Avere vent’anni: agosto 2004

BORKNAGAR – Epic

L’Azzeccagarbugli: Questa volta è molto semplice dire la mia sui vent’anni di Epic: ricordate quello che avevo scritto su Empiricism? Ecco, potrei scrivere le stesse identiche cose del sesto disco dei Borknagar, ma forse con un’accezione ancora più positiva. Perché, come emerge sin dall’iniziale – splendida – Future Reminiscence, Epic sceglie un approccio più diretto e – nomen omen – più epico rispetto al suo predecessore. Pur non rinunciando alle strutture progressive che avevano caratterizzato il lavoro precedente, si lasciano alle spalle alcune “complicazioni” eccessive come nelle splendide Origin e Relate, o nella tiratissima Resonance, forse anche grazie alla nuova linfa vitale – che diventerà sempre più importante – conferita dall’ingresso in formazione di Lars A. Nedland dei Solefald. Un ottimo lavoro che chiude idealmente il primo periodo d’oro dei Borknagar, che ritorneranno ai consueti, altissimi, livelli a partire da Winter Thrice.

DANZIG – Circle of Snakes

Stefano MazzaGlenn Danzig ha sempre portato avanti il suo progetto in modo molto autentico, personale, ragionato, basato su alcuni aspetti fondamentali, fra cui uno stile integerrimo di dark rock e la sua voce inconfondibile. Per questo la qualità dei suoi album è stata sempre alta. Circle of Snakes proseguì su questa strada, con la voce giustamente protagonista, ma non solo: ne rappresentò l’episodio più pesante di sempre, e difatti è quello che indugiò maggiormente nel metal, con un suono scurissimo, ancora più sabbathiano del solito: accordature ribassate, distorsioni aggressive, ritmi ipnotici. Prodotto in proprio dallo stesso Glenn, come del resto ha sempre fatto con tutto il materiale fin dai tempi dei Misfits, è un ottimo album: articolato, piacevolmente vario, complesso quanto basta per mantenere sempre alto l’interesse, dannato e malato nello stile. I testi, poi, sono piuttosto difficili da capire, hanno qualcosa di personale e di inquietante, più del solito. Non mi pare che questo Circle of Snakes abbia ricevuto l’attenzione che meritava, anche a suo tempo, per cui è da recuperare e da riascoltare, adesso.

LORD BELIAL – The Seal of Belial

Michele Romani: Chi mi segue da un po’ qui a Metal Skunk conosce oramai la mia fissa per i Lord Belial, band svedese troppo presto buttata nell’immenso calderone dei cloni dei Dissection, ma che ha mostrato nel corso degli anni una notevole personalità, sfornando dischi piuttosto diversi l’uno dall’altro. Questo The Seal of Belial segue di due anni il controverso Angelgrinder, in cui gli svedesi avevano cercato di brutalizzare il suono a scapito delle loro tipiche aperture melodiche. La peculiarità di questo lavoro sono i tempi mai eccessivamente veloci, di blast beat se ne sentono pochi ma quel tipico marchio di fabbrica death-black melodico ci sta tutto, anche se siamo distantissimi come stile da roba come Enter the Moonlight Gate dove il black metal tout-court la faceva da padrone. Diciamo che sia questo disco sia i due successivi mostrano un lato dei Lord Belial fino ad allora poco esplorato, fatto di parti rallentate e molto atmosferiche (l’unica eccezione è l’ottima Abysmal Hate che riporta un po’ ai vecchi tempi), con assoli veramente ben fatti e un certo flavour oscuro e goticheggiante che si respira soprattutto nella parte finale del lavoro. Non il miglior parto dei Lord Belial (i due che verranno dopo li reputo superiori, Fleshbound in particolare), ma comunque un disco di tutto rispetto per una band mai realmente considerata come si deve.

