Avere vent’anni: marzo 2005
SABATON – Primo Victoria
Ciccio Russo: Ora non saprei spiegare bene perché io e Charles ci fossimo fissati così tanto con i Sabaton una dozzina d’anni fa. Sarà stata la voglia di metallo allegro e cafone dopo un lungo periodo dedicato ad altro. Sta di fatto che, come allora mi ero sicuramente fomentato in modo eccessivo per gli svedesi, il rischio oggi è ridimensionarli oltre il necessario, una volta resomi conto che sono forse la migliore epitome di tutto ciò che mi sta sulle scatole nell’heavy metal commerciale odierno. L’iperproduzione, le tastiere che coprono tutto, la doppia cassa sparatissima e artificiale, l’approccio fin troppo positivo e annacquato. Primo Victoria è il vero debutto dopo quel Fist for Fight che fu inciso con Underground Symphony ma sarebbe stato pubblicato, con un altro titolo, solo anni dopo. A risentirlo oggi, gli unici due pezzi che mi prendono bene sono anche gli unici che ricordavo, gli unici belli davvero: la canzone del titolo e la notevolissima Panzer Batallion. Altri episodi sembrano lunghe intro di brani che non iniziano mai. Roba come Wolfpack fissa un canovaccio che verrà poi reiterato allo sfinimento. Ma non me la sento di essere troppo severo. Alla fine i Sabaton sono come quella ex che, col senno di poi, era chiaro sin dall’inizio non fosse quella giusta ma in fondo ricordi con affetto perché a modo suo ti aveva fatto divertire. E pensare che il power metal non mi è mai piaciuto granché.
IMPALED – Death After Life
Griffar: Nel contesto goregrind di derivazione carcassiana pochi gruppi sono stati divertenti quanto gli Impaled. Tra loro gli Exhumed, gli Haemorrhage e i The County Medical Examiners, ma gli americani capitanati da Sean McGrath (voce e chitarra), Ross Sewage (basso) e Raul Varela (batteria) avevano una marcia in più. Non so se dovuto all’umorismo macabro grandguignolesco talmente smaccato da risultare teatrale, o all’abilità di scrivere canzoni (sì, canzoni) tese e violente eppure memorizzabili con facilità, fatto sta che nessun disco degli Impaled è al di sotto dell’eccellenza. Death After Life è una specie di concept album, i testi sono concatenati come fossero la sceneggiatura di un film splatter, filo conduttore che unisce gli otto brani più i quattro intermezzi di effetti che mantengono l’ascoltatore ben connesso allo scenario che la band ha voluto concepire sin dagli albori, perché nella scaletta sono presenti brani intitolati come alcuni dei loro lavori passati (Mondo Medicale, The Dead Shall Dead Remain, Medical Waste), come se tutta la loro carriera fosse stata riassunta in un unico disco. L’unica cosa che lascia un po’ interdetti è la produzione, giacché si pensava che il passaggio da Deathvomit a Century Media avrebbe ulteriormente proiettato il suono della band verso picchi di assoluta eccellenza, e invece le chitarre risultano essere più impastate e meno fragorose di quanto ci saremmo aspettati. È vero che il genere non richiede produzioni a-la Dream Theater, anzi un suono ruvido e sporco è più appropriato, ma secondo me una grossa etichetta come la Century Media avrebbe dovuto pubblicare un lavoro più curato.
ORIGIN – Echoes of Decimation
Luca Venturini: Nel 2002 gli Origin avevano fatto uscire Informis Infinitas Inhumanitas, il loro disco della vita. Quell’album era un concentrato di furia annichilente e ispirazione, e tutti i tecnicismi strumentali contenuti erano funzionali alla musica, con lo scopo di renderla il più devastante possibile, come allora scrisse Griffar. A tre anni di distanza uscì Echoes of Decimation che non si discosta troppo dallo stile del precedente, rimanendo ancorato a un brutal death tecnicissimo, ma non si contraddistingue per altrettanta ispirazione. Qui la tecnica non accompagna sempre la musicalità, anzi sembra un po’ fine a se stessa, e la maggior parte del disco passa via inascoltata. Qualche pezzo si fa comunque notare, come The Burner, Staring from the Abyss e la traccia omonima. Ad ogni modo, se avete curiosità e voglia di farvi massacrare le orecchie, un ascolto dateglielo, tanto dura meno di 30 minuti, e i funambolismi dei singoli musicisti difficilmente li sentirete altrove.
