Il death doom a lezione di geologia: ASSUMPTION – Hadean Tides

Non è che sia rimasto con le mani in mano Giorgio Trombino, dopo la scrittura e la produzione del debutto, l’anno scorso, dei Bottomless. Anzi, il chitarrista di Palermo ha nel frattempo lavorato anche al seguito dell’esordio di quella che credo si possa definire la sua band principale, gli Assumption. Che rispetto agli inizi (come duo, assieme all’altro palermitano David Lucido) sono ora un quadrato solido grazie all’ingresso dello sloveno Matija Dolinar dei Siderean, prog death con venature space, e Claudio Troise dei Tenebra, che conosciamo benissimo. Absconditus, uscito nel 2018, quindi ancora come duo, era stato un disco ostico ma fascinoso di ibridazione tra death/doom e dinamiche sonore di stampo kosmische. Vedremo poi come questa dimensione space ed ambient si articolerà nel nuovo album. Perché Hadean Tides, quest’anno, in realtà comincia a ritmi serratissimi con Oration, death nero pece, gutturale, e alternanza pieni (death) e vuoti (doom). Il senso del disco pare sia il riferimento nel titolo all’Adeano (ho fatto le mie ricerche), periodo geologico antecedente alla formazione delle rocce più antiche sulla Terra. Io non c’ero, ma me lo immagino come una distesa infinita di ribollire di lava, cielo coperto di fumi (ci sarà stata una qualche atmosfera?), materia amorfa incandescente. Infatti per dargli un nome i geologi si sono riferiti all’Ade. Beh, il disco che gli Assumption hanno composto ha questo senso qui, con momenti in cui la materia prende forma rocciosa, ma in un contesto generale fluido, disperato, abissale. Ecco quindi la dinamica del disco, difficilmente afferrabile, che passa di stato più volte all’interno dello stesso movimento. Specialmente nella prima parte, i momenti più “coesi” permettono confronti lusinghieri con nomi death e doom death conosciuti (Evoken). Daughters of the Lotus è esemplare a tal riguardo, malsana.
Poi prende più peso la lava che la roccia, e torna la dimensione più sperimentale dell’esordio. Eppure con delle differenze. Ad esempio con un lungo brano ambientale, Breath of the Dedalus, e ancora con l’inafferrabile Triptych, forse la meno attesa del lotto. Una nenia alchemica (torna il tema dei cambiamenti di stato della materia), due note di basso, un sussurro monotono e sempre più minaccioso col passare dei minuti. Sarà per il gancio facile offerto dal titolo stesso, ma viene da pensare che una cosa del genere la scriverebbero Gabriel Warrior e Blixa Bargeld se si trovassero per qualche ragione insieme prigionieri in un bunker sotterraneo. In un mare di pece del genere, pare un bagliore l’assolo schizzato della conclusiva Black Trees Waving, altrimenti un quarto d’ora asfissiante, degna lapide di un disco del genere e di questo spessore, dominato da un passo lento, sepolcrale, miasmatico. Registrato egregiamente nella “mia” Fermo, nelle Marche, da Michele Marani, e la cosa mi inorgoglisce per semplice, becero campanilismo. Ottima poi la copertina di Mariya Popyk. (Lorenzo Centini)