ALGHAZANTH – The Polarity Axiom

Griffar: All’altezza del 2004 i finlandesi Alghazanth erano una realtà consolidata del symphonic black metal mondiale, cosa che ribadirono con il quarto LP The Polarity Axiom, 40 minuti di musica furiosa, maligna e contemporaneamente tecnica e melodica come solo i finlandesi sanno essere in ogni rivolo identificabile nell’universo heavy metal. Certo, assomigliano considerevolmente ai Dimmu Borgir, specie per la costruzione dei brani, non eccessivamente lunghi e impostati su un riffing verticale, con accordi arpeggiati prolungati e un tremolo picking che aumenta la percezione di alta velocità. In effetti, la musica degli Alghazanth ha una resa sonora più violenta dei “rivali” norvegesi, più adrenalinica, il che probabilmente li ha resi più graditi a quel pubblico che considera i Dimmu Borgir troppo melensi. Qui al contrario è tutto bilanciato: melodia, violenza, tecnica, atmosfere; questo anche perché la produzione è perfetta, così come i suoni, e ogni strumento ha il suo spazio senza che uno prevalga sugli altri, pur rimanendo ovviamente chitarrocentrici come logica vuole. Non temete, non mancano le tastiere che garantiscono a tutte le composizioni un’aura solenne e maestosa. La sola opener Soulquake vale tutto il disco, e visto che anche gli altri brani sono sullo stesso livello avrete di che divertirvi.

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NAPALM DEATH – Leaders Not Followers Part 2

Stefano Mazza: Come il precedente EP che rappresentò la prima parte, Leaders Not Followers Part 2 è una rassegna di cover scelte fra il metal estremo e l’hardcore, riproposte nello stile dei Napalm Death dei primi Duemila. Fu un tributo a una scena, anzi a più scene del mondo, a un certo modo di intendere la musica e, più in generale, a una certa attitudine. Si omaggiano nomi famosi, fra cui Cryptic Slaughter, Hellhammer, Insanity, Kreator, Agnostic Front, Sepultura, Anti Cimex, Discharge, Master, Massacre, Dayglo Abortions, Wehrmacht, Siege, Die Kreutzen, accanto ad altri rimasti nell’underground, ovvero i Devastation con il loro brano omonimo. Il motivo della pubblicazione di questo secondo album di cover appare discutibile e non immediatamente comprensibile per certi aspetti, ma lo diventa se osservato nel contesto di vent’anni fa, ed è anche un ascolto molto godibile, vista l’interpretazione tanto personale e coinvolgente che i Napalm Death hanno saputo dare di ciascun brano. Per chi lo prende in mano oggi resta più che altro una curiosità, com’è giusto che sia, ma all’epoca si trattò di un manifesto con cui i Napalm Death pensarono di affrontare una nuova fase del metal estremo.

ELUVEITIE – Ven

Barg: Col tempo gli Eluveitie hanno raggiunto una fama più che discreta, soprattutto in virtù di singoloni piacioni acchiapponi cantati da fanciulle con voci angelicate e parti estreme molto educate in stile Dark Tranquillity. Come spesso accade, però, all’inizio era tutta un’altra storia. In principio fu Ven, un demo uscito nel 2003 che ebbe l’onore di essere completamente risuonato l’anno successivo grazie all’interesse della semisconosciuta etichetta olandese Fear Dark Records. Il titolo rimase il medesimo, e il risultato è infatti questo Ep di cui ci occupiamo ora. Non si capisce bene perché gli svizzeri si siano presi la briga di riregistrare quel demo, perché onestamente c’è molto poco da salvare. L’unico pezzo con buoni spunti è il primo, Uis Elveti, mentre gli altri sono una rottura di coglioni non da poco, soprattutto quando spingono sull’acceleratore con un blast beat monotono e fastidioso che spezza irrimediabilmente l’atmosfera. Hanno fatto molto di meglio successivamente, eppure sono riusciti a fare persino di peggio.