MAZE OF TORMENT – Hammers of Mayhem
Griffar: In attività dal 1995, questo manipolo di ragazzotti svedesi entusiasti e un po’ ingenui esordiscono due anni dopo con The Force, a cui sarebbe seguito il secondo Faster Disaster: due lavori grezzi, suonati anche discretamente benché con tutti i difetti dei lavori giovanili di gruppi che, oltre all’entusiasmo, hanno poco altro da mettere sul piatto, a partire dalla produzione, slegata e poco aggressiva per i canoni del death/thrash metal, passando per una certa staticità compositiva e culminando con la mancanza di anche solo un brano che facesse esclamare: “Ehi, sono fighi questi Maze of Torment”. Gli svedesi nel 2005 arrivano al quinto full, che è anche il picco della loro produzione; dieci anni di esperienza servono eccome, Hammers of Mayem è potente, trascinante, molto ben suonato e con pezzi che hanno un gran tiro: vedasi non solo l’accoppiata che apre l’album ma, sorprendentemente, anche gli episodi più articolati come Dead Soul, che con i suoi 5 minuti è il brano più lungo dei dieci qui presenti (evitando di considerare la trascurabilissima cover dei Venom in chiusura). Un po’ Merciless del periodo The Treasures Within/Unbound, un po’ The Crown di The Burning, Hammers of Mayhem avrebbe potuto e dovuto lanciare il gruppo in orbita verso il successo o comunque verso un pubblico meno di nicchia. Invece non successe, e dopo un ultimo album del 2007, molto meno pregiato, la band si sciolse senza troppi clamori.
KAMELOT – The Black Halo
Barg: The Black Halo all’epoca ebbe un successo spaventoso, proporzionalmente al genere, e devo ammettere che anche io mi lasciai trascinare dall’entusiasmo. Mi trovo però costretto a rivedere qualsiasi cosa di positivo abbia detto su quest’album, che è freddo, impersonale, asettico, stucchevole, fighetto, riccardone e che in definitiva lascia la fortissima sensazione di essere stato costruito a tavolino in base a ciò che poteva piacere al pubblico metal di allora. Come detto, i Kamelot riuscirono perfettamente nel loro intento, ma ciò non toglie che The Black Halo sia un disco senz’anima, con le varie componenti bilanciate scientificamente e dosate col misurino per risultare il più accattivante possibile. Cioè, tutto perfetto, tutto preciso, tutto raffinato e maturo, tutto pettinato, però dai, oh, che due coglioni. Completano il lavoro una produzione leccatissima (ad opera dei vecchi volponi Sascha Paeth e Miro) e alcune ospitate strategiche (Shagrath nell’apertura March of Mephisto e Simone Simons in The Haunting) che lasciano in bocca il sapore di paraculata suprema.
PANTHEIST – Amartia
Griffar: Per quanto riguarda il funeral doom, per i miei gusti Amartia è il miglior disco che sia venuto alla luce da quando il sottogenere è stato individuato e considerato a sé stante. Venato da strane sfumature progressive, l’album è un concept sui sette peccati capitali e questa vena religiosa è fortemente marcata durante tutto il suo percorso, non breve – dura infatti 76 minuti – eppure sempre coinvolgente, emozionante, quasi liturgico. Per comprendere quanto geniale sia Amartia vi basti ascoltare il brano d’apertura Apologeia, benché definirlo semplicemente “brano” sia fin troppo riduttivo: al suo interno troverete canti gregoriani, voci inizialmente cavernose che poi si dipanano in ogni modo possibile fino all’epico-evocativo, una chitarra lenta, lentissima, che suona un ritmica destrutturata che non è neanche possibile definire riff, perché manca del tutto la concatenazione di note. Poi, in un crescendo di tensione spasmodica, il pezzo raggiunge l’apice in una sfuriata black metal sottolineata da organi maestosi su riff velocissimi. Un capolavoro. Nel procedere, l’album propone soluzioni che rendono il funeral doom dei Pantheist peculiare ed innovativo grazie a espedienti diversi, abbracciando mutevoli situazioni e sfiorando il death melodico, l’epic e, come già detto, il progressive, sicché, quando il brano che chiude l’opera (Metanoia), riprendendo lo schema del pezzo di apertura, si conclude, si ha la sensazione di aver ascoltato qualcosa di unico e irripetibile. Amartia è un disco eccezionale.
