PATHOLOGY – Reborn to Kill
Per un certo periodo i Pathology sono stati uno dei migliori gruppi death metal americani della nuova generazione. Mi innamorai di loro con il quarto album, Legacy of the Ancients, brutal death intransigente e cavernoso ma pieno di groove e dinamismo, ovvero quello che è quasi sempre mancato alle legioni di emuli dei Devourment che infestano la scena. Poi la band iniziò ad andare a puttane proprio dopo quello che è forse il loro disco migliore, The Time of Great Purification, uscito nel 2012, in seguito al quale i californiani smisero di esibirsi dal vivo per diventare un progetto solo da studio e, invece di confermarsi con un nuovo colpaccio, pubblicare appena un anno dopo quello che è invece il loro capitolo meno felice, lo spento Lords of Rephaim. Colpa di una formazione a porte girevoli che ha visto finora come unico membro stabile il batterista Dave Astor (ex The Locust e Cattle Decapitation) e di una prolificità eccessiva che non ha giovato alla qualità dei lavori successivi.
L’unico modo di uscire dal vicolo cieco era mischiare le carte in maniera decisa. Ed è quanto avvenuto con questo Reborn to Kill, coinciso con una ripresa delle attività live e un cambio di formazione ancora più radicale. Fuori tutti, compreso il chitarrista storico Tim Tisczenko, che ora risulta reintegrato ma non ha partecipato alle registrazioni. Il risultato è un’inversione a U stilistica evidente già dall’opener Hieroglyphs on Cement Walls, che è pure uno dei brani più tradizionali. Il riffing è moderno, di marca Dying Fetus, probabile conseguenza delle influenze apportate dal nuovo chitarrista Dan Richardson. La produzione, che sul precedente album omonimo sembrava quella di una demo sudamericana anni ’90, diventa sorprendentemente nitida, consentendo di apprezzare gli incastri tra la batteria nervosa di Astor e il lavoro, notevole per un esordiente quasi assoluto, del nuovo acquisto alle sei corde Ricky Jackson. I Pathology sono quindi diventati gli ennesimi cloni della band di Jon Gallagher? A metà della successiva Forced Regression, proprio quando ti stava venendo il dubbio, arriva uno stacco con chitarre soliste dal sapore quasi psichedelico, un ingrediente che diventerà una costante, alternandosi a ripartenze letali e fulminee e a quei mid-tempo di marca deathcore che i giovani d’oggi chiamano breakdown (e non è necessariamente una parolaccia).
Si va ancora più oltre con episodi come Empathy Ends e Pit of Bones, con un attacco da death svedese, per poi chiudere con qualche pezzo più canonico, con maggiori concessioni al blast beat. Un quadro nel quale ha buon gioco la varietà di registri del cantante Obie Flett, altra netta mutazione stilistica rispetto all’immondo gorgoglio sturalavandini al quale ci aveva abituato l’adorabile ex Disgorge Matti Way. Quel che ne viene fuori è comunque un bel dischetto, coinvolgente e ispirato, con pochissimi momenti morti grazie a un dono della sintesi ammirevole (pochissime tracce superano i tre minuti). Uno dei casi in cui il titolo è la miglior recensione possibile. Per tornare a “uccidere”, i Pathology dovevano “rinascere”. Sempre che Astor non decida di cacciare tutti dopodomani. (Ciccio Russo)
Gli darò volentieri un ascolto, già la giornata è iniziata bene con una anteprima degli exhumed.
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