ETERNITY – And the Gruesome Returns With Every Night

Griffar: Nel 2004 i Moonblood erano già scomparsi da un pezzo, anche se continuavano ad uscire dischi a loro nome. Sembrava pure che non ci fossero aspiranti a colmare il vuoto da loro lasciato, forse si temevano paragoni pressanti visto il blasone della ultra-cult band tedesca, i cui dischi già nei primi Duemila avevano valutazioni a quattro cifre. I temerari furono gli Eternity, quelli tedeschi (vale la pena precisarlo perché di gruppi che si chiamano o si sono chiamati Eternity ce ne sono a iosa), i quali, godendo di un curriculum underground di un certo spessore, nel loro esordio And the Gruesome Returns With Every Night si abbandonarono ad influenze di palese derivazione Moonblood. La costruzione dei riff veloci, gli stacchi più rallentati molto bathoriani, la costante sensazione di stare ascoltando qualcosa di melmoso, di tossico, di mefitico, di nemico di ogni forma di vita, non può non ricordare quasi in ogni istante la stupefacente musica di Gaamalzagoth e Occulta Mors. Del resto la scuola è quella: nati nel 1994 e con all’attivo split con entità notevoli della scena tedesca – Dunkelgrafen, Wolfsmond, Luror soprattutto – gli Eternity avevano tutte le carte in regola per provare a non fare rimpiangere troppo gli illustri dipartiti, e ascoltando questo debutto anche a distanza di vent’anni si può affermare decisamente che l’obiettivo fu raggiunto. C’è da dire che i due album successivi sono sì interessanti, ma And the Gruesome Returns With Every Night ha la classica marcia in più. Oramai sono dodici anni che del quartetto/quintetto (a seconda delle stagioni) non si rinvengono tracce, la band si è progressivamente divisa in rivoli che hanno portato i componenti in svariati altri progetti, tipo Anti o Darkmoon Warrior. Chissà, forse in futuro… Del resto abbiamo assistito a ritorni del tutto inaspettati. Purché ne valga la pena, se no meglio che resti un buon ricordo.

WOODS OF YPRES – Pursuit of the Sun & Allure of the Earth 

Edoardo Giardina: Scoprii i Woods of Ypres su qualche forum nel 2009 con Woods 4: The Green Album (o forse con il precedente Woods III: The Deepest Roots and Darkest Blues del 2007, non ricordo bene). Mi diedero subito l’impressione di essere un gran gruppo, seppure era chiaro che gli mancasse ancora qualcosa. Questa sensazione, però, svanì non appena, andando a ritroso, ascoltai il loro debutto sulla lunga distanza Pursuit of the Sun & Allure of the Earth. Qui non manca proprio niente: c’è il black metal – anche se in una versione spuria rispetto all’EP demo del 2002 Against the Seasons: Cold Winter Songs from the Dead Summer Heat – ci sono le influenze dei primi Opeth – ascoltare Shedding the Deadwood per credere – e c’è anche l’atmosfera più tipica del black metal proveniente dall’altra costa del continente nordamericano, dalla Cascadia. Ci sono anche gli elementi che diventeranno preponderanti più avanti, come il duetto tra le due voci di David Gold e il doom e un po’ di black’n’roll, che con Woods 5: Grey Skies & Electric Light li trasformeranno in qualcosa di più simile a epigoni dei Type 0 Negative (come notò all’epoca il barg). Il viaggio mistico-nichilistico è sempre lo stesso che verrà riproposto negli album successivi, ma i paesaggi dipinti con la musica e con i testi sono ancora magici e naturali – diventeranno urbani e post-industriali solo pian piano, uscita dopo uscita. Pursuit of the Sun & Allure of the Earth è probabilmente il migliore album dei Woods of Ypres – quantomeno insieme a Woods 5, ma forse anche poco sopra – nonché il segno più fulgido del rapido passaggio di David Gold su questo pianeta.

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VULCANO – Tales from the Black Book

Stefano Mazza: Un altro clamoroso ritorno del 2004 fu quello dei Vulcano, che non si sentivano dal 1990. Erano stati fra i protagonisti della ondata del thrash/death brasiliano, in particolare con Bloody Vengeance (1986) e Anthropophagy (1987), che sono i loro due lavori più rappresentativi, poi molti di noi li persero di vista, me compreso, anche perché il precedente Ratrace (1990) rappresentò un momento assai poco fondamentale: tentarono di migliorare i suoni, recuperarono un vecchio chitarrista dal passato, ma questi accorgimenti non compensarono la mancanza di buone idee musicali. I Vulcano restano comunque la leggenda che sono sempre stati e nel 2004 riuscirono a registrare Tales from the Black Book, ovvero un ottimo disco che oggi definiremmo black thrash, meno caotico rispetto al loro solito, dove in qualche modo ritornarono al loro spirito originario e, soprattutto, dimostrarono di avere una passione ancora vivissima, con canzoni sinceramente ispirate, ben concepite e ben suonate. Da segnalare poi le nuove incisioni di due vecchi brani-inno storici, che fino ad allora erano stati presenti solo su Live! (1985): Guereiros de Satã e Total Destrução, che rappresentano uno dei migliori momenti dell’album. In Tales from the Black Book si sente di nuovo quella brutalità barbara e maledetta che riesce a dare un senso a questo tipo di gruppi, anche dopo l’esperienza degli anni Ottanta. Questo è da recuperare.

