Musica con cui si drogherebbe perfino il cane: IRON MONKEY – 9-13

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Qui avevo parlato del ventennale di Iron Monkey della omonima band inglese. Loschi individui in odore di reunion – il tutto naturalmente senza Johnny Morrow, deceduto una quindicina di anni fa – e fin qui è una faccenda davvero molto semplice.

Ma a differenza di molte persone che considerano icone come Kurt Cobain l’immagine di ciò che è strafatto oltre ogni limite umanamente immaginabile, per me quel confine invalicabile era fino a ieri rappresentato da una ragazza spagnola con la quale sono stato, fortunatamente per un breve periodo, una decina di anni fa o poco più. Fumava solamente erba, ma se pensavi di farci quelle due o tre bevute terminate le quali l’allegria avrebbe fatto finire tutto in pompini, sbagliavi e la pagavi in prima persona. Il suo limite di sopportazione nei confronti degli alcolici non esisteva – anzi all’atto pratico era lei a fare bere TE così come il gatto gioca col topo – e sebbene la mia tolleranza etilica sia sempre stata piuttosto alta, c’era spesso un momento in cui le serate assumevano i connotati di un survival horror in cui dovevi smetterla di pensare a scopare, e organizzarti per tornare a casa vivo.

Lasciare gli Iron Monkey a inizio secolo – giusto il tempo di innamorartene – per poi vedergli scoppiare il cantante e ritrovarli un bel po’ di tempo dopo marci come roba dimenticata in fondo al frigorifero per un mese, mi fa rivedere tutta quanta la questione riguardante Miriam di Madrid, e decretare Jim Rushby e le sue affidabili amicizie i vincitori assoluti di questo opinabile contest sul limite invalicabile di cui sopra. I tipini di Nottingham hanno formato una band nel 1994, il che mi fa calcolare che siano più o meno dei quarantenni.

Come ve lo immaginate voi un artista quarantenne?

Un impeccabile Benedict Cumberbatch che d’innanzi alle telecamere confessa quanto sia stato duro interpretare Alan Turing in The Imitation Game, mentre con la mano destra accarezza il nodo della cravatta in stile Jacquard, controllandone al contempo la tenuta?

No.

Piuttosto un inglese sdraiato in mezzo a una stanza piena di muffa, in cui l’aria pura del mattino ha smesso di circolare da mesi per favorire il rimbombo della musica pesante. Vomito sulle mattonelle e bottiglie aperte ma mai terminate per impossibilità fisica, abbandonate un po’ qua’ e un po’ la’; carta da parati strappata in preda a visioni di demoni che vengono a prenderti per regolare i conti, e una TV accesa e sintonizzata da tempo immemore su uno di quei canali che trasmettono le gag a’la Benny Hill Show. Il telefono squilla ed è la Relapse che ti intima di registrare quel cazzo di disco: questi sono i quarantenni che fanno al caso nostro.

9-13 riprende laddove la band aveva mollato ai tempi di Our Problem (inarrivabile solo per la malsana copertina), con un suono vivo e che ti fa sentire tutti gli strumenti, incombenti come se ormai li avessi praticamente addosso. 9-13 inoltre accantona in buona parte quelle derive dei Down di Phil Anselmo che ponevano l’accento sul blues praticamente in ogni dove. Il nuovo album degli Iron Monkey in un certo senso è ancora più pesante dei suoi antenati nonostante una voce che, seppur estrema e malata, non raggiunge i picchi del deforme primogenito Morrow. Il trio che apre il disco è pazzesco, intaccato solo dalla relativa ripetitività strutturale dell’apripista, e si capisce da subito che Rushby – qua anche al microfono – e Watson sono tornati per fare sul serio. Gli unici momenti in cui si concedono di evolvere il sound stanno in mezzo alla scaletta, con la velocità di Mortarhex e l’assalto sonoro di Toadcrucifier – Ripper. Il disco non cala quasi mai, a essere pignoli forse lo fa con The Rope, cinque minuti scarsi che nemmeno provano il decollo, nonostante il riff circolare e ipnotico che la apriva promettesse molto bene. Gran finale con Doomsday Impulse Multiplier e la pazzesca Moreland St. Hammervortex, lunga quanto storicamente lo fu Shrimp Fist in chiusura del debut ma più completa, dinamica ed estrema. Il pezzo si divora babbo doom e ogni plettrata di basso è una vera e propria coltellata: quarantenni?

Credo che un gruppo come questo sia semplicemente ricapitato fuori in un momento strano: all’epoca si parlava degli Unsane di Scrape e il loro violento noise o post hardcore girava perfino in TV; oggi lo sludge degli Iron Monkey è stato mescolato con qualsiasi cosa. Dallo stoner al post-rock, passando perfino per il Progressive Metal i musicisti alchimisti ci hanno fatto di tutto, e con ciò abbiamo goduto delle atmosfere degli Amenra, dei numerosi figli dei Mastodon e di padri biologici del rumore come gli Electric Wizard – dove era finito per qualche tempo proprio Justin Greaves. Ma chi sta crescendo a suon di Baroness e Black Tusk riuscirà a trovarli interessanti?

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