E quindi uscimmo a rivedere la Luna: TENEBRA – Moongazer

Può capitarti di avere un superiore, a lavoro, fanatico del rock classico. Quello dei dieci/venti grandi nomi da rotazione pesante su Virgin Radio. Può capitarti di avere le ali dell’ufficio decorate con murales di alcune di queste band, così ti può capitare persino di bestemmiare tra te e te per una cazzata che ti era sfuggita mentre fissi negli occhi, che so, Slash o Little Steven. Che poi, siamo sinceri: alla fine quando stacchi, ti precipiti giù in metropolitana e vedi i muri tappezzati di gigantografie di imberbi trap-pisti (presumo famosi) e una volta ogni morte di papa ti capita pure il faccione gonfio di Slash che promuove il nuovo disco ed un buon singolo, beh, dai, siamo sinceri: tra Slash e Mahmood io so scegliere. Ed è così pure con la radio. Non conosco ancora nessuna emittente decente che trasmetta nell’area tra il sud di Milano e Piacenza. Accetto dritte. Tutti preferiremmo ovviamente sintonizzarci a caso in auto e trovare una cosa tipo I am the Black Wizards, Green Machine o Corporal Jigsore Quandary, ma alla fine se capito su una radio rock qualunquista, schivando i gorgheggi di un Matthew Bellamy in vena di straordinari ed incappo nella bella voce di Myles Kennedy, alla fine potrebbe anche andare molto peggio. Mi chiedo perché non mi sia mai cagato gli Alter Bridge, se mi sono perso qualcosa. Non credo, mi sanno di spin off dei Creed e direi che la cosa basta. Ma sto invecchiando, e il rock classico, commerciale, radiofonico non è più il Nemico assoluto, nemmeno il peggiore, come quando, io ventenne, partivo prevenuto per i quarantenni entusiasti per i Velvet Revolver perché “nuovi”. Ora i 40 sono un traguardo che vedo prossimo. Non ci sto correndo incontro entusiasta, anzi, ho diversi amuleti infantili che provano a ritardare l’inarrestabile. Il gusto però sta un po’ cambiando e l’asticella delle pretese si è quantomeno abbassata. Vuoi perché passa il tempo, vuoi perché la musica pop di oggi, in senso generale, fa schifo come mai nella storia della Civiltà Occidentale.

Uno è un noto personaggio legato al mondo della musica conciato come un ragazzino per non far troppo vedere le rughe. L’altro è Slash.
Oggi quella marca di bibite e satelliti spaziali produce, oltre alla famosa radio “rock” (style…), anche una catena di palestre dove vanno le signore coi soldi. Signore che sicuramente apprezzano un Eddie Vedder, quello odierno, che ti fa rimpiangere di avere mai amato, e non poco, i Pearl Jam. Il rock si è definitivamente imborghesito da qualche tempo, è la fase senile di quella che forse è stata in gioventù una passione sincera, ora è una sorta di esorcismo per non sentirsi vecchi e non pensare che si sta morendo, irrimediabilmente imbelli. Il classic rock, come lo conosciamo ora, è fatto di fossili degni di stare dietro una teca o sul muro di un Hard Rock Cafe. Il rock, insomma, inteso come resistenza: all’imbolsimento, ai radicali liberi, al senso di schifo di guardarsi allo specchio così diversi da quello che si sognava di essere in adolescenza.
Alla fine, diciamocelo pure, un’ennesima versione di Sweet Child O Mine è sempre meglio di niente. Ma c’è in realtà un altro mondo di classic rock, un altro livello, più “esoterico”, se me la passate questa, fatto di un mare di band che non hanno mai superato all’epoca lo scoglio del successo e, successivamente, il setaccio della memoria. Il rocker borghese sugli anta che possiamo incontrare nella vita adulta se va bene un riff di Felix Pappalardi l’ha sentito in un mitico episodio dei Simpson. Conosce Sammy Hagar nei Van Halen, non nei Montrose. È raro che sappia che costole di Iron Butterfly e Deep Purple hanno dato vita al viaggione dei Captain Beyond. Rarissimo che nel rock australiano si sia spinto, oltre gli AC/DC, fino a Rose Tattoo, Radio Birdman e Buffalo. E non sto nemmeno scavando molto. Certo, sondare quel mondo non è comodo come visitare un museo di animali impagliati, ci vuole un po’ della dedizione di un archeologo. O meglio ci voleva, prima di internet, ora non richiede mica troppa fatica. Sicuro ci vuole un po’ passione, però. Vera, gratuita. Ed un amore per il rock’n’roll che va pure oltre la promessa di gioventù cristallizzata. Perché in fondo è un mondo già morto da decenni, che non puoi esibire come la tua motocicletta nuova di zecca comprata coi soldi guadagnati facendo le stesse cose e la stessa vita di quelli che in gioventù ti chiedevano di abbassare il volume della radio.
