Avere vent’anni: PORCUPINE TREE – In Absentia

In Absentia è un disco di snodo di grande rilevanza nella carriera dei Porcupine Tree, band dalle tante vite e dai molteplici cambi di rotta. La loro evoluzione però non è mai stata brusca, netta e irreversibile, ma è sempre avvenuta in modo organico. Così, come dalla psichedelia più sperimentale degli esordi si è arrivati al suono più pinkfloydiano del bellissimo The Sky Moves Sideways, e da lì alle composizioni più immediate e pop (nell’accezione più nobile del termine) di Stupid Dream, con In Absentia si intraprende un progressivo passaggio verso sonorità più pesanti.

Probabilmente influenzato dalle “frequentazioni” di Steven Wilson di ambienti metal – non può non menzionarsi la sua collaborazione su Blackwater Park degli Opeth nel 2001 – In Absentia mette subito le carte in tavola con Blackest Eyes, diventato uno dei loro brani più famosi, che si apre con quello che, fino al 2002, è senz’altro il riff più pesante dei Porcupine Tree. Anche in questo caso non vi è una virata netta: nello stesso pezzo, costruito su questo magnifico riff di stampo metal, convivono passaggi beatlesiani, momenti progressive e una costruzione da brano pop perfetta. Un incrocio tra passato, presente e futuro dei Porcupine Tree che, nella successiva e ormai memorabile Trains, salgono in cattedra per insegnare sia come si scrive una canzone pop semplicemente perfetta sia come determinati album dovrebbero essere prodotti.

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Perché In Absentia, ancor più dei suoi predecessori, apre il periodo più felice come ingegnere del suono di Steven Wilson che da quel momento in poi, indipendentemente dalla qualità dei singoli dischi, quando salirà in cabina di regia per lavori propri o altrui riuscirà sempre a creare un suono unico, immediatamente riconoscibile e davvero impeccabile.

Chiusa la parentesi riccardonissima da “senti che tocco”, tutto il disco (che, senza girarci intorno, è tra i 2/3 migliori lavori della band) si basa su questa contrapposizione tra suoni più pesanti e strutture pop, come nella riuscitissima Sound of Muzak o nel finale di Gravity Eyelids. Contrapposizioni che dal vivo diventano ancora più evidenti grazie a un volume devastante sui pezzi più tirati e al notevole coinvolgimento di tutta la band. Come da tradizione anche i migliori album dei Porcupine Tree sono perfetti nella loro imperfezione, perché in mezzo al disco troviamo degli episodi che, pur essendo riusciti, vengono schiacciati dal resto delle composizioni, come la strumentale Wedding Nails o la dissonante The Creator has a Masterpiece, brano più pesante del lotto.

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Minuzie che non intaccano minimamente il livello medio di un album caratterizzato da mille sfaccettature e che si conclude in modo poco superbo e struggente. Se si eccettua la ritmata e nervosa Strip the Soul, il finale è all’insegna della malinconia assoluta, tra una Heartattack in a Layby, che contiene alcune delle armonizzazioni vocali migliori che mi sia mai capitato di ascoltare, e Collapse the Light into Earth che è una delle ballate più intense e placide mai composte da Wilson e soci, con Barbieri che si inventa un giro di piano talmente semplice da risultare perfetto.

E anche vent’anni dopo è sempre piacere tornare su questi brani. Ogni volta è come ritrovare un amico che non vedi da tanto tempo: bastano pochi secondi per ricordarti perché vuoi bene a quella persona e ne servono ancora meno per ritrovare quella sintonia perfetta. (L’Azzeccagarbugli)

3 commenti

  • Purtroppo non hanno più raggiunto questo livello. Alcuni dischi notevoli come “Fear of a blank planet” o “Deadwing”, ma niente che si avvicini minimamente (parere personalissimo ovviamente).

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  • gran disco, e unico loro che mi piace davvero, misteri della fede.
    collapse the light into earth è una canzone ultraterrena

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  • Sono arrivato ai Porcospini perché negli anni novanta erano un feticcio di Radio Rock (Roma, 106.6). Il mio battesimo fu Radioactive Toy (c’hanno veramente fatto due coglioni così, all’epoca). Di lì una certa curiosità, finché un tizio che viveva con il chitarrista della mia vecchia band, su mia richiesta, mi masterizzò Signify. Onestamente non mi ha mai fatto una enorme impressione quel disco ma c’era qualcosa nella loro musica che mi toccava delle corde, al tempo.
    La mia fissa per gli Opeth fece il resto e comprai In Absentia perché Michele Akerfello aveva dichiarato che era il loro disco migliore. Stronzate, ovviamente e coglione io a pensare che il futuro Diego Della Vega fosse “il verbo”.
    Ma nonostante tutto sono legato emotivamente a questo album. In qualche modo chiude una fase della mia vita.
    Oggi, spogliato del carico emotivo di allora, non lo comprerei. Non perché sia invecchiato male ma riascoltandolo lo trovo non più allineato al mio sentire attuale.
    In definitiva i Porcupine Tree sono stati e saranno sempre una band sopravvalutata. Approfondendo il prog a posteriori, è un pensiero inevitabile. E vale a maggior ragione per i Pin Floi (oi demo a veder i Pin Floi).

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