BEATRIK – Requiem of December
Michele Romani: Secondo e ultimo capitolo discografico per i Beatrik, progetto composto unicamente dall’altoatesino Frozen Glane Samara, ancora attivo con il suo gruppo più conosciuto, i Tenebrae in Perpetuum. Se nell’esordio Journey Through The End of Life parlavamo di un black metal dalle chiarissime influenze burzumiane, in questo Requiem of December (che è anche il mio preferito dei due) ci ritroviamo di fronte ad un disco sì sempre soffertissimo, ma molto più dedito a tonalità doom che black, con riferimenti neanche troppo velati all’esordio dei Katatonia Dance Of December Souls. Doom dalle tinte funeree con forti venature black, quindi, con i latrati disperati di Samara che fanno impressione per quanto siano simili a quelli di Renkse nel disco sopracitato. I brani sono solo sei, tutti con una durata media di 7-8 minuti e tutti di grandissima fattura, tra cui spiccano The Last Wandering (la più black di tutte) e la meravigliosa title track, una delle robe più tetre ed angoscianti che mi sia mai capitato di ascoltare. Un progetto, quello dei Beatrik, che avrebbe sicuramente meritato maggior fortuna, andatevi a rispolverare ‘sto disco e non ve ne pentirete.
ODIOUS MORTEM – Devouring the Prophecy
Griffar: Mio malgrado, nelle recensioni su Metal Skunk non sono consentite interiezioni scarsamente religiose tanto care alla popolazione italiana residente nel Nord-est, ma posso garantire che al termine dell’ascolto dei dieci brani presenti in Devouring the Prophecy, debutto degli americani Odious Mortem, esattamente 23 minuti e 33 secondi dopo il suo inizio, la tentazione è sempre forte. Meglio un più edulcorato “staminchia!” allora, ma una bordata di questo tipo comunque non può lasciare indifferenti. Benché tuttora relativamente poco nota, la band si posizionò immediatamente ai vertici del brutal death tecnico, contorto, intricatissimo e caratterizzato dal costante intervallarsi di stacchi, accelerazioni brucianti e repentine, cambi di tempo, riff contorti complicati oltre il mero significato della parola. Del resto, il disco fu patrocinato dalla Unique Leader, etichetta-faro per il brutal death di qualità superiore. I brani soddisferanno i palati più esigenti di coloro che idolatrano i primi Suffocation, i Defeated Sanity o gli Spawn of Possession, anche se a mio parere il punto di contatto più prossimo degli Odious Mortem sono i Flesh Consumed, perché hanno la stessa impostazione derivante dal grindcore: solo tre canzoni su 10 superano i tre minuti, la triade centrale Through Disruption/Carpal Tunnel/Third Pawn non raggiunge neanche i due ciascuno. È anche questa una delle carte vincenti del disco: il diluvio di note è intensissimo ma breve, e finisce prima che si possa instillare un briciolo d’insofferenza che non di rado subentra se non si è avvezzi a situazioni sonore così estreme. In questo caso è assai appropriato il detto “vent’anni e non sentirli”.