I Tenebra, veniamo al dunque, alla fine ce l’hanno fatta a farci sentire il disco nuovo. E, come direbbero certi dj, spacca, non poco e com’era ovvio che fosse. Non provate a dire che non ve l’avevo detto. Non suona occulto e underground quanto Gen Nero. Non lo dico con delusione, è una semplice constatazione. È un disco rock a testa alta. E comunque il rock stregonesco grandguignolesco è uno standard piuttosto diffuso, spesso fatto di band banalotte, mentre un discorso esoterico più profondo può approfittare del maggior respiro di soluzioni maggiori ed ariose. Ci aveva preparato Emilio nella conversazione di più di un anno fa. Ora, se la riprendessimo da dove eravamo rimasti, sarebbe interessante comunque approfondirlo, questo tema dell’esoterismo, tra le evocazioni della copertina ed un video con spezzoni del bel documentario Nuestra Santisima Muerte al quale lo stesso Emilio, in veste professionale, ha messo mano (e con musiche ispiratissime di Egle Sommacal). Son curioso dei testi, ma ancora non ho avuto modo di leggerne, non so nemmeno se sono inclusi nel disco che mi deve ancora arrivare.
Allora parliamo di musica, così mi riallaccio al lungo discorso iniziale: Moongazer suona rock, rock classico, hard rock. Quello appunto di miriadi di meteore coperte ora dalla sabbia del deserto. Decine di band: Armageddon, Toad, Cactus, Leafhound. E qui mi viene in mente che pure gli Unida stavano facendo un’operazione del genere, registrando quel capolavoro (s)conosciuto coi mille e più nomi e che un noto produttore mainstream e amico di Jovanotti ha affossato. Coverizzarono proprio i Leafhound, come i Tenebra hanno fatto di recente coi Jerusalem. E Garcia a cantare queste canzoni insieme a Silvia, sai che spettacolo. Scusate, divagavo, ma era solo per dirvi che, se vi manca un disco rock che vi bruci tra le mani, ora avete Moongazer.
Moongazer, che è quindi anche un disco stoner, si concede tanto il ruggito del riffone quanto il flower power inacidito di certa psichedelia. Di Gary Lee Conner, ospite ai viaggi floreali e spaziali, già sappiamo. E infatti c’è anche una vena grunge. Non quella iconoclasta, punk o autodistruttiva. No, quella dei ‘Trees e delle loro gemmazioni minori, dei Love Battery, cose così. Sto poi riflettendo da un po’ sul fatto che il comunicato citi i June of 44. Cazzo c’azzeccano, pensavo. Ma Emilio, che della ballotta emiliana è quello che ci mette i riffoni ed il fuzz, da lì proviene. Se non lo avessi saputo, se non ce lo avesse raccontato lui stesso, forse non lo avrei notato. Ma ad andarci vicino con la lente di ingrandimento, la tessitura delle sue partiture è effettivamente meno grassa di un disco stoner medio. C’è un po’, forse solo suggestione, di rigore matematico, dissonante e meccanico. Quello che nasce dalla scuola King Crimson, quindi in qualche modo rock classico anche questo, e che ha viaggiato in parallelo e sottotraccia rispetto al mainstream fino ad affiorare nella scuola anni ’90 di Slint, Don Caballero e June of 44, appunto. C’è persino qualche soluzione più dispari di quanto ci si attenderebbe. Ma non fraintendetemi, che torno al punto. Questo qui è un disco che romba come un motore ben oliato e si ingentilisce quando è il caso. Come un buon disco hard deve saper fare. È un disco fatto di canzoni. Tutte belle, tutte killer. L’attacco di Heavy Crusher e Cracked Path è fiero e formidabile. Black Lace rallenta l’incedere ed annebbia la mente tra coltri di psichedelia doom. Altre mazzate ce ne saranno (Stranded), ma la maggior parte del resto sarà un equilibrio tra proto-metal e psichedelia anni ’70 con vaghe fragranze prog acustiche. Da perdercisi, in un disco cosi. Un paio di ganci diretti, citazioni rispettose e palesi dei primi Sabbath a rivendicare un’appartenenza che tutti condividiamo. Ma il respiro libero, battagliero e gentile dei Tenebra, oggi, assomiglia più alla cifra specifica di quel particolare mondo settantiano sotterraneo di cui parlavo prima. Ed è una dichiarazione vitale di amore, passione, oltre il revival fine a se stesso e le pose in costume da rocker tipo School of Rock. Che è pure un bel film divertente, ma non puzza di benzina né profuma di sottobosco.
Rock, ancora una volta, come resistenza, ma non al proprio decadimento, stavolta. Se non si è ceduto nemmeno un attimo alla tentazione di diventare come loro, zombie non si diventa mai davvero. Rock inteso come dovrebbe essere, libero e liberatorio, immaginifico e concreto. Che è la lezione migliore che si possa imparare da quella pletora di band fantasticamente sconosciute che sono l’humus da cui spunta fuori un disco del genere. Disco suonato, a parte la sorprendente Silvia, da gente già un po’ navigata. Disco che, visti i tempi, è rimasto nel cassetto per più di un anno, in pratica il tempo che intercorreva tra Black Sabbath e Master of Reality (ma quelli erano anche altri tempi). Che suona retro perché genuino, non per qualche ruffianata posticcia tipo l’effetto pellicola di certi film di Tarantino. I Tenebra finalmente hanno esordito, sono usciti dallo scantinato e fanno sul serio. Maledettamente sul serio. (Lorenzo Centini)
Dalle 20 alle 22 tutte le sere c’è linea rock su radio lombardia col buon Garavelli ex rockfm
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