Avere vent’anni: novembre 2005
SYSTEM OF A DOWN – Hypnotize
Alessandro Colombini: Ultimo disco, a sei mesi dalla prima parte, dell’ultimo gruppo a fare il botto in radio e tv per quanto riguarda la musica del demonio. Non ricordo se ai tempi si annusasse già l’aria di schiaffi che tirava tra i membri, non so se loro stessi sapessero che sarebbe stata la fine, ma si disse che Serj Tankian non volesse nemmeno incidere un doppio album che, dopo la furia di System of a Down, la botta di culo commerciale di Toxicity, il passo indietro di Steal this Album, cerca di perfezionare la formula e confezionarla per bene per il consolidamento della fama raggiunta. Le asperità vengono sapientemente smussate dalle delicate mani di Rick Rubin per arrivare alla forma definitiva della band cercando di non perdere il significato originale. La follia non è più a briglia sciolta, ma lucida e ragionata. E funziona lo stesso. Stilisticamente non ci sono molto differenze con Mezmerize, che però conteneva pezzi migliori. Un suono perfettamente riconoscibile che li salvò dall’oblio del nu metal e li portò nell’olimpo dei gruppi di ingresso per giovani metallari. I SOAD scoppiarono prima di diventare ridicoli, lasciando in eredità una decina di brani che ancora oggi, dopo vent’anni e più, ci fanno sbuffare alla prima nota da quante volte li abbiamo sentiti ma finiamo comunque per cantarli assieme allo sconosciuto di fianco a noi come una grande famiglia a ogni serata, dj set, cover band scrausa in qualsiasi locale. Hai detto poco.

LORD BELIAL – Nocturnal Beast
Michele Romani: Se escludiamo il capolavoro Enter The Moonlight Gate questo è da sempre il mio disco preferito dei Lord Belial, nonostante sia passato un po’ sotto traccia all’epoca, finendo nel calderone dei lavori “di mezzo” della band svedese che si sono inculati veramente in pochissimi. Ed è un vero peccato, perché Nocturnal Beast è un album davvero ispiratissimo e probabilmente il più melodico di tutta la loro produzione. Scordatevi totalmente le sferzate swedish black dei primi due o l’indurimento un po’ fine a se stesso di Angelgrinder, qua ci si muove quasi esclusivamente su tempi cadenzati e atmosferici, con un lavoro di chitarra davvero pregevole sia negli assoli che nelle parti acustiche. Sfido chiunque a togliersi dalla testa momenti di livello altissimo come il riff iniziale di Fleshbound, le atmosfere notturne e crepuscolari di Insufferable Rituals o il ritornello di A Desolate Passage, con quelle chitarre gemelle in stile maideniano, un po’ alla Naglfar di Vittra, per uno dei migliori brani mai composti dai Lord Belial. Qualche momento di stanca inevitabilmente c’è, anche perché non ci sono molte variazioni sul tema e i pezzi si muovono quasi tutti sul medesimo schema, ma sono dettagli infinitesimali per un disco che vi consiglio caldamente di rivalutare.