DRUDKH – The Swan Road
Michele Romani: Se la memoria non m’inganna comprai The Swan Road il giorno della sua uscita, e ricordo rimasi ad ascoltarlo (cosa che non faccio mai) per almeno 5 ore buone, arrivando alla fine e ripremendo daccapo il tasto play. Penserete che il motivo fosse che mi piacesse da morire ed invece no, esattamente il contrario: The Swan Road non mi piaceva proprio, non riusciva a entrarmi dentro e così riprovavo invano a sbatterci la testa contro, perché avevo letteralmente consumato i due capolavori precedenti e non riuscivo a capire esattamente cosa c’era che non andasse in questo. Alla fine trovai una specie di risposta: non era male, ma non mi sembrava per nulla un disco dei Drudkh. Mancavano del tutto quegli spettacolari stacchi acustici e quell’aria bucolico-malinconica di cui erano pregni sia Forgotten Legends che Autumn Aurora, insomma mi sembrava un disco un po’ freddo e con un suono di chitarra distortissimo, troppo per un disco dei Drudkh, compresi alcuni assoli alla cazzo di cane che mi chiedo ancora oggi cosa c’entrino col tipico mood del gruppo ucraino. Con il passare degli anni e degli ascolti è un po’ cresciuto: alla fine parliamo sempre dei Drudkh, e un riff come quello al quarto minuto circa di Eternal Sun solo Roman Saenko è in grado di comporlo, anche se in generale non sono mai più riuscito a ritrovare la magia (o semplicemente il fattore sorpresa) dei primi due lavori.
HORNA – Envaatnags Eflos Solf Esgantaavne
Griffar: Come tutti sanno la discografia degli Horna è sterminata. Tuttavia Envaatnags Eflos Solf Esgantaavne è solo il loro quarto full, il quinto se consideriamo anche Hiidentorni – che sarebbe la seconda demo poi ufficialmente ristampata in CD da Solistitium records nel 1998. In realtà questo disco fu accolto abbastanza tiepidamente, pure con questo titolo palindromo strampalato immemorizzabile (ma che in realtà cela al suo interno il vero titolo Evangels of Satan). Arrivò a quattro anni di distanza da Sudentaival, pressoché universalmente considerato uno dei loro migliori lavori; nel frattempo una sfilza di EP, split e quant’altro che fecero storcere il naso ai fan, i quali cominciarono a considerare la produzione degli Horna troppo dispersiva. Questo approccio in realtà è del tutto sbagliato, perché il disco è tranquillamente collocabile ai vertici della loro arte: ad esempio, il solo pezzo di apertura Vihan Tie vale da solo l’acquisto, impostato su un’alternanza di riff efficacissimi che entrano subito in testa e si ricordano agevolmente anche dopo tutto questo tempo. Tutti i brani però sono snelli, non esageratamente complicati, e hanno quel feeling oscurissimo diventato marchio di fabbrica dell’entità di Shatraug. Ci delizieremo allora ascoltando il superbo black metal di Musta Temppeli o della lunga Kuoleva Lupaus, posta prima di un’inedita strumentale (Zythifer) che in teoria avrebbe dovuto chiudere l’opera. In realtà il CD contiene una bonus track, mentre il vinile assume i connotati di un doppio album vista la presenza di 6 brani in più – tutti inediti, tra essi non è presente la bonus prevista nel CD – che stravolgono la scaletta primeva del disco portandone la durata a circa 81 minuti. È uno dei lavori più belli del gruppo finlandese, se già non lo conoscete vi suggerisco caldamente di riscoprirlo.
CEPHALIC CARNAGE – Anomalies
Luca Venturini: Con il precedente Lucid Interval i Cephalic Carnage stavano iniziando non solo a farsi notare molto ma anche a trovare una propria quadra compositiva. Lo stile che stavano creando era un misto di death, grindcore e sludge/stoner. La formula, filtrata attraverso la tecnica eccelsa dei singoli musicisti, era assolutamente originale e altrettanto gagliarda. Quel percorso di crescita sarebbe poi confluito in questo Anomalies, che era e rimane un disco incredibilmente figo. Mai banale e sempre sopra le righe, secondo me rimane la vetta più alta della loro discografia. Ciascun pezzo è praticamente perfetto, e nonostante 45 minuti per un album così schizzato possano sembrare tanti (vabbé, diciamo che solo l’ultima traccia dura quasi 10) non si fanno assolutamente sentire, anzi vien voglia di farlo partire nuovamente. Le dinamiche, le accelerazioni e i rallentamenti sono gestiti magistralmente, donando una varietà superba all’intero album. I riff di chitarra e la sezione ritmica spaccano i culi, e anche la voce di Leonard Leal cambia coerentemente a seconda del momento. Da qui in avanti non avrebbero più sbagliato niente. Peccato solo sia dal 2010 che non fanno un disco.
