Lo stato del (folk black) metal in Transilvania: SUR AUSTRU e DORDEDUH

Mentre inizio a scrivere il pezzo è freschissima la notizia che i membri dell’ultima formazione dei Negură Bunget, orfani com’è tristemente risaputo di Negru, daranno alle stampe Zău, il terzo e conclusivo capitolo della trilogia transilvana, come ideata dall’istrionico batterista. Garantisce Prophecy Records. Onestamente, a parte la sorpresa iniziale, non è che sia scettico più di tanto per una notizia del genere. Primo, non è che si possa fare cassa con un disco a nome NB nel 2021. Secondo, se si trattasse alla fine di un vero e sentito omaggio ed il risultato fosse quanto meno al livello dei due precedenti, non avrei nulla da ridire, in realtà. E se poi la cosa finisse lì, ecco. Non è che i primi due della saga avessero proprio convinto. Ma un paio di brani di Zi erano esaltanti, pensate a Grădina stelelor. Dopo aver sentito Brad, l’anticipazione già resa disponibile in anteprima, forse preferisco sospendere il giudizio ed aspettare il resto del disco per capirne senso e consistenza nel complesso. Pare sia stato finalizzato partendo da provini e appunti risalenti a prima della morte del batterista, che avrebbe pure fatto a tempo a registrare alcune sue parti per lo meno di batteria. Intanto non è che i superstiti dell’ultima formazione dei Negura fossero rimasti con le mani in mano fino ad ora, anzi, come SUR AUSTRU hanno dato via al loro spin off e pubblicato ben due album, l’ultimo proprio a febbraio di quest’anno.

Obârșie è esattamente quello che ci si aspetta ed è una discreta mattonata: divagazioni folk, passaggi black, approccio pagan, si zompetta, si zufola, ci si scalmana, con espressione corrucciata, ché il tono è solenne, non allegrotto. Ma non è che si vada da qualche parte. Contrite atmosfere monocordi, melodie monotone e melodrammatiche (Ucenicii Din Hârtop I), pifferi assortiti, cattiveria prevedibile. Purtroppo i confluiti nelle fila dei Sur Austru non mi sembra abbiano né i numeri per affrancarsi dall’etichetta dei comprimari, né la voglia di dire qualcosa di diverso dal modello canonico. Alcuni passaggi sono proprio bruttini. Loffio e dimenticabile.

Tutt’altra pasta il secondo album dei DORDEDUH, che Charles vi aveva annunciato a inizio anno. Perdonerete il ritardo, ma dopo ascolti insistiti l’opinione di chi vi scrive ci ha messo un po’ a delinearsi, data la relativa sorpresa per il parziale cambio di rotta, la complessità di Har e la voglia di riprendere tutti i dischi precedenti anche della band madre e colmare qualche lacuna. Dato pregresso e contesto, mi sarei aspettato che i nostri avessero calcato sempre più sulle atmosfere folk vagamente esoteriche, tra l’altro di moda, esattamente come fanno i Sur Austru, ma meglio. E invece i Dordeduh stavolta hanno composto un disco che si distacca nettamente dall’ottimo precedente. Un’evoluzione netta, benché in continuità con lo spirito più sperimentale e cosmico (verrebbe quasi da dire Kosmische, vedansi le partiture di synth) che i nostri hanno portato con sé anche dopo la separazione dal vecchio sodale.

E quindi in Har di black metal ferale ne troviamo poco. Né indulgenza su cimbali, zufoli, flauti. Volendo era comprensibile già dalla copertina, con i colori nitidi e chiari e le forme geometriche, ascetiche, ideali. Har è in fondo un disco prog, fortunatamente nell’accezione migliore. Progressiva non è solo la metodologia compositiva, ma pure i riferimenti, dai classici inglesi all’ultima forma che ha assunto la carriera degli Enslaved. E se siete rimasti un po’ insoddisfatti dalle ultime due o tre uscite dei norvegesi, date una possibilità ad Har. Disco dalla gestazione lunghissima, potrebbe anche non rivelarsi subito e richiedere svariati ascolti prima che ci si entri in reale confidenza. Diviso geometricamente in due parti composte da tre lunghi brani ciascuna più interludio e coda, la prima delle due parti ha una brillantezza spiazzante. Tra armonie coinvolgenti, strumenti tradizionali perfettamente calati nella trama sonora, mai autoreferenziali, suoni nitidi, scariche violente e soprattutto melodie vocali eccellenti. L’espediente di ripetere nel finale del pezzo quella, spettacolare, di În vieliștea uitării anche in versione growl regala uno dei picchi emotivi di questo 2021.
La seconda parte è invece meno immediata, più meditativa forse, persino nella brutalità death di De neam vergur. Le cose si fanno più astratte, meno intelligibili, e con qualche svarione strumentale che forse si sarebbe potuto limare. Ma mi rendo conto che sto cominciando a fare le pulci ad un disco che non lo merita. Beh, finiamola qui, che di dischi del genere ce ne sono pochi e dobbiamo tenerceli stretti. Tanto di cappello quindi a Hupogrammos e Sol Faur. (Lorenzo Centini)
Har è un lavoro estremamente complesso, ci vogliono alcuni ascolti per apprezzarlo del tutto, ma lo ritengo una delle migliori uscite dell’anno senza ombra di dubbio. Condivido molto il paragone con gli ultimi dischi degli Enslaved, anche se trovo il sound dei rumeni un po’ più intimo, quasi una preghiera al cosmo fatta da un localino di periferia e non dai freddi fiordi norvegesi. Davvero tanta roba.
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