OLD CORPSE ROAD – On Ghastly Shores Lays the Wreckage of our Lore

Porca troia.
Sono state le uniche parole che ho detto quando le ultime note della dolcissima Waterlore svanivano come nebbia mattutina dalle casse dello stereo, quando ho ascoltato per la prima volta il Cd appena arrivato.
Mamma mia che discone! Di punti esclamativi spesso si abusa, ma qui proprio non riesco a farne a meno: il terzo disco degli inglesi Old Corpse Road fa innamorare, come tanto tempo fa fece un gruppino uscito dal niente in un’inesistente scena black metal inglese e poi diventato qualcosa di molto simile a una parata di superstar del metal estremo. O a delle rockstar, come vi pare.
Quando si parla di black metal in Inghilterra, specie se mutuato da elementi molto meno estremi come il folk, l’epic o il gothic, il primo punto di riferimento sono, sono stati e sempre rimarranno i Cradle of Filth. Il punto è: a quali Cradle of Filth si ispirano gli Old Corpse Road? Ai primi, ai primissimi rispondo io. Se anche per voi come per il sottoscritto i Cradle sono stati degli eroi epocali da The Principle of Evil Made Flesh fino a Cruelty and the Beast non potrete non amare questo disco. È quello il vero punto di riferimento della musica di questi cinque fuoriclasse (The Dreamer, batteria e atmosfere; The Bearer, chitarre e voci; The Wanderer, basso e voci teatrali; The Revenant, chitarre e voci; The Watcher, tastiere e voci), che dopo oltre un decennio di attività incidono quell’album che potrebbe, o meglio dovrebbe, consegnarli alla storia.
On Ghastly Shores Lays the Wreckage of Our Lore (su terribili spiagge giace la rovina delle nostre tradizioni) è un concept album, più o meno. Non parla di un’unica storia divisa in capitoli, in realtà è del tutto incentrato sulle leggende vittoriane e medievali che riguardano i paesaggi costieri del nord dell’Inghilterra: navi fantasma, demoni che emergono dal profondo delle acque, castelli diroccati infestati da spettri. Argomenti affascinanti che difficilmente non toccano le corde dell’anima di chi ascolta metallo estremo. Tutto l’album segue questo filo conduttore a partire dalla stupenda intro/title track, che pur essendo piuttosto breve fa entrare immediatamente nel mood dell’opera e tira fuori la prima di molte pelli d’oca grazie al suo magnifico riff portante. Di qui in avanti è un viaggio nel tempo, sia dal punto di vista concettuale che ci trasporta nel pieno delle storie terrificanti del folklore inglese (più precisamente del Northumberland, terra d’origine dei nostri), sia dal punto di vista musicale, perché riprendere quanto fatto dai primi Cradle of Filth e tentare con un discreto successo di migliorarlo non è riuscito a chiunque, in tutti questi anni.
I loro riff ammaliano, fanno venire i brividi, fanno venire le lacrime agli occhi. Se brani come Of Mist and Midnight Skies o Funeral in Carpathia vi fanno venire la pelle d’oca solo a leggerne il titolo, allora questo disco fa per voi, ed in meno di un mese lo metterete in cima alla vostra poll di fine anno, perché qui siamo su quei livelli (siderali) se non addirittura oltre. Il meglio lo danno nei brani più lunghi: Demons of the Farne da nove minuti e mezzo e la stupefacente The Ghosts of the Ruinous Dunstanburgh Castle, sedici minuti e mezzo di una bellezza così fulgida che non riesco a trovare parole sufficientemente adatte a glorificarne l’effettivo valore. Nonostante sia un disco che oltrepassa l’ora di durata è talmente vario che scorre via in un amen, perché dai Cradle riprendono la caratteristica di cambiare repentinamente riff ed atmosfere decine di volte nel contesto di una sola canzone senza fare porcherie, cosa che fu dapprima la loro fortuna e successivamente la loro sfortuna, allorquando si trovarono in difficoltà a mettere in fila due riff decenti uno dietro l’altro. Il paragone con i vecchi tempi fu inevitabile…
Molto meno gotici e folk dei Cradle, molto più ispirati dall’epic sinfonico, gli Old Corpse Road corrono il serissimo e piacevole rischio di superare i loro maestri (che negli anni più recenti qualche colpo l’hanno perso: del dopo-Midian, cioè quando praticamente hanno smesso di suonare quasi completamente black metal, a me è piaciuto solo Cryptoriana, tutto il resto è imparagonabile ai loro vecchi dischi), anche grazie agli arrangiamenti delle linee vocali. Che meritano un capitolo a parte, giacché, per quanto vero sia che il raddoppio screaming/growling è preso di peso dai Cradle, nel nostro caso i molteplici vocalist svariano dalla recitazione teatrale al canto pagano, con una serie di sfumature variegate in tal misura da rendere quasi impossibile citarne ogni peculiarità. Assai più fantasiose di quelle di Dani, anche se è ingiusto non riconoscere che il punto di riferimento è lui. In un certo senso è ovvio, dato che delle parti vocali si prendono carico praticamente tutti i membri. Menzione d’onore anche ai testi scritti in inglese forbito, altra peculiarità dei Cradle of Filth, affascinante anche se ahimè difficilissimo da tradurre.
