Avere vent’anni: DRUDKH – Forgotten Legends

Michele Romani: Forgotten Legends rappresenta uno degli apici creativi di quella creatura misteriosa a nome Drudkh, superato solo (anche se di poco) da quella gemma assoluta del successivo Autumn Aurora. Il gruppo nasce nel 2003, quando i due mastermind Roman Saenko e Thurios decidono di mettere momentaneamente da parte le derive estreme (sonore ma soprattutto liriche) dei loro altri progetti per crearne uno che avesse come fonte principale di ispirazione l’impervia natura ucraina e l’orgoglio nazionale slavo. Il risultato è un qualcosa che raramente si era mai sentito prima, tanto che molti indicano questo disco come il vero e proprio punto di partenza di quello che viene denominato atmospheric black metal, pur nella sua forma primordiale e senza quelle derivo zuccheroso-fiabesche dei tanti gruppi che hanno cercato di imitarli nel corso degli anni. Intendiamoci, dal punto di vista prettamente sonoro i Drudkh non si sono inventati chissà cosa, l’impostazione è quella classica burzumiana (Filosofem soprattutto) con riff ripetuti allo sfinimento, ma riescono comunque a creare attorno all’ascoltatore una sensazione di odio misto a disperazione che ha avuto pochi eguali nella storia del genere. L’opener False Dawn, per quanto mi riguarda, resta tuttora il miglior pezzo mai scritto dai Drudkh (il break centrale che parte al minuto quattro circa è una roba da brividi), ma anche le successive Forest in Fire and Gold (la descrizione perfetta della copertina) ed Eternal Turn of the Wheel sono di livello altissimo, mentre il quarto e ultimo brano non è altro che un sottofondo di pioggia scrosciante. Nonostante i più che buoni lavori successivi resto convinto che i Drudkh non si siano più ripetuti sui livelli dei primi due dischi, anche se – escludendo il leggerino Handful of Stars – praticamente non hanno mai sbagliato un disco.

Griffar: Uno dei dogmi primari per il metallaro è che di solito i primi due/tre dischi di un gruppo sono “i migliori che abbiano mai fatto”, “capolavori irripetibili”, “eh ma un disco come XXXXX non lo hanno mai più replicato” e via discorrendo. Di solito considero questi discorsi come delle solenni stronzate perché ci sono decine di esempi che smentiscono questi assiomi, però nel caso dei Drudkh no, non posso esimermi dal confermare che il presente album d’esordio Forgotten Legends e i due successivi siano il loro apice: dopodiché, tra divagazioni folk, epic, pagan e quant’altro lentamente ma costantemente sono stati tutto un calando. Drudkh è uno dei numerosi progetti del nazionalista ucraino Roman Saenko e del suo manipolo di accoliti, con lui in qualche momento nel tempo anche in Hate Forest, Blood of Kingu, Astrofaes e molti altri. Doveva essere un side project, è diventato un fenomeno commerciale globale in prima battuta nelle mani dell’inglese Supernal music (non nuova a pubblicare musica “elitaria”, si può dire?) che li ha lanciati. Quelli che vale la pena avere sono i primi tre, black metal classico, cadenzato, d’atmosfera, abbastanza ispirato seppur banalotto nella forma (due o tre riff portanti ripetuti all’infinito: False Dawn dura 16 minuti, Eternal Turn of the Wheel dodici e Forests in Fire and Gold nove, tutti con la stessa formula e meno male che i brani sono solo tre, più una outro del cazzo) e complessivamente anche nella sostanza. Certo, Saenko è un mito, un’icona per i NS blacksters di oggi, ma non ho mai potuto fare a meno di chiedermi se il successo dei Drudkh fosse dovuto alla reale consistenza della loro musica o piuttosto alla storia personale di chi ci suona dentro. Le prime stampe in vinile uscite per Northern Heritage hanno prezzi da scuoiamento, e ora che la Season of Mist ha acquistato e ristampato tutto il catalogo i vinili continuano a viaggiare sui 50 euro nuovi (spese postali comprese, alleluja) e le cassette sui 25 euro, una follia. Basta scrivere Drudkh, precisare che l’edizione è limitata e i tonni ci cascano e pagano cifre fuori mercato. Era questo che volevamo diventasse il black metal? Io no di certo, ma io non conto un cazzo.

7 commenti

  • stupendi questo e il successivo… bellissimi tutti fino a microcosmos almeno… tra i miei gruppi preferiti degli ultimi 20 anni

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  • Microcosmos, secondo me, è il loro apice ma questo si situa immediatamente al secondo posto, e di poco. Ma dopo Microcosmos, tristemente, di un piattume veramente spiazzante.

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  • Purtroppo per me non riesco più a ritrovare quella magia che i Drudkh avevano quando li ascoltavo vent’anni fa. Ricordo che riuscivo completamente a perdermi nelle loro tracce infinite, apprezzando ogni minima sfumatura. Poi, li ho mollati dopo l’ottimo Microcosmos, ma quando ho provato a riascoltarli con l’età di oggi, mi scasso le balle…

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  • Ho sempre visto Saenko come il Leandro Arpinati della situazione. C’è del romanticismo vero nel suo modo di approcciare quel che fa. Nessuna concessione ai dettami del business, solo chilogrammi e chilogrammi di attitudine, da qualunque lato la si voglia vedere. E non sto dicendo che lo condivido. Sto dicendo che lo comprendo.
    A me, per esempio, il nuovo disco degli Hate Forest piace da morire. Lo sento nelle vene, ne percepisco l’onestà.
    Stessa cosa per They Often See Dreams About the Spring. È un disco che in qualche modo risente dell’influenza degli Mgla. Sono convinto di questo. Ma è anche un disco che sa piegare il flusso di una tendenza attuale, di un certo stile nel concepire il black metal, al proprio modo di plasmarlo romanticamente.
    Non so quanti ascolti concedete a un album. Vero, come scriveva da qualche parte quel pelato di merda che vive in una Terra che mi appartiene, che ci abituiamo a tutto; per cui non servono infinite reiterazioni per farsi un’idea rifinita. Ma è altrettanto vero che ormai gettiamo alle ortiche, dopo due sniffate di mezzo riff, quello che non ci tocca corde immediate.
    L’ultimo album dei Drudkh non l’ho ancora sentito. Non so voi. Mi sta venendo voglia di farlo. Vediamo che succede.

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    • Non farlo. Non subito. Il nuovo Drudkh è il classico disco che ti aspetti da chi incide per Season of Mist. Dev’essere estremo, ma non troppo. Melodico, ma non troppo. Atmosferico, ma non troppo. Dev’essere il disco che potenzialmente piace a chi ascolta i Marduk, i Manowar, i Sepultura, gli Absurd, i Katharsis, Giorgia e Laura Pausini. Il suo problema è proprio quello.

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  • No, non è questo che volevamo diventasse il Black Metal.
    Comunque anche Blood in our Wells, il quarto album, è fenomenale.

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