Anteprima: HATE ETERNAL – Phoenix Amongst The Ashes (Metal Blade)

La cosa buffa di Erik Rutan è che le cose peggiori come produttore le ha fatte proprio con la sua band. Fury And Flames non mi era piaciuto per niente, e non solo per i suoni inadeguati. Partiti seguendo le orme dei Morbid Angel (dove hanno militato per un certo periodo sia il defunto bassista Jared Anderson che lo stesso Rutan, presente sul colossale Domination e, più tardi, su Gateways To Annihilation), gli Hate Eternal hanno progressivamente incasinato la loro musica calcando sempre più la mano sulla tecnica e sulla velocità. All’epoca uscii pazzo per I, Monarch, il loro terzo disco, targato 2005. Quell’orgia di blast beat che sorreggeva un susseguirsi di assoli anfetaminici era a modo suo qualcosa di originale. Il discorso però è più o meno lo stesso che si può fare per i film splatter estremi giappi alla Guinea Pig: la prima volta fanno effetto, impressionano; la seconda risultano stucchevoli e grotteschi. Perché non c’è trama, non c’è storia, non c’è sentimento o spessore come in un buon Miike. Il problema principale di Fury And Flames era esattamente questo. Poi, ok, era un momento delicato, era da poco morto Anderson, temporaneamente sostituito da uno spaesato Alex Webster il cui contributo faticava a emergere dal brodo primordiale del mix (per la cronaca oggi alle quattro corde troviamo il giovin virgulto JJ Hrubocvak), e se ne era andato Derek Roddy, sostituito dietro le pelli dall’onesto mesteriante Jade Simonetto (non che poi il tanto idolatrato Roddy fosse ‘sto genio, almeno se pensate che suonare la batteria non sia una disciplina ginnica o una gara a chi piscia più lontano). Ma anche con tutte le attenuanti del caso è difficile non ammettere che i limiti del trio floridiano siano insiti nella natura stessa del suo sound. Ciò è ancora più evidente in un album decisamente più valido del suo predecessore come questo Phoenix Amongst The Ashes.

Alla fidanzata di Erik Rutan tutta questa velocità garba mica tanto

L’intro si chiama Rebirth, e sia il titolo che l’artwork, quasi una dichiarazione di intenti, rimandano al mito dell’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri. Sono risorti anche gli Hate Eternal? Sì e no. La band ha scelto di puntare più sull’atmosfera e meno sulla perizia e rapidità d’esecuzione fini a se stesse, e questa è una buona notizia. Il punto debole di Rutan e compagni resta però sempre quello: non hanno riff. E se non si hanno i riff è difficile avere le canzoni. Un pezzo come The Art Of Redemption è emblematico: nei frangenti più canonici abbiamo di fronte dell’ottimo, anche se magari non originalissimo, death metal di scuola Usa; l’ennesimo pirotecnico assolo di un minuto che apre il brano suona però inutile, se non fastidioso. In parole povere, i momenti migliori arrivano quando l’influenza dei Morbid Angel prende il sopravvento, come nei melmosi rallentamenti di The Fire Of Resurrection; è quando gli Hate Eternal fanno gli Hate Eternal che mostrano la corda e diventano farraginosi. Un eccesso di chitarre al fuoco che continua ad avere poche giustificazioni, anche perché il loro stile non può essere accostato in alcun modo al death tecnico tout-court: da una parte ci sono le onnipresenti scale a duecento all’ora eseguite da Erik, dall’altra una sezione ritmica fin troppo monolitica che da sola non riesce a trascinare l’ascoltatore. Phoenix Amongs The Ashes ha comunque il suo fascino. I pezzi hanno un feeling epico e possente che non lascia indifferenti (sugli scudi la notevole title-track) e gli Hate Eternal restano una band personale e interessante anche in virtù dei loro stessi difetti. Forse una delle loro prove più riuscite ma non un disco per tutti i gusti. Ascoltate il brano qua sotto, l’unico finora filtrato, e decidete voi. (Ciccio Russo)

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