SUICIDE SILENCE – Remember… You Must Die

I Suicide Silence da Riverside, sud della California, esistono da una vita e hanno contribuito allo sviluppo ed esplosione di quel movimento a nome deathcore che in America, per un decennio abbondante, si piazzò minacciosamente in vetrina.
Ho sempre trovato Mitch Lucker il loro straordinario punto di forza. Non forte nel growl quanto nelle parti urlate, aveva dalla sua il carisma e una capacità oserei incendiaria d’interpretare i propri pezzi sul palco. Qualunque fosse il palco. Il problema, non da poco, è che Mitch Lucker è morto nel 2012 in un incidente in moto.
Sostituito con Hernan Hermida degli All Shall Perish, Mitch non si sarebbe rivoltato nella tomba almeno fino all’uscita dell’omonimo album del 2017, il secondo con Hermida alla voce. Nel quale i Suicide Silence fecero il possibile per farsi picchiare dai fan, optando per soluzioni così fastidiose da rievocare l’avversione generata in ognuno di noi dai Machine Head.
Onestamente, preso atto di cosa fossero diventati i Suicide Silence con l’album del 2017, mi sono automaticamente perso per strada il suo successore del 2020, Become the Hunter. Che accertava che paraculo non è soltanto sinonimo di Morgoth.
Riascoltato Become the Hunter alla stregua di una punizione, mi sono poi approcciato a Remember… You Must Die, freschissimo di stampa con tanto di nuovo batterista in formazione. L’elemento in questione è l’energumeno Ernie Iniguez, classe 1986 di Los Angeles, ed è ancora da stabilire se rimarrà in line-up o se la sua fugace apparizione sarà da turnista come taluni affermano.
Il riffone finale di Full Void, alla Slayer di God Hates us All, e l’attacco vagamente black metal di God be Damned mi hanno subito galvanizzato, fatto sentire a casa. A proposito del secondo pezzo è lampante come l’ingrediente occulto stia più coerentemente in mano a gentaglia come i Lorna Shore (possano i vostri figli non ascoltarli o avrete un problema), i quali hanno pure l’aggravante di disporre di un tale che canta come uno scemo. Il black metal di God be Damned è di fatto un esperimento e non un tratto distintivo del disco, ma non disturba affatto. E il disco, dicevo, è sparatissimo e passa da parti deathcore ad altre ai limiti del grind e del puro death metal americano. Forse troppo, perché non c’è tregua alcuna ed è inevitabile che a un certo punto affiorerà la tanto temuta noia.
Il nuovo batterista – registrato peraltro benissimo, tanto da dare la sensazione di stare ascoltando la band su un palco a scannarsi e scannarci, ma mixato maluccio, con una cassa un po’ invadente, quasi alla Vader – non sa assolutamente trattenersi. Dà l’impressione di voler trarre il massimo dalla classica situazione del battesimo del fuoco, un po’ come Bostaph quando, nel 1994, si sedette sullo sgabello e cacciò fuori la miglior performance in studio della sua carriera, tutta. Iniguez è davvero bravo, è che certe volte rompe un po’ i coglioni, come nel finale a briglia sciolta di Fucked for Life.
Kill Forever pare una sveltina con certo death europeo dei primi Novanta, perciò le voglio bene; The Third Death ha un riff che pare preso da Born dei Nevermore, perciò gliene voglio un po’ di meno: ma ricordate, io qua dentro sono uno dei pochi che li sopportano. Per il resto i migliori episodi sono Endless Dark e Capable of Violence; quest’ultima è l’unica che lascia percepire nei Suicide Silence la stessa furia fuori controllo degli esordi. Hernan Hermida è un bravo frontman, superiore nel growl al suo compianto predecessore ma incapace di eguagliarlo sotto ogni altro parametro di confronto. Sono i Suicide Silence a essere in linea di massima ordinari: un gruppo che suona bene, pesante, veloce, che non deluderà mai se continuerà su questa falsariga. Ma che allo stesso tempo neanche emozionerà più di tanto, perché stavolta la cosa che mi ha maggiormente colpito sono state le citazioni, la capacità di transitare da un fronte all’altro senza mai uscire dal contesto principale o deludere. Buon dischetto, ma questi qua una quindicina d’anni fa erano realmente una macchina da guerra. (Marco Belardi)