MOR DAGOR – Necropedophilia

Griffar: In che modo possiamo intitolare un album facendo incazzare mezzo mondo? Se lo devono essere chiesti i Mor Dagor quando è stato il momento di scegliere il titolo del loro terzo album, Necropedophilia, stranamente non bannato su Discogs eppure mi gioco i coglioni che, se oggi qualcuno azzardasse qualcosa di simile, avrebbe discreti problemi con la legge, i woke, le piattaforme, tutto il possibile e l’immaginabile. Ma questo ai Mor Dagor non è mai interessato, visto che si erano aggrappati al filone degli Endstille, che degli stinchi di santo non sono. Perciò se vi accostate a un disco dei Mor Dagor l’unica cosa che dovete aspettarvi è una catastrofe sonora, un martellamento continuo che fa sembrare melodiosa la macchina che rimuove il bitume vecchio e logoro quando riasfaltano le strade. Fa un baccano dell’accidente ma sembra Beethoven se lo si paragona all’impatto che hanno i brani dei Mor Dagor ad un adeguato volume in cuffia. Tolte intro ed interludio insignificanti, i sei brani effettivi tolgono il respiro da quanto sono violenti. Neanche 33 minuti. Cose simili si sono ascoltate nei dischi degli In Battle, degli Unlord, dei Baltak o in Panzer Division Marduk, solo che i nostri tedeschi suonano meglio e scrivono pezzi con un senso compiuto denso di significato, azzeccano i riff e quando radono tutto al suolo lo fanno con un discreto gusto. Direi che per solleticare la vostra curiosità ho già scritto abbastanza.

LAKE OF TEARS – Black Brick Road

Michele Romani: I Lake of Tears sono sempre stati un’entità piuttosto indefinibile, soprattutto nella fase sul finire degli anni ’90 in poi, che li ha visti abbandonare del tutto le stigmate doom gotiche dei primi non irreprensibili lavori in favore di un gothic-rock metal di facile assimilazione, che ha avuto il suo massimo momento in Forever Autumn e proprio in questo Black Brick Road. Del disco in questione sono ancora in possesso del promo che presi ai tempi della mia collaborazione con Metal Shock, promo che staziona nella mia macchina da almeno una quindicina d’anni e che ogni tanto riesumo sparandomelo a tutto volume, perché fondamentalmente questo è un classico album da automobile, poco impegnativo ma con due-tre pezzi della madonna come la title track, la favolosa Making Evenings o Dystopia, anche se in generale risulta complicato trovare momenti di stanca all’interno dei nove pezzi presenti. Un altro di quei gruppi che nel loro piccolo avrebbe meritato molta più fortuna, anche se credo che la fama non sia mai stata uno degli obiettivi principali dei Lake of Tears.

NECRONOMICON – Construction of Evil

Stefano Mazza: Se ci seguite, sapete che qualcuno (ahem…) di noi ha un leggero debole per questi tedeschi che hanno scelto di chiamarsi, per primi, come il libro più maledetto della letteratura. Pur ammettendo che non siano mai stati capaci di creare grandi capolavori, bisogna però riconoscergli uno stoicismo proprio teutonico perché in qualche modo sono stati sempre attivi fin dal 1984, se si eccettua il periodo che va dal 1994 al 2000 e hanno sempre fatto cose abbastanza interessanti. Questo Construction of Evil rappresentò effettivamente il loro ritorno dopo il periodo di fermo e celebrò il ventennale del gruppo. Come da loro abitudine, prima diffusero un demo di quattro canzoni, che poi vennero inserite nel disco. La formazione cambiò, si ampliò leggermente e il lavoro che fecero si concretizzò in un thrash belardiano, molto energico, a tratti passatista (perfino per l’epoca) e ben eseguito. Rappresenta un ottimo album anche oggi e fu il momento più alto della loro carriera. Vi consiglio di ascoltarlo, perché merita davvero.

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