DARKTHULE – Wolforder
Griffar: Titolari di una discografia di dimensioni considerevoli, i greci Darkthule si formarono nel 2002 e furono sin dagli inizi piuttosto prolifici. Generalmente il black greco ha delle caratteristiche particolari tutte sue, ma nel caso dei Nostri ciò viene smentito; le influenze principali risiedono nel black metal ortodosso norvegese: DarkThrone, Mayhem, Burzum. Da lì non si scappa. Nonostante la band si sia distinta per una corposa presenza nel mercato underground, Wolforder è solo il secondo e per il momento ultimo full della loro carriera, sette brani (l’ultimo è la cover di Lost Wisdom, Burzum) per circa 36 minuti di un black metal tradizionale, suonato con furia e convinzione, senza invero nulla di sconvolgente o imperdibile. Gran parte del culto che ammanta la band deriva dai testi NSBM e dalla difficoltà che si è sempre incontrata nel cercare le edizioni fisiche dei dischi (ovviamente allo stato odierno tutti rigorosamente bloccati su Discogs) piuttosto che dall’abilità compositiva/artistica del terzetto, ma questo di per sé è irrilevante, perché, con gruppi fondati sulla pura attitudine, questo capita di frequente. Sin dai primi passi i Darkthule non hanno mai preteso di stravolgere o modernizzare il black metal, la musica è un tramite per comunicare le loro idee e non ha intenzioni più profonde; quanto questo sia sensato o meno non sta a me sindacarlo. Col tempo le loro uscite si sono diradate, dal 2005 al 2019 solo tre EP e tre split, oltre a compilation di vecchi demo. Si professano ancora in attività, sebbene non si abbiano notizie recenti che li riguardino.
PORCUPINE TREE – Deadwing
L’Azzeccagarbugli: Ultimo atto del periodo “metal” (si fa per dire) dei Porcupine Tree, band che ha un seguito senza pari nel nostro Paese e che proprio in occasione del tour di Deadwing passò due volte dalla Capitale. Ho molti ricordi legati a quei concerti, quello al Qube, dove ho avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Carlo Verdone e con gli Anathema di spalla, artefici di una prova straordinaria; quello al Centrale del Tennis con i Balletto di Bronzo di spalla, con un noto musicista e promoter di concerti dell’epoca che bestemmiava, saltellando comicamente, perché il Balletto continuava a suonare sforando i tempi. Inutile parlare delle esibizioni dei Porcupine Tree, perché, come sempre, sono stati semplicemente perfetti, con una scaletta incentrata ovviamente sui pezzi di Deadwing. Un album che, anche a distanza di vent’anni, resta decisamente riuscito, con alcuni cali di tensione soprattutto nei brani più brevi e tirati, ma straordinario sia in quelli melodici, che in quelli più articolati. L’apertura fa comprendere benissimo ciò che ci aspetta: canzoni più incentrate su riff pesanti, come alcuni del precedente In Absentia, brani molto lunghi, con aperture melodiche semplicemente perfette. Come dimostrato, in particolare, dalla doppietta Arriving Somewhere But Not Here/Mellotron Scratch, cuore pulsante dell’album e di gran lunga suo momento migliore, con quell’armonia di cori (nel secondo pezzo) che solo i Porcupine Tree riescono a creare. Funzionano anche pezzi come la beatlesiana Lazarus o la complessa Open Car e, in generale, i momenti di calo sono pochi. Pur essendo inferiore ai suoi tre predecessori – molto diversi tra loro – Deadwing resta un signor album e, in alcuni momenti, costituisce un ponte per il futuro, molto più “freddo” (ma non per questo meno interessante) dei Nostri.