I puristi vi diranno che anche questo non è black metal, ma lasciateli pure blaterare. Se per black metal si intendono solo e soltanto i Blasphemy è verissimo. Il fatto è che i Blasphemy avrebbero bisogno di trecento dischi per riuscire ad andare anche solo vicino a quanto gli Old Corpse Road fanno sembrare semplice. Nelle centinaia di riff, stacchi, parti ambient di tastiera, accelerazioni che tirano via la pelle di dosso e arpeggi acustici sospesi su passaggi melodrammatici, oltre ai Cradle of Filth possiamo rinvenire influenze Emperor (in Black Ship), passaggi di metal classico, rallentamenti doom primi Paradise Lost, grandiosi assoli di chitarra. Tutto questo è e sempre sarà una peculiarità del black metal moderno, capace di inglobare miriadi di modi diversi di suonare metal in uno solo, in modo che l’intero sia maggiore della somma delle sue parti. Sia dato onore allora agli Old Corpse Road, che grazie al loro indubbio talento continuano a tenere vivo un genere che ci avvince oramai da trent’anni, sfornando l’ennesimo capolavoro da includere nell’Olimpo della musica che sconfiggerà il tempo. Sono molto belli anche i dischi precedenti, ma questo è su un altro pianeta.
Generalmente io penso che dischi favolosi come questo possono essere riascoltati centinaia di volte senza che vengano mai a noia… Se avessi un centesimo per ogni volta che ho ascoltato per esempio In the Nightside Eclipse o A Blaze in the Northern Sky sarei miliardario. Ora ho un altro titolo da aggiungere alla lista di quelli che non toglierei mai dallo stereo, lo sto riascoltando adesso per l’ennesima volta e… porca troia. (Griffar)
urca…la recensione e la copertina invogliano ad ascoltarli immediatamente….
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Ascoltato attentamente, le idee, i riff e le canzoni ci sono, sono la miglior alternativa all’ascoltare i Cradle of filth dei tempi d’oro, però rispetto a questi ultimi gli manca 1) la produzione di Dusk and her embrace e, soprattutto 2) Nicholas Barker. Spiace dirlo, ma le soluzioni e soprattutto i fills del batterista degli Old Corpse sono scontati e confusionari, senza considerare il sound terribile di una batteria di non ottima qualità e mixata indecentemente. Peccato, col suono giusto sarebbe stato un disco epocale. E sinceramente non addurrei giustificazioni del tipo “ il buon vecchio sound del black metal di una volta” perché non credo fosse quella la soluzione sonora che il gruppo auspicava.
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Mah, che dirti? Io non sono un batterista ma riconosco che Barker suona meglio, da un certo punto in avanti è stato non a torto considerato uno dei migliori black drummers di sempre però secondo me il lavoro fatto dal batterista degli OCR è più che appropriato. Poi va beh, sono gusti.
Dove dissento è sulla produzione, che è un filo più pulita dei primi due Cradle e meglio così, visto che i Cradle stessi Dusk and her Embrace lo hanno ripubblicato con produzione e suoni differenti quindi proprio granché convinti non ne sono mai stati. A quei tempi era quanto di meglio possibile però il mondo è andato avanti. Ascoltati questo disco in cuffia, o meglio ancora in un hi-fi: suoni migliori non ce ne sono, e nemmeno servirebbero.
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Non voglio togliere meriti al disco, è proprio una mia deformazione professionale, quando trovo un disco che merita penso sempre a “come sarebbe potuto essere” con una produzione migliore. Per esempio se ascolto Above the Lights dei Sadist, esordio che reputo uno dei migliori ( se non il migliore ) dischi Death Melodic italiani rovinato da una produzione terribile… beh ancora oggi piango..
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