve mai mancare è la musica, e la musica migliore per questo genere di esperienze è lo stoner metal, possibilmente strumentale, ed è proprio in questi momenti che vi renderete conto che lo stoner metal è la cosa più bella del mondo. Spegnete il cellulare, lasciate perdere i telegiornali, i social network, i messaggini su Whatsapp e tutto il resto. Se vi viene voglia di guardare il telefono, fumatevene un’altra. E poi un’altra. E la mattina dopo, quando vi sveglierete freschi come una rosa, salutate il vostro amico e siate felici, perché l’anno prossimo potrete rifarlo di nuovo. Ma ascoltate il mio consiglio: un giorno all’anno, almeno un giorno all’anno, fatelo.






















Come sempre grazie, vado a recuperare Wizard e Darkane.
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ricordo ancora l’epica recensione rigardante natterfrost su metal shock
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