VORDR – II
Griffar: Sempre dalla Finlandia infurianti, nel 2005 i Vordr pubblicarono il loro secondo disco intitolato semplicemente II, black metal rozzo, sgraziato dalla fortissima attitudine punk, non particolarmente melodico in quanto focalizzato per principio sull’impatto brutale puro e semplice. Anche la registrazione e la produzione ultraminimale contribuiscono ad aumentare la sensazione di rudezza grossolana e sgarbata: specialmente le chitarre sono “afflitte” da imprecisioni intenzionali come neanche in una demo di basso livello. Fischi, feedback, riverberi esagerati, scariche elettriche, il tutto mentre Gand vomita, con uno screaming acutissimo ai limiti del sopportabile, liriche di odio senza compromessi in brani non particolarmente veloci o complicati, meno che mano tecnici. Non temete di annoiarvi, perché malgrado ciò qualche episodio dove si mettono a tirare come rinoceronti imbizzarriti c’è. II segue di un anno il debutto e ne ricalca in modo fedelissimo gli schemi: composizioni semplici, prevalentemente brevi, sbattute in faccia all’ascoltatore come palle di neve ghiacciata quando si è legati a un palo della tortura. I Vordr hanno 5 album, 6 split, 4 EP e due demo, e di questi ben cinque sono intitolati semplicemente Vordr, pur essendo tutti episodi diversi con canzoni diverse. Minimalisti fino al midollo, non hanno mai abbandonato quest’attitudine né musicalmente né, diciamo, filosoficamente. L’ultimo loro lavoro risale al 2019 (indovinate il titolo…), si sono sciolti poco tempo dopo.
ACID KING – III
Barg: Ci sono dischi, o gruppi, che quando li ascolti dici a te stesso “questa è la musica più bella del mondo”. Non vedo come altro poter cominciare una recensione degli Acid King, monumento massimo e supremo dello stoner metal, quel tipo di musica che DEVI ascoltare in determinate condizioni psicofisiche e se così non è allora partono le immonde maledizioni verso quel ministro della Repubblica che ha stabilito che se ti fermano alla guida e scoprono che una settimana prima ti sei fatto un sifone ti arrestano e ti tolgono la patente per tre anni. III mi riporta alle serate pressato nei minuscoli locali dove si tiene il Tube Cult, con la mente che vagava tra i mondi esterni e il corpo messo a dura prova da chili di pecora arrosto. Mi ricorda il Sinister Noise, il più glorioso locale mai esistito, che Shub-Niggurath lo abbia in gloria, e il suo caratteristico odore tra scantinato, erba e Peroni calda comprata al bangla affianco. Odore di felicità. Mi ricorda un sacco d’altre cose, eventi, giornate, esperienze, che sarebbe troppo lungo e sconveniente riportare qui, ma che sono felice di aver vissuto e di vivere tuttora, seppure molto meno frequentemente, perché sono proprio quelli i momenti in cui mi sento più in pace con me stesso e con l’universo. E ascoltare gli Acid King mi fa risalire tutto di colpo, ogni volta, tutte le volte. Questa è la musica più bella del mondo.















beh, saranno sopravvalutati i Sabaton, però Carolus Rex è un gran disco. concordo sulla paraculata dei Kamelot e anche sulla parziale delusione dei Drudkh, oltre che della necessità di riscoprire i Beatrik. invece Deadwing lo ho detestato, dopo lo splendido in absentia. degli Acid King, questo secondo me è il miglior album
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Quando si intende “metal divertente” i Sabaton sono un giusto esempio: sopra le righe ma con canzoni serie, infatti sono credibili anche se ci sono persone che non li sopportano (quello succede a tutti), non parliamo di “cabarettisti che si spacciano per musicisti” (ogni riferimento è puramente casuale).
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