NIGHTBRINGER – Rex Ex Ordine Throni
Griffar: Dopo un Cd-r limitato a pochissime copie e due demo, si ripropone al pubblico Kyle Earl Spanswick aka Naas Alcameth con i suoi Nightbringer, il progetto che lo ha reso noto ai blackster di tutto il pianeta come uno dei più fertili e creativi esponenti nel settore degli ultimi vent’anni. Il suo religious black apocalittico, come se le forze del Male si scatenassero contemporaneamente per annichilire il concetto stesso di Vita in modo lento e doloroso, col tempo ha fatto scuola, così come gli altri suoi acclamati progetti Akhlys, Aoratos e Bestia Arcana, che vantano discografie di livello irraggiungibile dalla maggior parte dei compositori black più o meno recenti. Kyle non è un riciclatore, ha studiato la lezione dei Deathspell Omega, ne ha fatto tesoro per andare poi per la sua strada. Il suo stile è frenetico, frammentato, nervoso e apocalittico; preferisce contorcere e complicare anche il riff in tremolo in apparenza più semplice, ottenendo un risultato oscuro e tragico oggi inconfondibile. I quattro pezzi ascrivibili ai Nightbringer presenti in Rex Ex Ordine Throni già denotano un talento fuori dal comune, anche se ancora appartengono alla prima fase evolutiva del gruppo; assomigliano per affinità agli ultimi Lunar Aurora, se proprio si deve cercare un termine di paragone, ma occorre ribadire che quanto creato in seguito è più originale e personale. Per completezza, il disco è uno split con i Temple of Not, progetto dark ambient/synth nel quale all’epoca militava anche Naas Alcameth. Per loro due lunghi brani cupi, ma, se non siete amanti del genere, evitateli senza rimpianti. Il disco uscì in CD per Fullmoon productions e in doppio vinile per Forever Plagued, e non è mai stato ristampato.
BOLT THROWER – Those Once Loyal
Luca Venturini: Quando nel 2005 i Bolt Thrower fecero uscire Those Once Loyal nessuno immaginava che sarebbe stato il loro ultimo disco. Nemmeno loro stessi. Nei dieci anni a venire continuarono a esistere e fare tour, senza però pubblicare nuova musica perché, ormai lo sanno anche i muri, volevano fosse qualitativamente alla pari con quello che avevano fatto in precedenza. La morte del batterista Martin Kearns, avvenuta nel 2015, affossò probabilmente del tutto un morale già non alle stelle, e nel 2016 gli inglesi si sciolsero definitivamente. Visto da oggi, rimane la maniera perfetta per congedarsi dalle scene, oltretutto se si considera che proprio per questo disco ritornò lo storico cantante Karl Willetts. La band di Coventry ha sempre goduto di un rispetto invidiabile, guadagnato attraverso un death metal composto da due cose: riff e groove, groove e riff. Those Once Loyal è esattamente questo. L’essenza non solo di un genere ma di una musica tutta, distillata nella sua forma più genuina. È pure molto bello. Non è un caso che siano ben 4 i brani di questo disco nella lista delle tracce più ascoltate sulla loro pagina su Spotify. Si poteva probabilmente fare una recensione più lunga, è vero, ma non credo che nel 2025 si possa dire qualcosa di nuovo su una band così inattaccabile.

WOLFCHANT – Bloody Tales of Disgraced Lands
Michele Romani: Se siete degli inconsolabili nostalgici di quel gruppo della madonna che erano i Mithotyn potete sempre provare a sentire coloro che sono sempre stati considerati i loro figliocci: i Wolfchant. Giuro che in vita mai non ho mai sentito nulla che mi ricordasse così tanto la band di Mjölby come questi giovani ragazzi bavaresi, almeno per quanto riguarda i primi due lavori, questo Bloody Tales of Disgraced Lands e il successivo e ancora più bello A Pagan Storm. Per quanto mi riguarda i Wolfchant finiscono con questi due album, da quelli dopo infatti (forse proprio per volersi distanziare da questi continui paragoni) incorporeranno influenze death e addirittura power che si tradurranno in una serie di dischi plasticosi e innocui di cui c’è da salvare poco o nulla. Quest’esordio invece è una piccola gemma di pagan black metal vecchia scuola, molto incentrato sulle melodie e su quei geniali incroci tra chitarra ritmica e solista che avevano reso grandi i Mithotyn, dei quali, come già detto, i Wolfchant riprendono praticamente tutto. Poco male, qui su Metal Skunk non si disdegnano affatto i gruppi clone, soprattutto quando se ne escono, come in questo caso, con pezzi micidiali come Clan of Cross, I Am War o The Betrayal. C’è giusto qualche ingenuità tipica di una band al debutto e una produzione non proprio eccelsa, problemi che verranno risolti col successivo A Pagan Storm che resta ancora oggi l’album più noto e anche il migliore dei Wolfchant.

