Ancora grunge doom dalla perfida Albione: WOLVES IN WINTER – The Calling Quiet

Forse non dovrebbe più stupire il trovare tracce di certo suono anni ’90 americano (per semplicità parliamo di grunge, ma il discorso sarebbe più ampio) in certe nuove proposte di band albioniche afferenti alla galassia doom. Dopo i carneadi Bleeding Antlers ed i verbosi Famyne, ora salta fuori a proposito l’esordio di questi Wolves in Winter, The Calling Quiet, pubblicato dalla benemerita Argonauta. E qui, scusate la digressione, viene da pensare che da un lato tante band italiane, più o meno emergenti, stanno accasandosi presso etichette prestigiose (dopo Messa e Tenebra, gli ultimi esempi sono Marthe, presto su Southern Lord, e i Ponte del Diavolo appena entrati nella scuderia Season of Mist), dall’altro etichette indipendenti nostrane stanno promuovendo l’underground internazionale quanto e forse più di quanto non stiano facendo le equivalenti di altre nazioni, più solide sotto il punto di vista della nostra musica. Parlo ad esempio di Cruz Del Sur/Gates of Hell, Heavy Psych Sounds, Argonauta, la storica Avantgarde, per non menzionare settori che mastico meno (chiedete magari a Griffar).
Ma torniamo in Albione, per la precisione a Bradford, West Yorkshire. Città già dei My Dying Bride, dei New Model Army (quelli di The Hunt) e dei Cult. Nomi storici, datati, ma pure i membri dei Wolves in Winter non sono di primo pelo. Lo direste dal video e dalle foto promozionali. Ancora di più se scorrete le loro carriere su Metal Archives. Il chitarrista Enzo è stato già impegnato in una band thrash, gli Slammer, a cavallo tra gli ’80 e i ’90. L’altro chitarrista, Wayne, invece proviene da band stoner e doom come i Monolith Cult. In cui militava anche il bassista dei Wolves in Winter, Ian “Izak” Buxton, che noi invece ricordiamo sul palco coi Solstice, band di cui ha fatto parte nell’incarnazione degli anni ’10 e fino a poco fa. Se è questo il nome che vi fa più gola, tenete presente però che questi lupi qui sono più rock e meno epici. Non in quel senso, per lo meno. Viene da dire che all’origine di tutto (ok, i Black Sabbath, ok) ci sta il doom essenziale e rarefatto dei Warning. Britannici, ma che abbiamo ricordato mesi fa in occasione di un disco proveniente dall’altra sponda dell’oceano, quello degli Apostle of Solitude (e ogni volta che ci ripenso mi viene da dire che s’è trattato veramente di un gran bel disco, quello…).
Quindi anche i Wolves in Winter asciugano da qualsiasi traccia di blues o rock’n’roll il loro doom, ma prediligono il tempo medio/lento al lentissimo. E, come dicevamo, paradossalmente guardano quasi più alle ex colonie per le loro trame uggiose, intime, ma anche turgide e melodiche. Grunge è una parola che ronza in testa già con la prima traccia, The Cords that End the Pain. Un grunge forse di fascia media, perché non riconosci citazioni delle personalità più note e spiccate del sound di Seattle. Quasi curioso il non poter ricondurre il discorso all’influenza degli Alice In Chains, visto che con queste premesse si tratterebbe di un riferimento automatico. Più avanti nel disco la sensazione si definisce meglio. Forse non è tanto grunge quanto, piuttosto, un alternative metal atlantico. Infatti viene più facile citare i Life of Agony, a tratti, per voce, linee melodiche, struttura (lo special di Pastime for Helots è un bellissimo déjà-vu).
Comunque The Calling Quiet resta solidamente ascrivibile al girone doom e ha una grande traccia di apertura. Non cattura per intero sin dall’inizio, però non merita un giudizio figlio di ascolto fugace, perché la sostanza si definisce meglio di volta in volta. Oltre alle due canzoni già citate (invero le migliori) anche gli altri brani sono solidi, in bilico tra spleen e cazzutaggine. Del suono si può dire bene, definito se pur ruvido, molto moderno (post-qualcosa). Un peccato è l’assenza di chitarra solista. Anche questa è modernità, bisognerà che new e post metal un giorno ne rispondano, perché pare quasi che puoi avere una chitarra solista virtuosa solo se ti stai attenendo a qualche cliché del passato. Ma a me mancano gli assoli in un disco così. Il grunge, per dire, aveva dei buoni solisti, non tecnicissimi, ma alcuni di gusto. A me piace ascoltare le chitarre elettriche, per cui ci rimango un po’ male se non lasciano mai le briglie sciolte. Vabbè, problema mio. Comunque, per essere l’esordio di una band che fino a l’altro ieri manco esisteva, direi che va più che bene pure senza assoli. Promossi dal sottoscritto, per quel che vale. (Lorenzo Centini)