SEVEN SISTERS – Shadow of a Fallen Star pt. I

Se leggo Seven Sisters è inevitabile che ripensi a quel film Netflix in cui Noomi Rapace interpretava più gente possibile; una gran rottura di coglioni, per il poco che ne ricordo, ma fortunatamente c’è una band inglese che si chiama allo stesso modo e che è fatta di tutt’altra pasta.

Il loro terzo album, Shadow of a Fallen Star pt. I, è stato sparato sul mercato (qualora ne esistesse ancora uno) all’incirca alla fine d’ottobre. Da lì ha fatto ingresso nella mia particolarissima lista di “album da ascoltare prossimamente” per uscirne indenne un attimo prima di Capodanno: ricordo, nella fattispecie, che stavo rientrando a casa da lavoro con un carico di vini a dir poco sospetto, e che, quasi distrattamente, misi i Seven Sisters su Spotify. Grave mancanza non averci pensato subito, all’uscita ufficiale. I Seven Sisters (se qualcuno alla Napalm dovesse mai imbattersi nel moniker manderebbe un convoglio di talent scout ai loro concerti, salvo poi rimanerci malissimo) sono in quattro, sono giovani e incidono per Dissonance, anch’essa inglese, la stessa di Grim Reaper ed Acid Reign. La stessa, aggiungo, che ha portato a termine con successo una trattativa con John Cyriis per rilasciare No Other Godz Before Me salvo poi accorgersi delle sue ardite scelte produttive. Vi consiglio caldamente di dare un occhio alla Dissonance, poiché sta ristampando un botto di roba storica d’un certo valore.

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Ma torniamo a loro. Shadow of a Fallen Star pt. I è sostanzialmente differente dai precedenti. Meno Angel Witch, meno classica scuola NWOBHM nel senso stretto del termine, le canzoni prendono stavolta una piega particolarmente progressiva (ma che le esenta dagli eccessi compositivi spesso rintracciabili entro certi ranghi) e virano esplicitamente dalle parti del power metal europeo. A ricorrere, piuttosto, è il profondo senso di scoglionamento principalmente merito del cantante e chitarrista Kyle McNeill, una sorta di Hetfield era 1988 coi capelli lisciati, che, partendo da una base non eccessivamente distante dal timbro di Heybourne, ne accentua la resa e l’enfasi nei toni medio-bassi. La voce di McNeill è particolarmente profonda, mai sguaiata, sempre e comunque sotto controllo. Altra vittoria eclatante, l’aver svoltato con “l’album progressivo” senza con ciò esser diventati degli efferati rompicoglioni ai limiti dello slasher. Shadow of a Fallen Star pt. I dura quaranta minuti, non uno di più; ha la canzone più ariosa (Whispers in the Dark), il ritornellone (Horizon’s Eye) e una title-track a tinte non più velatamente prog. E c’è tutto quanto il resto, senza mai ripetere per più di una volta il singolo ingrediente: l’album è vario ed essenziale, e riesce a farci percepire un’evoluzione sonora netta, forte.
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Cresciuti a pane ed Angel Witch, questi ragazzi inglesi avrebbero potuto continuare su quella stessa lunghezza d’onda, sconfinando nell’ambito delle numerose giovani band che cover band non sono ma neanche aggiungono una virgola a quanto già accaduto nel 1982. Shadow of a Fallen Star pt. I è una profonda personalizzazione del suono del 1982, talmente profonda che qua dentro quasi non riusciamo più a rintracciarlo, sostituito com’è da un qualcosa che non è il power europeo di fine anni Novanta e neanche lo speed caciarone e autoritario di certi Enforcer. Un’uscita di buonissimo spessore dunque, e un gruppo al quale forse manca giusto qualche aggiuntiva concessione all’aggressività. Trovo che non guasterebbe affatto, a patto però che non vada a sostituirsi a quanto di buono è stato messo in tavola, perché questo ibrido fra NWOBHM e power metal ai Seven Sisters riesce davvero bene. (Marco Belardi)

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