ARMAGGEDON – Imperium wird durch das Blut wieder aufleben
Griffar: Questo è il secondo album dei cattivissimi francesi Armaggedon, pure loro iperproduttivi nei primi anni di carriera (14 titoli tra il 2002 e il 2005) salvo poi rallentare fin quasi a fermarsi (“solo” altri 8 da allora ai giorni nostri, sebbene 5 di essi siano full-length). Molti dei titoli sono comunque autoprodotti, decisamente underground e oramai assai complicati da rintracciare, oltretutto andavano sold-out immediatamente e le speranze di trovarli tutti anche all’epoca tendevano al nullo. Una buona parte poi sono banditi quasi ovunque, per via delle tematiche non proprio amichevoli trattate nei testi. L’album consta di sette tracce originali più una cover di The Gate of Nanna dei Beherit, cosa che anticipa e ribadisce quanto possiamo ascoltare nell’opera: black metal ortodosso, minimale, pesantemente influenzato dai DarkThrone quando spingono sull’acceleratore e dai Celtic Frost quando si cimentano con partiture ai confini del thrash più grezzo. Di durata limitata alla mezz’ora, il disco scorre via veloce grazie a semplici riff lineari quasi orecchiabili e a brani di lunghezza ridotta (il più lungo è Masturbate on the Altar of God di cinque minuti, si noti il titolo floreale) privi di qualsivoglia orpello. Sin da subito assurti allo status di culto, gli Armaggedon hanno in pratica suonato sempre nello stesso modo, di conseguenza è probabile che, nel caso non li conosciate, se gradite questo disco lo stesso vi capiterà con tutti gli altri. Non aspettatevi nulla di sconvolgente tuttavia, doti compositive e strumentistiche sopraffine o strabordante creatività; questi francesi propongono black metal elementare, terra-terra e nulla più, con la musica che spesso si riduce a contorno per contenuti estremisti invece di essere la questione centrale.

DEVOURMENT – Butcher the Weak
Ciccio Russo: Emarginato a metà anni ’90 dall’esplosione del black metal, agli sgoccioli del millennio il death di scuola Usa si prese una clamorosa rivincita. Da una parte Nile e Dying Fetus rilessero il filone in un’ottica più tecnica e matura che ebbe un’influenza incalcolabile sulle generazioni successive. Dall’altra venne fuori una progenie deforme animata dall’unico intento di suonare la musica più brutale e claustrofobica che si fosse mai sentita. Capofila di questa tendenza furono Disgorge e Devourment, due gruppi accomunati, oltre che dal suono fognario, da una carriera travagliata e discontinua. Il cantante dei secondi, Ruben Rosas, fu arrestato per violazione della libertà vigilata nel giugno del 1999, il giorno stesso dell’uscita del debutto Molesting the Decapitated (memorabili le interviste rilasciate dal carcere). La band si sciolse e si riformò almeno un paio di volte e un secondo disco sarebbe uscito solo sei anni dopo, con una precaria formazione a tre che constava di un nuovo batterista, un nuovo cantante (ma solo su metà delle tracce) e il finalmente libero Rosas a occuparsi di tutto il resto. Pur violentissimo, velocissimo e cattivissimo, con titoli come Fuck Her Head Off che oggi scatenerebbero la Digos dell’internet, Butcher the Weak è un disco molto più potabile ed equilibrato del predecessore, anche perché dopo l’avvento dei Brodequin fare di peggio era diventato impossibile. La produzione è più nitida, la scrittura più dinamica, non c’è più il rullante-fustino, la voce non è più così inintelligibile, nei riff fa capolino qualche vago barlume di armonia. Tutte caratteristiche che verranno esaltate nella riregistrazione uscita l’anno successivo, quella con la copertina virata in giallo, Majewski dietro il microfono per tutta la scaletta e un ragazzo nuovo a occuparsi del basso. Per la cronaca, preferisco questa seconda versione.

