In Nomine Doomini vol. 3: MESSA, CANCERVO, 1782

Bell’anno, quello passato, per il doom italiano. Per questo si faranno i conti fra qualche mese. Qualcosa di ghiotto bolle in pentola (i catanesi Haunted sono in studio, per dire). Intanto recuperiamo tre uscite italiane di questi ultimi mesi: il live legittimamente autocelebrativo dei MESSA, il secondo album dei bergamaschi CANCERVO e la terza uscita sulla lunga durata dei sardi 1782.
Forse non tutti sanno che i MESSA hanno fatto uscire un disco dal vivo. Hanno fatto bene. Dopo Close dell’anno scorso e il giusto successo che ne è seguito, i nostri hanno portato il lato più world di quel disco pure sul palco del Roadburn, in formazione allargata per non sacrificare lo spettro sonoro. Ecco quindi che Live at Roadburn (ancora su Svart) include anche gli apporti di Alex Fernet, Giorgio Trombino (Assumption, Bottomless) e Samuele Gottardello (ovvero Blak Sagaan, già disco dell’anno del Greco, ma, se amate il r’n’r e vi volete bene, recuperate pure Hormonas e John Woo). Lo spiegamento di forze consente a Orphalese e 0=2 (ovvero metà scaletta) di non uscire penalizzate dalla resa live. Il blues di Suspended, in apertura, se la cavava in realtà benone. La resa di Pilgrim invece fonde la parte più folk (prima e dopo) con quella heavy (il centro), e riesce davvero bene, così. Io continuo a mangiarmi i gomiti per aver perso tutte le occasioni che ho avuto di vederli dall’uscita di Close. Live at Roadburn in realtà non aggiunge molto ai superlativi già spesi, ma i quattro veneti (più tre) continuano a meritare tutte le belle parole che si spendono su di loro.
Chi ha sicuramente ancora margini di miglioramento sono i bergamaschi CANCERVO, che con II, come potrete immaginare, arrivano al secondo disco, il primo dotato di linee vocali. I tre sono dediti alla valorizzazione del lato oscuro delle leggende delle Alpi Orobie, dove spesso, per prossimità, mi reco anche io in villeggiatura. Nella musica però questo interesse antropologico non ce lo sentiamo più di tanto. Niente folk, loro, solo doom elementare, straclassico. Tutto gira essenzialmente attorno alla lenta ripetizione del Riff. Potrebbe pure andare bene, ma le voci non sono riuscite. Sarebbe stato meglio abbassarle nel missaggio, anziché farle risaltare. Vecchio problema delle produzioni italiane, anche se meno grave che un tempo. Devil’s Coffin, anche perché strumentale, riesce meglio. Anche nettamente più varia del resto della scaletta. Ci riaggiorniamo.
E pure ai 1782, che sono al terzo disco, non al secondo, non interessa molto uscire dal puro culto del Dio Riff. Clamor Luciferi riconferma in toto la formula solita, senza scossoni. Non si esce vivi dal necro-doom degli Electric Wizard. Se ci pensate, alla fine è una musica che ha ormai trent’anni e non cambia mai. Specie se la suona qualcun altro. Può anche andare bene così, se si vuole. L’artwork dei nostri ancora una volta è allettante assai, con la sua atmosfera arcana. Il suono pure, cavernoso e grezzo, oscurissimo. Non c’è rischio di schiarite nel doom catacombale dei nostri. Purtroppo, nemmeno di sviluppi. Quando si allenta la tensione e si cede ad una dimensione più onirica, vedi in Tumultus XIII, l’interesse sale. Ma Tumultus XIII è l’episodio strumentale, per definizione non rappresenta l’album, che infatti rientra subito nel canone. Non è un brutto disco, no, ma se ne trovano davvero tanti così. (Lorenzo Centini)