Sifringer vede e non provvede: DESTRUCTION – Diabolical

Al cospetto d’un uomo dagli occhi storti vado puntualmente in difficoltà. È come se mi si annebbiasse la vista, il che mi costringe a distogliere lo sguardo: lui sa il perché, io so che lui sa il perché. Anni fa mi sono ritrovato davanti a Mike Sifringer senza farci alcun caso. Oggi, mentre mi ripasso le foto promozionali con o senza di lui, e mi ripeto “ma avranno senso i Destruction senza Mike Sifringer?”, noto con gran sorpresa che, almeno in tempi recenti, il Nostro stava conciato come Beppe Marotta, l’amministratore delegato interista.
Che ad allontanare Mike Sifringer dai Destruction sia stato il suo pietrificante sguardo multidirezionale o altro, la notizia odierna è che, ancora una volta, il nuovo album della band tedesca è superiore al precedente. L’anti-notizia è che non c’è da esaltarsi: se dovessi ricorrere ai maledetti “voti” per offrire un quadro generale della situazione, è come se finalmente avessimo per le mani un disco da 6.5 che ne segue uno da 6.3, il quale a sua volta ne seguiva uno da 6.0. Ma quanti dischi fanno? La fase cruciale della loro carriera vanta sei pubblicazioni, EP inclusi, datate dal 1984 al 1990. Esclusa l’inutile parentesi mediana con Thomas Rosenmerkel, i Destruction ritornarono con All Hell Breaks Loose e, da allora, hanno messo in commercio una ridondante dozzina di robe più o meno opinabili. Tagliamo corto: The Antichrist è l’unico che occasionalmente rimetterei su.
Ne consegue che certe band non siano poi così sfortunate. I Destruction erano davvero spanne e spanne sotto i Sodom e i Kreator, e hanno avuto un culo pazzesco misto a una innata capacità di far parlare di sé fra dichiarazioni sopra le righe e un’innegabile dose di carisma insito nella figura dei due leader. I Destruction comportavano, poi, un look particolarmente forte, fra cartuccere, rigonfie selve di capelli e bellicosi intenti. In Brasile hanno dovuto molto ai Destruction. Influenze a parte, non puoi eternamente campare di rendita su Infernal Overkill, specie se cacci fuori decisamente troppi album da sei politico.
C’è un’altra cosa che fa notizia: i Destruction funzionano meglio a due chitarre piuttosto che a una, e non possiamo imputare la cosa a Mike Sifringer. Il giochino era già riuscito in passato (Release from Agony e Cracked Brain con un Harry Wilkens mai tributato a sufficienza) e si è ripetuto a pieni voti, pur non senza qualche controindicazione, all’uscita di Born to Perish. In quell’occasione l’ingresso di una seconda sei corde (lo svizzero Damir Eskic) produsse ben poco rumore. Eppure era andato tutto quanto benone.
Oggi tocca a Martin Furia. Uno che si chiama Martin Furia te lo immagini arrivare allo studio di registrazione pompando in seconda marcia il motore d’una Ferrari Testarossa, scendendo con due stivali con la punta allungata a teschio simile a quelli indossati dai gemelli Salamanca e scatarrando rumorosamente sull’auto adiacente (che per pura casualità appartiene a Schmier). Te lo immagini che entra coi riflettori e la musica alta tipo i wrestler. Oltretutto, Martin Furia è argentino, il che, in virtù della tamarraggine sudamericana, dà piena plausibilità allo scenario descritto sopra. Martin Furia non può essere arrivato alle audizioni che così.
Scendendo in dettaglio, l’alchimia fra i due chitarristi è superiore a quella percepita fra Sifringer ed Eskic. Diabolical, che vanta una copertina davvero ributtante, si fa ascoltare specie per la bontà dei suoi riff e per la cura delle sue partiture. Niente di eclatante, sia chiaro: in ciò lo scettro resta e resterà saldamente in mano a Release from Agony, ma finalmente non si ha l’impressione di fruire d’un qualcosa di buttato giù in fretta e furia tanto per ottenere “l’album nuovo”, cosa che, fin dal successore di Metal Discharge, ebbi l’impressione di notare con un po’ troppa facilità. Poc’anzi ho parlato di controindicazioni: ebbene, molti brani dei Destruction suonano veloci e hanno un piglio sfacciatamente slayeriano, con tanto di attacchi alla Angel of Death (da punire con la ghigliottina, al punto che anche gli stessi Slayer ne adoperarono uno in Payback) e urlaccio a seguire. Questi non sono i Destruction che prediligo, preferendo le classiche up-tempos speed metal che negli anni Ottanta permisero loro la riuscita di brani immortali come Death Trap. Che, per inciso, è la mia canzone preferita dei Destruction. La controindicazione quale sarebbe? Che se i Destruction puntano a uno speed metal minimale la chitarra singola non si batte; e che, al contrario, sparando cartucce di grosso calibro girano meglio le composizioni ma non i pezzi, i quali risulteranno tutti gradevoli ma anche perfettamente dimenticabili. Hanno adoperato una misura di contrasto, i quattro? Ho potuto adocchiare (ed è così anche nell’album appena sfornato dai Kreator) un’appena accennata virata all’heavy metal classico, e Repent your Sins oltre ad esserne l’esempio perfetto si candida senza troppi indugi a miglior pezzo dell’album al pari con la seguente Hope Dies Last. In sostanza la prima parte di Diabolical è tutta gradevole; giunto al centro l’album ristagna e nel finale offre una sostanziale risalita. Con buona probabilità non l’apprezzerete comunque, perché tredici pezzi sono comunque troppi e, giunti al decimo, vi sarete rotti il cazzo già da diversi minuti. I gruppi di ventenni fanno i dischi di otto pezzi e li fanno benone, e nel 2022 stare a spiegare a un veterano che non c’è più il formato cd (qualcuno ora ribatterà che sì, c’è) e che bisogna stare attenti con la durata è un tabù alto quanto il Kangchenjunga.
In conclusione, mentre gli occhi rotanti di Sifringer scrutano nel buio pur di capire quel che è accaduto alla Nave Madre, ci ritroviamo ad ammettere che il primo colpo senza il chitarrista fondatore è stato sparato bene. Ma giurerei su qualunque cosa che Diabolical non lo rimetterò su neanche una sola volta. Non so tuttavia spiegarmi il motivo per cui tante band sono implose, accartocciandosi su sé stesse, all’apice delle proprie potenzialità, e cioè intorno al quarto o quinto disco; ora che queste escono col ventesimo – o poco ci manca – è inaccettabile che non ci sia il modo di togliersele dai coglioni nonostante navighino stabilmente fra la mediocrità e la sufficienza appena acquisita, con l’aggravante di un mercato musicale inesistente. Passi discografici come il qui presente sono accettabili, magari anche gradevoli, ma cancellano poco a poco la memoria che abbiamo di un passato lucente e radioso come quello del meraviglioso thrash metal tedesco. (Marco Belardi)
Io è da anni che mi chiedo quale sia il vero colore di capelli di Schmier….l’album non l’ho ascoltato e non lo ascolterò….in gioventù ho recuperato i loro Album degli anni 80 , per completezza sull’epoca aurea del trash ma dopo All Hello breaks loose , i loro Album mi sembrano alquanto trascurabili….o sarò invecchiato io
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