SCOTT STAPP – The Great Divide
Alessandro Colombini: Ho sempre avuto un debole per il post-grunge dei primi duemila, in particolare per i Creed di Mark Tremonti, in particolare, per Scott Stapp e la sua voce imperfetta e malinconica. Pur amando la successiva incarnazione negli Alter Bridge, penso che il vero valore aggiunto della band fosse lui. Mi è sempre stato simpatico senza particolari motivazioni, e scopro solo oggi che i problemi mentali che gli hanno procurato la rottura con i vecchi compagni erano dovuti a un disturbo bipolare, causa che mi sta particolarmente a cuore avendo vissuto le conseguenze della malattia. Le stranezze della vita: ora capisco ancora meglio questo “legame” che ho sempre percepito. Scott, in questa sua prima prova da solista, vuole proseguire il discorso musicale dei primi Creed, senza i sofismi e i tecnicismi tipici del vecchio amico. il risultato alterna momenti ottimi ad altri dimenticabili, ma riesce a trasmettere quella sensazione generale di malinconia propria della sua vecchia band. Prima parte un po’ più dura e una seconda parte invece più introspettiva, in particolare nel singolo Surround me e nella conclusiva Broken, con dei testi che paiono vagamente indirizzati ai vecchi compagni. Un buon album per quelle mattine dove ti svegli, non sai se essere incazzato o depresso e per non rischiare di sbagliare scegli entrambe le opzioni.

DARVULIA – L’alliance des Venins
Griffar: L’alliance des Venins è il secondo Lp dei francesi Darvulia (il nome deriva da una strega ungherese che frequentava assiduamente la ben più celebre Elizabeth Bathory), arriva a tre anni di distanza dal precedente L’ombre Malicieuse, che aveva fatto circolare parecchio il moniker nei circuiti underground, e rappresenta un notevole passo avanti per ciò che riguarda la composizione e la stesura dei brani, oltre che per un’assai migliorata perizia strumentale. I riff diventano inconsueti, strani, obliqui, e certi stacchi, sottolineati egregiamente da A. (Andy Julia, eccellente batterista anche di Celestia, Nuit Noire e session per i Peste Noire tra gli altri) sembrano derivare dal rock fusion più acido. Si raggiungono sovente alte velocità di stampo darkthroniano, ma ciò che aleggia è un senso di caos organizzato che, applicato al black metal e al suono slabbrato delle chitarre, conferisce a tutti i pezzi caratteristiche significativamente macabre e malvagie. A un disco black si può chiedere poco di più, indubbiamente. Basso in discreta evidenza che spesso dà l’impressione di portarsi in spalla i brani e un cantato in screaming non eccessivo ma assai demoniaco completano il quadro di un album che non contiene una sola nota superflua o sbagliata nel corso dei sui 35 minuti di durata. Uno dei migliori episodi del metallo nero francese post-Black Legions. La band si è sciolta nel 2015 dopo aver realizzato un terzo album (Mysticisme Macabre, 2010) e uno split con i Sektarism. La siciliana War Against Yourself ha pubblicato nel 2022 un CD contenente le demo e i pezzi rari.

KHOLD – Krek
Michele Romani: Dei Khold abbiamo già parlato diffusamente su Metal Skunk sia io che Griffar in termini non esattamente entusiastici, ragion per cui su questo Krek non starò a dilungarmi più di tanto. Trattasi infatti del solito disco di black metal rockeggiante con quel tipico suono che avevano tutti i gruppi della Moonfog a cavallo degli anni 2000. Brani quasi sempre brevi e pieni di groove, qualche riferimento ai vecchi Darkthrone, soliti rimandi al black‘n roll e solita fastidiosa sensazione di sentire sempre lo stesso pezzo, visto che lo stile rimane il medesimo per tutto l’album. Qualche episodio con un bel tiro c’è (Byrde ad esempio ti fa scapocciare che è un piacere) ma sono casi isolati: i Khold sono un gruppo da playlist (o compilation, come dicevamo noi antichi), ascoltare un loro lavoro dall’ inizio alla fine senza emettere sbadigli è sempre impresa piuttosto ardua.
SEVERE TORTURE – Fall of the Despised
Luca Venturini: Con Fall of the Despised i Severe Torture si presentarono al pubblico non più semplicemente come un gruppo devoto al suono dei Cannibal Corpse, ma con un suono più maturo e tecnico. Non che questo fosse necessario perché, pur non essendo così originali, gli olandesi avevano già fatto un paio di album decisamente godibili. Però si percepiva, o almeno io percepivo, una certa ambizione in loro. Ecco che quindi i ragazzi alzano qui la proverbiale asticella facendo, con questo terzo disco, un notevole, ottimo lavoro di chitarre e sezione ritmica. Riascoltato oggi mi pare prenda molto spunto sia dallo stile sia dal suono dei Dying Fetus, senza però esserne un semplice copia, dato che i Severe Torture sono meno complessi ma più melodici. Non che Fall of the Despised, come qualsiasi altro disco loro, abbia sconvolto il death metal dalle fondamenta, però ha personalità e lo si ascolta ben volentieri.

BLODULV – III: Burial
Griffar: Andava di moda in quei tempi già lontani celare la propria identità se si faceva parte del circuito black. Non che lo facessero tutti, ma non era inconsueto imbattersi in entità come i Blodulv, dei quali si sa solo che erano svedesi e poco altro. Esponenti di spicco della “generazione Total Holocaust Records”, quindi devoti al black metal più oscuro e basilare, tendente al minimale, qui in Italia non hanno mai goduto di chissà quale considerazione. Assai prolifici, sono esistiti per tre anni tra il 2002 e il 2005 e hanno pubblicato tre album, 5 split, 2 Ep e una demo, caratteristica che li accomuna a molti progetti black metal dell’epoca. III: Burial è il loro canto del cigno, e ricalca in tutto e per tutto quanto fatto in precedenza: riff black canonici, ben costruiti, suonati in modo discreto a diverse velocità in modo da non risultare monotoni o stucchevoli. La voce è uno screaming non acuto, modulato su frequenze più basse, mentre una chitarra distortissima e un basso ben presente congegnano tracce di buona fattura, seppellendo in lontananza una batteria elettronica (da loro sempre utilizzata) assai poco rilevante. Complessivamente si può dire dei Blodulv che, pur non essendo fondamentali, la loro discreta figura nel contesto l’abbiano fatta; gli è mancato l’album-picco, quello che magari ti viene una volta nella vita e sul successo del quale poi si campa di rendita. Meritano comunque un ascolto, ancorché postumo.
CRADLE OF FILTH – Peace Through Superior Firepower
Barg: Non c’è un vero motivo per cui dovrei parlarvi di questo Peace Through Superior Firepower, perché trattasi di un miserando Ep di tre tracce live tratte dall’allora ultimo disco Nymphetamine (di cui per qualche ragione non abbiamo mai parlato), ovvero Gilded Cunt, l’omonima Nymphetamine e Mother of Abominations, tutte registrate durante un concerto a Parigi. Le cose migliori dell’intera operazione sono il titolo, oggettivamente spettacolare, e il coro Ia! Ia! Cthulhu fhtagn! scandito dal pubblico all’inizio della terza traccia. La verità è che ne parlo perché questo disco mi fu regalato e quindi me lo ritrovo in casa, originale, e non l’ho mai rivenduto o dato in beneficenza ai bambini in Africa perché ha un certo valore affettivo. Nient’altro di rilevante da dire.

MÖRK GRYNING – st
Michele Romani: Dopo l’abominevole Pieces of Primal Expressionism, i Mörk Gryning tornano parzialmente sulle coordinate loro più care con questo disco eponimo, che è anche l’ultimo prima della lunghissima pausa che durerà fino al ritorno nel 2020 con l’ottimo Hinsides Vrede. Dicevo parzialmente in quanto delle sperimentazioni industriali del predecessore per fortuna non c’è traccia, anche se siamo purtroppo ancora lontanissimi dall’ammaliante black melodico dei primi due capolavori. E il problema non è tanto questo: sono proprio le canzoni a non convincere, colpa soprattutto di una produzione ultraconfusionaria che non riesce a rendere giustizia neanche ai (pochi) riff degni di nota, caratterizzati tra l’altro da una componente death molto preponderante. Meglio del predecessore ma comunque un lavoro che, una volta terminato, non hai alcuna voglia di rimettere su un’altra volta.

GREEN DAY – Bullet in a Bible
Alessandro Colombini: Che bella idea propormi per la recensione di un live dei Green Day. A chi di voi dodici lettori affezionati interessa dei Green Day più di un cazzo di niente? Ma ormai qualcosa devo scrivere, quindi parlo direttamente a te, unico piccolo lettore di questo piccolo paragrafo, ti chiamerò Il Freccia. Cosa dire di questo album? La cosa più importante di tutte è sicuramente che, al minuto 3:59 di Holiday, Billie Joe Armstrong urla “Hitler”. Per il resto questo è il live album ufficiale di American Idiot, il disco che ha proiettato i Green Day nel circolo dei nomi grossi, e infatti è suonato in uno stadio per la prima volta, con qualcosa come 130 mila biglietti venduti per due serate. Le canzoni le conosci già, almeno quelle importanti, dai. Ci sono tutte ovviamente. Però voglio soffermarmi su Jesus of Suburbia, possiamo chiamarla suite? Opera magna? Prog-pop-punk? Insomma, è qui che provano a dirci che non sono bravi solo a fare la canzoncine pop punk, ma c’è qualcosa di più. Devo dire che, pur non essendo i Green Day la mia tazza di tè in questo genere, li ho sempre apprezzati particolarmente e mi hanno fatto pensare cose come: “Sì dai, un giorno mi ascolterò la discografia completa”. Un giorno, magari. Comunque mi fa molto ridere che io possa citare Hitler ma non il chitarrista black metal che vive nei boschi francesi. Vabbè, ciao Freccia, se beccamo.

HELLVETO – Prelude to Dying
Griffar: Oramai di dischi dei polacchi Hellveto (una one-man band facente capo al solo LON – vero nome Filip Mrowiński) ve ne ho già presentati diversi. Ricordo anche di aver scritto che di dischi brutti (o meno riusciti) di loro produzione non se ne ha memoria. Prelude to Dying per impostazione differisce di poco o nulla rispetto a quanto si è potuto ascoltare in precedenza, quindi eccellente black sinfonico dalle forti tinte medievali, impostate in prevalenza su tastiere variegate e trascinanti arrangiate in modo orchestrale, maestoso, elaborato, gonfio. Una lunga strumentale di effetti dà il titolo all’album, sarebbe forse eccessiva se non servisse a presentare il feeling dell’intero disco in modo inconfutabile: Prelude to Dying è a mio parere il disco più cupo e tragico dell’abbondante produzione di LON, che poche volte nelle sue composizioni ha evocato tanto estremo disagio, ineluttabile avversità del destino e “tutto è male ciò che finisce male”: quando ha scritto questo disco doveva essere in un periodo assai infelice della sua vita. Ciò non vuole dire che il disco si accosti al depressive black, diciamo che l’epico e il pagano passano un po’ più in secondo piano rispetto a una maestosa tragicità in parte accostabile a compositori di musica classica tardo-romantica. Sette brani che, grazie a riuscite melodie e toccanti atmosfere, entrano nella mente dell’ascoltatore per restarci a lungo.
DIMMU BORGIR – Stormblast MMV
La redazione:




Ahahahahahah colpo di genio sui Dimmu. Vado a recuperare i Bolt Thrower.
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me lo ricordavo diverso benigni legge Dante 😀
comunque voglio orgogliosamente rientrare nei 12 sfrontati lettori affezionati, che goduria!
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Mai fu scritta miglior recensione per Stormblåst MMV. E in generale peste colga chiunque abbia avuto la malsana idea di riregistrare buoni album se non perfetti tipo Under the Sign of Hell o S.U.I.Z.I.D.
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Toxicity fu una botta di culo? Nu-metal? Ma chestaddì?
È un fottuto capolavoro, come se gli Slayer fossero nati in Medio Oriente e sapessero fare belle canzoni (con vere melodie e un cantante, anzi due veri).
Per il resto, della lista resto molto affezionato a Those Once Loyal. Un discone che consumai all’epoca. E mi fece appassionare sempre più al death metal.
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La riregistrazione di Stormblast poteva starci, anche solo per smettere di pagare royalties agli artisti plagiati che il grande Aarstad ebbe l’idea di fare. Il problema è che tolta la prima traccia il resto è plastica.
Il live dei Green Day è patetico come American Idiot, questi altro che insultare Bush, dovrebbero fargli un monumento perché grazie a lui hanno avuto di che parlare per anni.
Hypnotize a differenza del precedente l’ho rimosso.
Nimphetamine ricordo solo la title track che era carina, il resto è un buco nero
Blodulv me lo sonoa ndato a riascoltare ed è tanta roba
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